Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, 1818, Hamburger Kunsthalle di Amburgo.
“Contessa, che è mai la vita?
È l’ombra di un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.”
Giosuè Carducci, Jaufre Rudel
Precocemente attestata, la letteratura provenzale presenta una storia piuttosto atipica rispetto alle altre letterature romanze. Si trattava di una poesia d’arte composta in lingua volgare, laica, destinata a lasciare tracce indelebili su tutta la cultura occidentale anche perchè da essa prese vita tutta la lirica moderna.
Di diversa estrazione sociale, i trovatori vissero nelle corti feudali del sud della Francia, della Spagna e dell’Italia settentrionale grazie al mecenatismo dei signori, componevano testi e li musicavano, in modo che le loro poesie, affidate alla trasmissione orale circolassero nelle corti e nelle piazze, attraverso l’esecuzione dei giullari, veri e propri esecutori di testi d’autore. L’amore descritto dai trovatori era irraggiungibile perchè non corrisposto, impossibile perchè in molti casi le donne erano coniugate, lontane o di alto rango. Ciò non significa che la donna dei trovatori presenti caratteri sublimati, non si tratta della donna angelo cantata dagli stilnovisti o dai petrarchisti. Midons conserva la sua fisicità e la concretezza di oggetto del desiderio ma, nonostante ciò, la realizzazione dell’amore, il jazer, nella lirica trobadorica ricorre solo nel sogno o nel ricordo. Alberto Varvaro ha parlato a questo proposito di spazio lirico chiuso: il poeta soffre, si lamenta, invoca la fine delle sue pene d’amore ma allo stesso tempo é legato al suo destino di sofferenza perchè in fondo lo percepisce positivo.
Le notizie biografiche sui trovatori sono giunte fino a noi grazie a sintetici frammenti scritti in provenzale, chiamati Vidas. Tra i trovatori più antichi ricordiamo Jaufre Rudel, principe di Blaia, di cui ci è giunto un piccolo canzoniere di sei poesie, caratterizzato da un effetto di oscurità dovuto all’elementarità dei testi. La sua bella vida, riportata sotto in provenzale, racconta la storia del suo innamoramento ses vezer, per sentito dire, per una dama mai vista, la contessa di Tripoli, da qualcuno identificata con Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme, della cui bellezza avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia e di cui si sarebbe innamorato. Per riuscire a incontrarla, secondo la vida, Jaufre si fece crociato e partì per la Terrasanta nel 1148. In viaggio si ammalò e, morente, fu condotto a Tripoli dalla contessa. Riuscì così a vederla e a stringerla tra le braccia nella realtà per la prima e l’ultima volta, dopo averla immaginata a lungo. La vecchia scuola biografica tentò di dare un nome a questa nobildonna, si pensò anche a Eleonora d’Aquitania, regina di Francia famosa per la sua bellezza, che aveva accompagnato il marito Luigi VII alla crociata.
« Jaufres Rudels de Blaia si fo mout gentils hom, princes de Blaia. Et enamoret se de la comtessa de Tripol, ses vezer, per lo ben qu’el n’auzi dire als pelerins que venguen d’Antiocha. E fez de leis mains vers ab bons sons, ab paubres motz. E per voluntat de leis vezer, el se croset e se mes en mar, e pres lo malautia en la nau, e fo condug a Tripol, en un alberc, per mort. E fo fait saber a la comtessa et ella venc ad el, al son leit, e pres lo antre sos bratz. E saup qu’ela era la comtessa, e mantenent recobret l’auzir e•l flairar, e lauzet Dieu, que l’avia la vida sostenguda tro qu’el l’agues vista ; et enaissi el mori entre sos braz. Et ella lo fez a gran honor sepellir en la maison del Temple ; e pois, en aquel dia, ella se rendet morga, per la dolor qu’ella n’ac de la mort de lui.» | « Jaufre Rudel di Blaia fu un uomo molto cortese, principe di Blaia. E si innamorò della contessa di Tripoli, senza vederla, per il bene che ne aveva sentito dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E fece su di lei molte canzoni con delle belle melodie e semplici parole. E per la volontà di vederla, si fece crociato e si mise per mare, e in nave si ammalò e fu condotto a Tripoli, in un albergo, come morto. E fu fatto sapere alla contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese tra le sue braccia. Ed egli seppe che quella era la contessa, e in quel momento recuperò l’udito e il respiro e ringraziò Dio per averlo tenuto in vita fino a che potesse vederla; e così morì tra le sue braccia. E lei lo fece seppellire con grandi onori nella casa del Tempio; e poi, quel giorno stesso, si fece monaca, per il dolore che ebbe per la morte di lui. » |
La canzone che segue, in cui parla dell’amor de lonh, è la più famosa di Jaufre Rudel.
Lanquan li jorn son lonc en mai
m’es belhs dous chans d’auzelhs de lonh,
e quan me sui partitz de lai
remembra·m d’un’amor de lonh.
Vau de talan embroncx e clis,
si que chans ni flors d’albespis
no·m platz plus que l’iverns gelatz.
