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L’invenzione del treno, novità progressista di fine Ottocento, con l’utilizzo del vapore, già impiegato in Inghilterra nei telai meccanici e successivamente dell’energia elettrica, e con l’ampliamento della rete ferroviaria comportarono una rivoluzione culturale senza precedenti, pari a quella di Internet per la fine del Novecento.

Il 15 settembre 1830 fu inaugurata la prima linea ferroviaria per passeggeri del mondo: la Liverpool-Manchester, mentre nel 1839 fece la sua apparizione la prima tratta ferroviaria italiana, la Napoli-Portici. L’ascesa delle ferrovie incarnando l’idea di progresso e di evoluzione tecnologica, fu praticamente inarrestabile: i chilometri di strada ferrata passarono dai 40mila nel 1850 ai 100mila del 1860, a un milione circa del 1900, trasformando definitivamente il paesaggio e modificando abitudini e mentalità. Papa Gregorio XVI definì la ferrovia un’opera diabolica e profetizzò sciagure per il genere umano tanto che solo con Pio IX fu costruita la ferrovia Roma-Frascati ma nonostante l’avversione dei conservatori il treno conquistò un ruolo di primo piano nell’immaginario collettivo e cominciò a far parlare di sé nella letteratura, nelle arti figurative e nel cinema. Anche i poeti e gli scrittori italiani si divisero fra entusiasti dell’innovazione e critici che si ersero in difesa della tradizione. Talvolta i due atteggiamenti convissero. Oltre ai sonetti dedicati a Roma e alla sua vita popolare, Gioachino Belli dedica al tema del treno diversi sonetti, in uno si identifica in un popolano conservatore e gli mette in bocca parole e luoghi comuni che circolavano nell’ambiente romano e che erano contrari al progresso. Nel sonetto Le carrozze a vvapore Belli parla del terribile strumento con sdegno e orrore.

Le carrozze a vvapore
Che nnaturale! naturale un cavolo.
Ma ppò èsse un affetto naturale
volà un frullone com’avesse l’ale?
Cqui cc’entra er patto tascito cor diavolo.
Dunque mó ha da fà ppiú cquarche bbucale
d’acqua che ssei cavalli, eh sor don Pavolo?
Pe mmé ccome l’intenno ve la scavolo:
st’invenzione è ttutt’opera infernale.
Da sí cche ppoco ce se crede (dímo
la santa verità) ’ggni ggiorno o ddua
ne sentimo una nova, ne sentimo.
Sí, ccosa bbona, sí: bbona la bbua.
Si ffussi bbona, er Papa saría er primo de mette ste carrozze a ccasa sua.

Per Carducci, ad es. in Inno a Satana, pubblicato nel 1865,  la locomotiva “satanica” scuoterà le menti offuscate dall’ignoranza e dal fanatismo cristiano. L’opera fa parte della raccolta Levia Gravia e fu definita dallo stesso Carducci una “chitarronata”, scritta per essere letta come brindisi ad un banchetto di amici…

[…]

Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:

Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;

Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;

Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,

Come di turbine
L’alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.

 

mentre in Alla stazione in una mattina d’autunno, composta tra il 1875 e il 1877 e inclusa nelle Odi barbare, il treno, “empio mostro” dotato di “metallica anima”, porta via Lina, la donna amata dal poeta. Nella lirica, dominata dal contrasto tra lo squallore del presente e il ricordo caldo del passato, con i suoi valori di amore e bellezza, il progresso tecnico e la vita moderna sono respinti in quanto causa di tedio, che rende gli uomini simili a inerti fantasmi e la vita a un lugubre inferno.

 

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso.

[…]

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.

