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LIMINA MUNDI

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Archivi della categoria: CRITICA LETTERARIA

“Il taccuino dell’ospite” di Michele Zacchia, RPlibri, 2024. Una lettura di Rita Bompadre.

24 lunedì Nov 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Note critiche e note di lettura

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Tag

Michele Zacchia, Rita Bompadre

 

“Viaggio spesso, non torno sempre” (frase scritta su un muro di Roma): questa intestazione, in epigrafe al libro “Il taccuino dell’ospite” di Michele Zacchia (Rplibri, 2024 pp. 64 € 12.00) anticipa il contenuto e il significato del viaggio poetico dell’autore lungo le incrinature nascoste dei luoghi, la visione simbolica che restituisce agli occhi e all’anima il sentimento dello spazio, i meandri di un linguaggio metaforico, nella densità espressiva delle parole. Michele Zacchia percorre un itinerario di scoperta ancestrale e di ricerca personale nel percorso esistenziale, segnato dal rifugio dell’accoglienza e dall’immediatezza delle sensazioni, incrocia turbamenti inattesi, indica la dispersione del silenzio, combinando l’ispirazione misteriosa per ogni richiamo sconosciuto nell’incognita di ogni previsione emotiva. La poesia di Michele Zacchia alberga nel riflesso inafferrabile della memoria degli sguardi, nella destinazione bruciante delle attese, nelle stagioni imprevedibili in giro per le strade, coniuga il senso dell’accadere all’analisi esegetica del tempo, riconosce gli incastri delle ombre e la fatalità delle speranze, supera il muro di cinta dell’aridità individuale. Michele Zacchia ascolta l’oscillazione dei passi, lastricati dalla polvere del mondo, urta l’incedere dell’instabilità, giunge alla soglia della superficialità, attraversa il varco della decadenza, presta attenzione alla direzione variabile degli ostacoli. Il territorio privilegiato di osservazione del poeta aggira la cornice sfuggente dell’inquietudine, fronteggia l’enigmatica corrispondenza delle illusioni, circonda la voragine paludosa degli inganni. Michele Zacchia indica la postazione di un impreciso immaginario, intriso di volti, gesti, corpi, sorrisi e lacrime, dove la frammentazione e la desolazione dei contrasti interiori accolgono la superficie lucida e inesorabile dell’itinerario errante. Esplora la concavità nei segmenti della finitezza umana, contempla la transitorietà di ogni effimero passaggio dei desideri umani, scruta la distensione sospesa dell’istante, vivendone tutta la sua vulnerabilità. “Il taccuino dell’ospite” annota le incertezze motivate nella solitudine di contesti cristallizzati nell’estraneità del margine sensibile, ritrae gli appunti raccolti nel cuore vivo e incisivo dell’inchiostro che dipinge il disorientamento degli ambienti accoglienti e delle atmosfere inospitali, nell’abisso della sfumatura tra il buio del vuoto e la luce della grazia. Il libro rilegge gli spostamenti delle sensazioni, ospita l’origine della commiserazione nell’orizzonte di ogni interpretazione degli atteggiamenti terreni, oltrepassa la materia impalpabile e trascendente dell’entità sovrumana. Michele Zacchia concede al lettore di visitare ogni stazione del pensiero come sosta cosciente della fragilità degli eventi e delle estenuanti impressioni dell’impermanenza, si lascia inabissare nel sentiero dell’esperienza vissuta accanto alla persistente rivelazione della nostalgia e della dimenticanza. Registra l’ancorata tensione delle evocazioni verso l’intento ultraterreno, eleva l’identità dell’ospite a divinità viva e ragionevole intorno a noi, nel suo mutamento conoscitivo. Compone, in una scrittura poetica colta, intellettuale, ricca di superbe giunture stilistiche, l’armonia elegiaca che si declina spogliata dal tormento dei ricordi. Un libro che esalta una riflessione carica di esasperata consapevolezza, commemora la mitologia profetica di chi accoglie il dono della poesia.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

*

Sfere opache tramortite dal silenzio, in un andirivieni

di spazio e oltre misura riconoscenti

un contrordine deciso per destabilizzare

e la trama di questa lirica sonnecchia

in un cuculo beato tiepido

disperso.

 

Roma, luogo sconosciuto

 


 

Qui si beve vernaccia, dolce rugiada bianca.

Dell’edificio dirimpettaio non resta che una pietra,

una speranza.

 

Tra i buoi del campo che arano la terra salmastra,

un raggio fu luce. La luna mattiniera ancora in su,

ridimensiona la penombra e svanisce, scortata dal

bianco pallido del cotone.

 

Il saluto dei galli è musica incerta lungo la strada,

tutti ancora raccolti nella notte. Ecco il sole,

come ci si sente a esser mattina.