Ja mais d’amor no·m jauzirai
si no·m jau d’est’amor de lonh:
que gensor ni melhor no·n sai
ves nulha part, ni pres ni lonh.
Tant es sos pretz verais e fis
que lai el reng dels Sarrazis
fos ieu per lieis chaitius clamatz!
Iratz e jauzens m’en partrai,
s’ieu ja la vei l’amor de lonh;
mas no sai quoras la veirai,
car trop son nostras terras lonh:
assatz i a pas e camis,
e per aisso no·n sui devis…
Mas tot sia cum a Deu platz!
Be·m parra jois quan li querrai,
per amor Dieu, l’alberc de lonh:
e, s’a lieis platz, alberguarai
pres de lieis, si be·m sui de lonh.
Adoncs parra·l parlamens fis
quan drutz lonhdas er tan vezis
qu’ab cortes ginh jauzis solatz.
Ben tenc lo Senhor per verai
per qu’ieu veirai l’amor de lonh;
mas per un ben que m’en eschai
n’ai dos mals, quar tan m’es de lonh.
Ai! car me fos lai pelegris,
si que mos fustz e mos tapis
fos pels sieus belhs huelhs remiratz!
Dieus, que fetz tot quant ve ni vai
e formet sest’amor de lonh,
mi don poder, que cor ieu n’ai,
qu’ieu veia sest’amor de lonh,
veraiamen, en tals aizis,
si que la cambra e·l jardis
mi resembles totz temps palatz!
Ver ditz qui m’apella lechai
ni deziron d’amor de lonh,
car nulhs autres jois tan no·m plai
com jauzimens d’amor de lonh.
Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis,
qu’enaissi·m fadet mos pairis
qu’ieu ames e non fos amatz.
Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis.
Totz sia mauditz lo pairis
que·m fadet qu’ieu non fos amatz!
***
In maggio, quando i giorni sono lunghi,
mi piace il dolce canto degli uccelli di lontano,
e quando mi sono allontanato di là
mi ricordo di un amore lontano.
Vado per il desiderio con l’animo afflitto e triste,
così che né canto né fior di biancospino
mi sono graditi più dell’inverno gelato.
Mai godrò dell’amore
se non godo di questo amore lontano,
perché non ne conosco uno più nobile e gentile
in nessun luogo, vicino o lontano.
Il suo pregio è così autentico e perfetto
che laggiù, nel regno dei Saraceni,
fossi io tenuto prigioniero per lei!
Triste e gioioso me ne partirò,
se mai riuscissi a vederlo l’amore di lontano:
ma non so quando lo vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane:
vi sono molti valichi e strade, e perciò
sono incerto.
Ma tutto sia secondo la volontà di Dio!
Mi apparirà la gioia quando le chiederò,
per amore di Dio, l’ospitalità di lontano,
e, se a lei piace, abiterò presso di lei,
benchè sia di lontano.
Allora sarà bella la conversazione,
quando l’amante lontano sarà tanto vicino,
che sarà consolato dalle belle parole.
So bene che il Signore è veritiero,
per questo io vedrò l’amor lontano;
ma per un bene che ne traggo
ne ho due mali, tanto sono lontano.
Ahi! fossi andato laggiù da pellegrino,
così che il mio bastone e la mia schiavina
fossero visti dai suoi begli occhi!
Dio che fece tutto ciò che viene e va
e creò questo amor lontano
mi dia la possibilità, che io certo lo voglio,
di vedere questo amor lontano;
veramente, in tale intimità
che la camera e il giardino
mi ricordino sempre dei palazzi!
Dice il vero chi mi chiama avido
e desideroso dell’amor lontano,
perchè nessun’altra gioia mi piace tanto
come il godere dell’amore di lontano.
Ma ciò che voglio mi è negato,
che così mi stregò il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.
Ma ciò che voglio mi è vietato.
Sia maledetto il padrino
che mi ha stregato in modo che io non fossi amato!
La canzone è formata da sette strofe, coblas unissonans, di sette versi ciascuna, seguite da un “congedo” di tre versi che riprende gli ultimi tre versi della strofa precedente; il secondo e quarto verso di ogni stanza termina con la stessa parola-rima o mot-refranh lonh, in occitanico, “lontano”.
A parte l’enigmatico riferimento al padrino nell’ultima stanza e nella tornada, che l’avrebbe predestinato a non essere felice con la scelta del nome, Jaufre infatti significherebbe “freno alla gioia”, la canzone non presenta difficoltà di interpretazione. Nella strofa iniziale è evidente il topos del locus amoenus, in questo caso il paesaggio primaverile favorevole all’amore è messo in contrasto con lo stato d’animo malinconico in cui versa il poeta, a causa della lontananza della donna amata. Nel componimento i numerosi riferimenti alla Terrasanta confermano l’ipotesi che la donna sia vissuta laggiù, benché l’identificazione con la contessa di Tripoli sia tutt’altro che certa. Si fa riferimento anche al bastone detto bordone e alla schiavina, soprabito lungo e ruvido, accessori tipici del pellegrino dell’epoca. Parallelamente a questa vi è anche una lettura allegorica: per Carl Appel l’amore lontano è quello per la Vergine, per Grace Frank invece è l’amore per la Terrasanta da strappare ai musulmani. Successivamente i saggi di Mario Casella, Salvatore Battaglia e Leo Spitzer contruibuirono a interpretare ulteriormente l’amor de lonh rudelliano. Battaglia ad es. ha scritto che Rudel canta la nostalgia servendosi di una voluta e calcolata ambiguità. Spitzer invece ha scritto che la lontananza dell’oggetto amato è la condizione essenziale dell’amore. L’amor de lonh dunque porterebbe alle sue estreme conseguenze quello che è stato definito il paradosso amoroso della lirica cortese.