[…]

Tra gli Scapigliati, Emilio Praga nella poesia La strada ferrata composta nel 1860 e dedicata a Cletto Arrighi, analizza il tema del treno ricostruendo il contesto di grandi cambiamenti urbani indotti dallo sviluppo della ferrovia a Milano e manifestando l’oscillazione tra esaltazione del progresso e il rimpianto per la bellezza della natura profanata. Individua poi nel treno il simbolo del progresso che irrompe in un piccolo villaggio e genera un importante confronto tra civiltà contadina e modernità. Il poeta infine si sofferma a riflettere che l’arte può continuare a esistere in una società dominata dalla tecnologia e da una mentalità commerciale.

A CLETTO ARRIGHI

Addio, bosco di frassini ombrosi,
ondeggianti campagne di biade!
del villaggio tranquille contrade
dove giuocano i bimbi al mattin.
Addio, pace de’ campi pensosi,
solitarie abitudini, addio;
l’operaio sul verde pendìo
già distende il ferrato cammin.
Passerà nell’antico convento,
sulle fosse dei monaci estinti;
se all’inferno non giacciono avvinti
lo sa Iddio che stupor li corrà!
Dove il cantico, inutile, lento,
si perdea per la pinta navata,
volerà, dal suo genio portata,
via, fischiando, la scettica età.
Che terrori nel nido latente
degli ignari augelletti quel giorno!
Da tugurio a capanna d’intorno
che susurro, che ciancie, quel dì!
Che dirà questa povera gente,
cui repente – il miracolo appare ?
Vecchierelli, aspettate a spirare
quando giunta la strada sia qui.
Che diran gli infelici cui preme
la tremenda miseria del pane?
E cui nulla concede il dimane,
nella vita, che affanni e sudor?
Quando accanto all’aratro, che geme
lentamente nei solchi girando,
scorrerà, quasi ai pigri insultando,
l’uragano del nostro vapor?

Anche Giovanni Pascoli, in La via ferrata (1886), pubblicata nella seconda edizione di Myricae, descrive la campagna emiliana dominata dall’immagine delle mucche al pascolo, descrizione bruscamente interrotta dalla comparsa della “via ferrata”, composta dai fili del telegrafo e dalla ferrovia che trasporta i treni, simbolo di progresso e di libertà. Il paesaggio silenzioso è scosso dal rumoroso passaggio del treno e dal ronzio dei fili del telegrafo.

Tra gli argini su cui mucche tranquilla-
mente pascono, bruna si difila
la via ferrata che lontano brilla;

e nel cielo di perla dritti, uguali,
con loro trama delle aeree fila
digradano in fuggente ordine i pali.

Qual di gemiti e d’ululi rombando
cresce e dilegua femminil lamento?
I fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora, al vento.

Nel Novecento, i futuristi esaltano il dinamismo rappresentato dalle macchine e le illimitate capacità umane di modificare la natura. Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto del Futurismo esalta “le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi”; i pittori Carrà, e Boccioni rappresentano la velocità delle carrozze che squarciano la notte. Luigi Pirandello nella novella Il treno ha fischiato di cui ho già scritto QUI, pure attribuisce al treno il grande potere di evasione e di fuga dall’alienazione della vita quotidiana. Il fischio del treno con il suo effetto salvifico se pur illusorio permette al ragionier Belluca di sfuggire a una realtà triste e opprimente. Il tema del treno compare anche in Addii, fischi nel buio, cenni, tosse incluso ne Le occasioni di Eugenio Montale che descrive la partenza della donna amata, il clima autunnale, i suoni metallici, gli altri passeggeri, la folla anonima cui il poeta non vorrebbe che Clizia si mescolasse perché hanno rinunciato alla loro autenticità.

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse
e sportelli abbassati. è l’ora. Forse
gli automi hanno ragione. Come appaiono
dai corridoi, murati!
[…]

– Presti anche tu alla fioca
litania del tuo rapido quest’orrida
e fedele cadenza di carioca? –

Nel 1965, nella poesia Congedo del viaggiatore cerimonioso, letta QUI da Francesco Palmieri, Giorgio Caproni vede nel viaggio in treno una metafora della vita, di cui non ci resta che aspettare l’ultima fermata.

 

Deborah Mega