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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Giovanni Pascoli

Il delitto Pascoli: un caso irrisolto

27 lunedì Feb 2023

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Poesie

≈ 1 Commento

Tag

Giovanni Pascoli, La cavalla storna, Ruggero Pascoli, X agosto

 

Il 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, padre di Giovanni, venne assassinato con una fucilata da due sicari, appostati all’altezza di Savignano, mentre tornava a casa sul suo calesse, a San Mauro di Romagna, l’odierno San Mauro Pascoli. A quel tempo il brigantaggio affliggeva la zona e non era la prima volta che un fattore venisse ucciso dalla criminalità locale. Ruggero Pascoli era stato più volte assessore comunale ed esponente del partito repubblicano del paese, da oltre dieci anni, inoltre, era amministratore della tenuta agricola La Torre dei principi Torlonia. La posizione economica di Ruggero garantiva a lui e alla numerosa famiglia, aveva infatti dieci figli, un tenore di vita piuttosto agiato e suscitava numerose invidie e malcontenti. A quel tempo il poeta aveva dodici anni e studiava nel collegio degli Scolopi di Urbino. La sera dell’omicidio, Ruggero avrebbe dovuto incontrare l’ingegnere Achille Petri, un inviato dei Torlonia, per rinnovare l’incarico di amministratore. All’appuntamento però l’ingegnere non si presentò. Il mandante dell’assassinio rimase sconosciuto, la gente del luogo però sapeva chi fosse il responsabile ma taceva per paura di ritorsioni e per omertà.  Il prefetto attribuì la fine di Ruggero ai repubblicani estremisti che lo consideravano un traditore, poiché si era schierato con i liberali monarchici; la famiglia Pascoli, invece, indirizzò le indagini nell’ambiente lavorativo. Il magistrato che si occupò dell’inchiesta indagò due criminali di Cesena, che furono però prosciolti. Per molti e per la famiglia, i due sicari agirono su mandato di chi voleva succedere a Ruggero nel prestigioso incarico, secondo Giovanni, il mandante aveva partecipato all’esecuzione del delitto. Questa tesi emerge in un film del 1953, di Giulio Morelli, intitolato La cavallina storna e ispirato alla poesia La cavalla storna, unica testimone del delitto. Il delitto rimase impunito e venne archiviato dalla magistratura, dopo tre processi, come “commesso da ignoti”. Due altri imputati, accusati di essere sicari a pagamento di casa Torlonia, dapprima furono condannati in primo grado e in seguito furono assolti. Il poeta fece anche delle indagini personali e ritenne che i due criminali Luigi Pagliarani e Michele Della Rocca avessero agito su incarico di tale Pietro Cacciaguerra, l’uomo che l’anno dopo la morte di Ruggero Pascoli prese il suo posto nell’amministrazione della tenuta con l’aiuto dell’ingegnere Petri. Cacciaguerra aveva fatto fortuna in Sudamerica, era poi ritornato a Savignano divenendo un signorotto prepotente che aveva avuto dei contrasti con Ruggero (notoriamente uomo onesto e corretto). Era possibile anche che il principe Torlonia sapesse la verità sul delitto e per timore di ritorsioni, abbia dato perfino il suo assenso. La famiglia Pascoli dovette così abbandonare la tenuta e si trasferì a San Mauro, nella casa materna che sarà venduta qualche anno dopo per le difficoltà economiche. I Torlonia revocarono la sovvenzione alla famiglia di Ruggero. Caterina Vincenzi Alloccatelli, madre di Giovanni, appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà rurale, sopravvisse solo per pochi mesi dopo la morte del marito, colpita da un attacco cardiaco; poco più tardi morirono di malattia i figli Margherita e Luigi, Giacomo, invece, morì mentre ricopriva la carica di assessore comunale e pare conoscesse personalmente coloro che avevano partecipato al complotto per uccidere il padre. La giovane moglie di Giacomo pretese parte della scarna eredità e mandò completamente in rovina la famiglia. Gli altri figli, Raffaele e Giuseppe, si allontanarono progressivamente dal nucleo famigliare, Giovanni, dopo una gioventù tumultuosa in cui finì anche in carcere per motivi politici, si fece carico della famiglia con il proprio stipendio da insegnante, richiamando presso di sé le sorelle Ida e Maria con l’intento di ricostituire il nucleo famigliare. Unica consolazione: il 10 agosto di ogni anno Giovanni inviava a Pietro Cacciaguerra, colui che riteneva l’assassino del padre, un biglietto listato a lutto, con la dicitura p.r. (per ricordare).  Cacciaguerra lasciò l’incarico nella tenuta nel 1875; il successivo amministratore della tenuta, qualche anno dopo, confermò al poeta che i suoi sospetti erano fondati e che “ci aveva preso nel mezzo” ma gli consigliò di non indagare oltre. Dopo che il presunto mandante morì, Pascoli lo raffigurò, nella poesia Tra San Mauro e Savignano, come un’anima che non trova pace neanche dopo la morte proprio a causa del delitto impunito. Nel 2014 Rosita Boschetti nel libro Omicidio Pascoli. Il complotto, edito da Mimesis, racconta la storia del complotto sulla base di documenti inediti, frutto di meticolose ricerche d’archivio. Il drammatico evento gettò sull’anima sensibilissima del poeta un’ombra che si fece sempre più cupa negli anni della maturità e segnò irrimediabilmente il poeta. In molte sue poesie, infatti, è trattato l’argomento della morte del padre. Oltre alla poesia citata, in X agosto, pubblicata per la prima volta ne Il Marzocco del 9 agosto 1896 e poi inserita in Myricae del 1897, che reca la dedica “A Ruggero Pascoli, mio padre“, il poeta rievoca la morte del padre, avvenuta proprio nella notte di San Lorenzo. Il tragico evento gli suggerisce l’interpretazione del fenomeno delle stelle cadenti, molto evidente in quella notte e identificate con le lacrime del cielo per la malvagità che regna sulla Terra. Il componimento è costituito da sei quartine di decasillabi e novenari a rima alternata, secondo lo schema ABAB.