Il fatto che il poeta non abbia mai visto la donna amata è in contrasto con il principio che l’amore nasca dalla vista della bellezza della donna, ragionamento espresso anche da Andrea di Luyères meglio noto come Andrea Cappellano nel De amore, trattato del 1185 tra il parodico e il didascalico dedicato all’amor cortese. Vi si parla di amore extraconiugale, che non riguarda due coniugi tra i quali non può esistere il desiderio inappagato. Picone infine ha collegato l’amor de lonh all’itinerario del cristiano alla ricerca di Dio, non dimentichiamo che i giullari si muovevano al seguito dei gruppi di pellegrini che dalla Francia si dirigevano verso il santuario di Santiago de Compostela in Galizia o verso Roma lungo la via francigena: “Alla fine del viaggio non si prospetta Dio, ragione unica dell’essere uomini, ma la Donna, ragione unica dell’essere uomini-amanti. Il perfezionamento che questo itinerario erotico comporta é mondano non religioso.”
L’amor de lonh ispirò numerosi poeti tra cui il nostro Francesco Petrarca ne Il Trionfo dell’Amore:
Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ‘l remo
a cercar la sua morte
numerosi poeti romantici del XIX sec. come Giosuè Carducci nella poesia Jaufre Rudel contenuta in Rime e ritmi, Edmond Rostand in La Princesse Lointaine del 1895, Heinrich Heine nel Romancero – letze Gedichte:
La contessa che Rudel
sulla spiaggia ormai morente
vide, e il volto riconobbe
d’ogni suo sogno struggente …
E poi Robert Browning in Rudel to the Lady of Tripoli:
Oh, Angelo dell’Est, un solo sguardo dorato, uno!
Attraverso le acque, verso il tramonto, a questo cantuccio!
– Le acque, lontane e tristi. A questo cantuccio, Angelo mio!
Algernon Charles Swimburne in The death of Rudel:
Ah! lei non mi ha ancor visto,
Ma le palpebre – bianche perle – sembrano bagnate;
Mi amerà o mi dimenticherà?
La figura malinconica di Jaufre Rudel ispirò anche Eugenio Montale, nel Diario del ’71 e del ’72, la poesia Jaufré è quella dedicata a Goffredo Parise, con questo nome infatti lo chiamava affettuosamente il poeta ligure.
Jaufrè passa le notti incapsulato
in una botte. Alla primalba s’alza
un fischione e lo sbaglia. Poco dopo
c’è troppa luce e lui si riaddormenta.
E’ inutile impresa di chi tenta
di richiudere il tutto in qualche niente
che si rivela solo perchè si sente.
Se ne ritrova l’eco anche nel Flauto magico di W. A. Mozart, in cui il nobile Tamino si innamora di Pamina dopo averne visto il ritratto e parte per salvarla dall’uomo che l’ha rapita.
Menestrelli e trovatori amavano segretamente nobildonne e castellane, irraggiungibili se non attraverso le poesie d’amore ad esse dedicate, in cui sotto un senhal, uno pseudonimo, si celava il nome dell’amata in modo che solo lei potesse sapere di essere la destinataria dei versi. Tra le principali virtù cortesi c’era infatti quella del celar, che consisteva nel nascondere l’identità dell’amata; secondo Gaston Paris, considerato l’inventore dell’espressione “amor cortese” nel 1883, l’adulterio sarebbe una delle sue condizioni essenziali. Nonostante si trattasse di amori impossibili si nutrivano di desiderio, della lontananza, del non possesso, della loro stessa irrealizzabilità.
Oggi nell’era della comunicazione sembrerebbe impossibile vivere o anche solo immaginare l’amor de lonh, un amore fatto di poco contatto e molto pensiero. A causa della fluidità che caratterizza molte relazioni sentimentali odierne, divenute fugaci ed effimere per via anche del consumismo imperante, l’uomo è mosso dall’impulso irrefrenabile di possedere persone e oggetti che lo attraggono e di disfarsene appena il bene è stato “consumato”. Ed ecco la necessità di coltivare l’amore, sia quello vicino e fruibile che quello a distanza che pure esiste. In esso, come in un romanzo, l’altro diventa protagonista di un sogno d’amore, perfetto perfino nelle incoerenze e nelle assenze: la distanza sublima l’altro rendendolo onnipresente ed eterno e permettendo di superare le categorie definite e limitate dello spazio e del tempo.
Deborah Mega
L’ha ribloggato su Deborah Mega.
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