 

dalla finestra della mia stanza, Roma

 


 

Era già previsto che scoppiasse

questa guerra nel mio corpo, nel

momento in cui era tutto vederti

da lontano. Avrei preferito prevedere

l’imprevisto, nella vita tutta insieme

che passa in un bacio di nascosto.

 

Nel racconto non so dire di

aver amato, brucia il tempo dei

guasti funzionali, tecnici apparati

in disuso: tutto il mio corpo in questa

condizione, spaventa essere vivi,

la guerra non il corpo.

 

di ritorno da Torino

 


 

L’azzurro si pronuncia inefficace, fossilizza

il cuore diventa buio. Il possesso è nella

contrazione dell’occhio, si traduce per

ripararsi dal freddo.

 

Si estingue il passo nella strada ripetuta

fare ricorso al sonno per non riconoscere

più il colpo della luce, presto diventare il

suono che ricomincia il giorno.

 

agosto, in traghetto per Ischia

 


 

Di alberi e frutteti come il librare

delle ali, fruscio e scorta di malessere.

Intemperie orizzontali e coltre

di nubi accovate al mistero

e di fulgidi fasci di grano.

 

Così t’aspettavo,

contemplando quella linea apparente

tra cielo e terra

che era l’orizzonte.

 

in campagna da Gino

 


 

Nel giorno più isolato dell’estate, è l’ombra del

vulcano spento a sentire la mancanza delle rive. La mitologia

matura nelle brame dei tuoi desideri. Il celeste cielo celeste

è sfigurato nelle braccia.

 

L’immaginario della consolazione, sotto la sfera del disfare,

non si definisce il mare, sconfinato nelle bestie delle onde,

e il travalico del selvaggio rende obliquo tutto il dentro

del mio petto.

 

camera tua

 

 

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Un bagliore riluce nell’universo di Kafka

18 martedì Nov 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA

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Franz Kafka, Maria Allo, Primo Levi, Tommaso Landolfi

“Si viaggia per meandri bui, per vie tortuose

 che non conducono mai dove ti aspetteresti”

Primo Levi

Ogni epoca ha coltivato le sue paure, come semi destinati a germogliare nel terreno instabile delle civiltà che la attraversano. Dall’assedio di guerre e carestie agli incubi medievali di pestilenze e dannazione eterna, fino all’agghiacciante vuoto dell’era moderna, l’umanità si è sempre trovata a danzare sull’orlo dell’angoscia. E se oggi il tormento non fosse più legato alla sopravvivenza fisica, ma piuttosto all’inutile rincorsa di un senso?