 

X agosto

 

San Lorenzo, Io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

 

La poesia è incentrata sul paragone tra la morte della rondine che portava nel becco un insetto, cena dei suoi rondinini e quella del padre, entrambi vittime innocenti di un mondo violento. Lo stesso titolo evoca l’immagine della croce, simbolo della sofferenza del poeta, ribadita anche dal paragone con la rondine caduta e rimasta a terra con le ali aperte come crocifissa. Vi ricorre l’immagine del nido, spesso presente nella poesia del Pascoli, metafora della famiglia, luogo di affetti, che offre protezione dalla crudeltà del mondo circostante. Nell’ultima strofa si mette in evidenza la contrapposizione tra il cielo, infinito e immortale, e la Terra, atomo opaco del male, inondata di un pianto di stelle. L’altra poesia in cui il poeta rievoca con dolore la morte del padre è La cavalla storna, composta nel 1903 e inserita nei Canti di Castelvecchio, testo molto commovente e suggestivo. La poesia è costituita da trentuno strofe di distici di endecasillabi a rima baciata.

 

La cavalla storna

 

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.

“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa’ cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

 

La scena si svolge di notte, nella stalla, in un silenzio irreale in cui è possibile ascoltare solo il fruscio dei pioppi mossi dal vento. La madre del poeta sta parlando con l’unica testimone del delitto, la cavalla detta «storna» per il colore del manto grigio pezzato da macchie bianche. Nell’immaginazione del poeta la cavalla, spaventata dagli spari che uccisero il padre, proseguì per un tratto, trasportando il corpo di Ruggero e lo condusse a casa, al nido violato. Emerge la contrapposizione tra la viltà e l’omertà degli uomini proprio perché il delitto restò irrisolto dunque impunito e la serenità e la purezza della natura a cui appartiene la cavalla, perché lei ha visto ma non può parlare. L’impossibilità dell’animale di rispondere alle domande della madre sulle circostanze dell’omicidio di Ruggero si risolve alla fine in un sorprendente nitrito con cui la cavalla sembra confermare all’ascolto il nome del presunto assassino, pronunciato dalla madre del poeta. La cavalla, umanizzata dal poeta, si fa carico dell’ingiustizia e del dolore causato dagli uomini.

