O cari infinitamente, spariti
 
 
O cari infinitamente, spariti
dal tempo, non dai sogni, precursori
nostri nelle tenebre, voi se fuori
del buio c’è ancora buio o a più miti
 
 
consigli lo riducono i bagliori
senza gloria, gli stenti, intirizziti
aculei d’un’alba (e, ascoltando, arditi
bisbigli) voi soli potreste, a onore
 
 
d’un altro vero, dirci, amate teste,
torsi venerati, e non dite mai,
mai! perché sia intera la libertà
del nostro arbitrio, perché non celeste
 
 
ma cieca e folle e sanguinosa sia
intanto, nell’orto, qui, l’agonia.
 
 
Cerco qualche volta di immaginare
 
 
Cerco qualche volta di immaginare
la felicità, mia e dei morti, e mi sembra
che sia la vita. Forse perché chiare
nella luce che già un po’ s’insettembra
 
sono adesso le cose e a meno amare
vertigini trascina e tanta assembra
più pazienza, più requie il declinare
del tempo è come se da queste membra
 
arse e dilaniate l’immensa salma
del mondo risorgesse in una calma
radiosa e stesse al cuore assaporare
 
l’infinito dolcissimo ritardo
del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo
per come si chiamano risuonare.
 
 
Stare coi morti, preferire i morti
 
 
Stare coi morti, preferire I morti
ai vivi, che indecenza! Acqua passata.
Vedo che adesso più nessuno fiata
per spiegarci gli osceni rischi e torti
 
dell’assenza, adesso che è sprofondata
la storia… E così tocca a noi, ci importi
tanto o quel tanto, siano fioco o forti
i mesti richiami dell’ostinata
 
coscienza, alzare questa poca voce
contro il silenzio infinitesimale
a contestare l’infinito, atroce
 
scempio dell’esistente… (Al capitale
forse è questo che può restare in gola,
l’osso senza carne della parola.)
 
 
Giovanni Raboni