 

 

©Deborah Mega

 

 

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Guarda che luna! Le mille lune dei poeti

02 lunedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Tag

Alda Merini, Charles Baudelaire, Federico Garcia Lorca, Gabriele D'Annunzio, Giacomo Leopardi, Gianni Rodari, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Luigi Pirandello

Il 20 luglio 1969, cinquant’anni fa, Neil Armstrong, Michael Collins e Edwin Aldrin Buzz giungevano sulla luna a bordo dell’Apollo 11 e questo evento rappresentò un’importante svolta, un grande passo per l’umanità. Da sempre la Luna, unico satellite naturale della Terra, ha ispirato mitologie, leggende e credenze, poeti, scrittori, registi, musicisti. Personificata dalla dea Selene, fu considerata influente sui raccolti, le carestie e la fertilità. Condiziona la vita sulla Terra di molte specie viventi, regolandone il ciclo riproduttivo, agisce sulle maree e la stabilità dell’asse di rotazione terrestre. La raccolta che segue rappresenta una breve carrellata di testi poetici che trattano l’argomento.

*

TRISTEZZA DELLA LUNA

Più pigra, questa sera, sta sognando la luna:
bellezza che su un mucchio di cuscini,
lieve e distratta, prima di dormire
accarezza il contorno dei suoi seni,

sulla serica schiena delle molli valanghe,
morente, s’abbandona a deliqui infiniti,
e volge gli occhi là dove bianche visioni
salgono nell’azzurro come fiori.

Quando su questa terra, nel suo pigro languore,
lascia che giù furtiva una lacrima fili,
un poeta adorante e al sonno ostile

nella mano raccoglie quell’umido pallore
dai riflessi iridati d’opale, e lo nasconde
lontano dagli occhi del sole, nel suo cuore.

CHARLES BAUDELAIRE, Traduzione di Giovanni Raboni

 

TRISTESSES DE LA LUNE

Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse;
Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins,
Qui d’une main distraite et légère caresse
Avant de s’endormir le contour de ses seins,

Sur le dos satiné des molles avalanches,
Mourante, elle se livre aux longues pâmoisons,
Et promène ses yeux sur les visions blanches
Qui montent dans l’azur comme des floraisons.

Quand parfois sur ce globe, en sa langueur oisive,
Elle laisse filer une larme furtive,
Un poète pieux, ennemi du sommeil,

Dans le creux de sa main prend cette larme pâle,
Aux reflets irisés comme un fragment d’opale,
Et la met dans son cœur loin des yeux du soleil.

*

CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dì natale.

GIACOMO LEOPARDI

*

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

GIACOMO LEOPARDI

*

 

POTESSERO LE MIE MANI SFOGLIARE LA LUNA

Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.

Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.

T’amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

FEDERICO GARCIA LORCA, Traduzione di Claudio Rendina

 

SI MIS MANOS PUDIERAN DESHOJAR

Yo pronuncio tu nombre
en las noches oscuras,
cuando vienen los astros
a beber en la luna
y duermen los ramajes
de las frondas ocultas.
Y yo me siento hueco
de pasión y de música.
Loco reloj que canta
muertas horas antiguas.

Yo pronuncio tu nombre,
en esta noche oscura,
y tu nombre me suena
más lejano que nunca.
Más lejano que todas las estrellas
y más doliente que la mansa lluvia.

Te querré como entonces
alguna vez? Qué culpa
tiene mi corazón?
Si la niebla se esfuma,
qué otra pasión me espera?
Será tranquila y pura?
Si mis dedos pudieran
deshojar a la luna!

*

L’ASSIUOLO

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi: 
chiù…

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto: 
chiù…

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte… 
chiù…

GIOVANNI PASCOLI

*

O FALCE DI LUNA CALANTE

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ’l vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

GABRIELE D’ANNUNZIO

*

SULLA LUNA

Sulla luna, per piacere,
non mandate un generale:
ne farebbe una caserma
con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere
sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte
per mostrarlo a pagamento.
Non mandateci un ministro
col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie
i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta
sulla Luna ad allunare:
con la testa nella luna
lui da un pezzo ci sa stare…
A sognar i più bei sogni
è da un pezzo abituato:
sa sperare l’impossibile
anche quando è disperato.
Or che i sogni e le speranze
si fan veri come fiori,
sulla luna e sulla terra
fate largo ai sognatori!

GIANNI RODARI

*

VEGLIA

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

GIUSEPPE UNGARETTI

*

CANTO ALLA LUNA

La luna geme sui fondali del mare,
o Dio morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento
quanto basti per darti
un unico bacio d’amore.

ALDA MERINI

*

«Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. / Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. / Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era: ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? / Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. / Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! / E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».

LUIGI PIRANDELLO, da Ciaula scopre la luna, Novelle per un anno

 

 

 

 

 

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