Kafka, cronista impietoso del disagio esistenziale, ci trascina nei margini oscuri delle nostre paure: mutarci in creature disumane, perderci nelle maglie di un arresto senza causa, o svuotare di significato ogni gerarchia sociale che ci circonda. A cento anni dalla morte di Franz Kafka, la voce visionaria che ha trasformato l’angoscia in poesia e l’assurdo in un implacabile specchio dell’esistenza umana continua a inquietare e affascinare. Spesso definito il “cronista dell’assurdo” o il “poeta del moderno incubo”, Kafka rimane un enigma letterario di rara intensità. I suoi testi, solcati da un’alchimia di potere e umiliazione, vibrano ancora oggi come un grido oscuro che risale dai recessi più profondi dell’anima. L’intreccio complesso tra potere e condizione umana ha affascinato studiosi e critici per generazioni, dando vita a un fervido dibattito che continua a crescere. Tra le voci più brillanti spicca Elias Canetti, capace di esplorare con acume le profondità delle dinamiche di sottomissione e umiliazione, rivelando le oscure trame che legano l’individuo al dominio. Attraverso una lettura che intreccia riflessione filosofica e osservazione psicologica, Canetti mette in luce l’intreccio di forza e fragilità che permea i personaggi kafkiani, piegati sotto il peso di autorità opprimenti e gerarchie inscalfibili. Questa analisi puntuale non solo offre un’interpretazione profonda dell’opera di Kafka, ma rispecchia altresì i meccanismi universali che definiscono le dinamiche del potere nella società moderna, poteri invisibili e inaccessibili. Nel racconto La Metamorfosi, la famiglia si configura come l’ambiente centrale in cui si manifesta questo dominio oppressivo, dando vita a un autentico trionfo del disamore. La metamorfosi del protagonista Gregor in insetto rappresenta sia una conseguenza, chiaramente metaforica, di quel profondo senso di inferiorità provato come figlio, sia una via di fuga, per quanto paradossale possa sembrare, dall’autorità esercitata su di lui. Da questa prospettiva, emergono con particolare rilievo i momenti del romanzo in cui il coleottero Gregor tenta, almeno in modo simbolico, di resistere al potere coercitivo esercitato dalla famiglia. Un esempio significativo si trova nel brano Un amore di carta, dove Gregor cerca di proteggere il ritratto fotografico di una diva, appeso alla parete della sua stanza, dall’azione metodica della sorella e della madre. “E ora cosa prendiamo?” disse Grete guardandosi intorno; e il suo sguardo incontrò quello di Gregorio sulla parete. Se conservò il sangue freddo, fu per la mamma. Tremando tutta, e cercando di coprire con la testa la vista del muro, disse alla donna: “Vieni, forse è meglio che torniamo un momento in sala”. Gregorio capì che Grete voleva mettere al sicuro la mamma per poi cacciarlo dal muro. Ci si provasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro: piuttosto le sarebbe saltato in faccia”. Un aspetto rilevante di questo processo è che, all’interno della famiglia, nessuno conversa più con Gregor, e ciò è avvenuto precisamente da quando ha perso la capacità di esprimersi verbalmente. Come spesso accade, anche nei contesti più articolati dell’ordine sociale, le dinamiche di esclusione si manifestano attraverso il silenzio e l’indifferenza, trasformati in comportamenti sistematici e pratiche percepite come normali. Elias Canetti, nei suoi studi e nei suoi scritti su Kafka, evidenzia come la metamorfosi non rappresenti soltanto un processo simbolico o psicologico, ma sia profondamente connessa al corpo che ne è coinvolto. Nel testo L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice* (1968), Canetti mette in luce come, nella Metamorfosi di Kafka, l’umiliazione, il dolore e l’isolamento del protagonista trovino espressione diretta nel suo corpo. Fin dall’inizio della narrazione, il corpo diventa il fulcro concreto e opprimente della trasformazione. Di conseguenza, il figlio si ritrova inevitabilmente sottomesso a un processo di mortificazione, mentre l’intera famiglia appare attivamente coinvolta nel sostenerlo. L’umiliazione, inizialmente inflitta con una certa esitazione, si intensifica man mano che le circostanze la favoriscono. Gradualmente, tutti i membri della famiglia, quasi senza difese e contro la loro volontà, finiscono per parteciparvi. Il gesto iniziale viene ripetuto ancora e ancora: è infatti attraverso l’agire della sua famiglia che Gregor Samsa, il figlio, subisce pienamente e in modo irreversibile la trasformazione in insetto. All’interno del contesto sociale in cui vive, tale metamorfosi lo condanna ulteriormente a diventare un parassita.

Nel breve testo di Tommaso Landolfi [1]intitolato Il babbo di Kafka, contenuto nella raccolta La spada, sembra manifestarsi il meccanismo psicologico che probabilmente ha ispirato il racconto kafkiano, ossia il complesso e tormentato rapporto con la figura paterna. Tuttavia, in questo caso, il testo dell’autore boemo subisce un ribaltamento. Se nell’opera originale il mostro rappresentava una sorta di proiezione di Kafka, schiacciato dal peso del legame conflittuale con il padre, qui è invece il padre stesso a incarnare quella figura mostruosa. Il padre-mostro viene descritto con un’espressione disgustata, tipica dei momenti in cui si abbandonava a esasperanti rimproveri diretti verso il figlio. Nemmeno l’uccisione finale del terrificante ragno riuscirà a risolvere definitivamente la situazione: Kafka credeva di essersene liberato, ma era solo un’illusione; gli restavano ancora molti altri ragni da affrontare. L’orrore evocato dalla figura del mostro, inspiegabile nella narrazione kafkiana, in questa versione appare illuminato sotto una luce sinistra, amplificata da un ulteriore senso di raccapriccio e profonda inquietudine. Tra i romanzi di Kafka, Il Processo[2] è senz’altro quello che ha meglio contribuito a diffondere nel mondo l’immagine di un’esistenza impregnata di mistero e oppressione, definita comunemente come “kafkiana”. Sin dalle prime pagine, l’opera mette in contrasto due dimensioni dell’esperienza umana che risultano inconciliabili: da una parte, la vita quotidiana ordinaria, dove Joseph K. si presenta come un rispettabile funzionario di banca immerso in un contesto regolato da razionalità e norme giuridiche; dall’altra, l’enigmatico e inquietante universo del tribunale, governato da una logica punitiva arbitraria e implacabile. Il protagonista si ritrova intrappolato in una spirale di disperazione, costretto a cercare di difendere la propria innocenza con la logica, pur sapendo che non potrà mai provarla. L’accusa che lo schiaccia non riguarda un crimine commesso, bensì il fatto di non conoscere la legge e di non riconoscere l’autorità del tribunale che la incarna. È un’accusa tanto sfuggente quanto implacabile, che lo conduce inesorabilmente al tragico epilogo: la sua esecuzione. Nel capitolo IX “Nel duomo” [3]

il sacerdote legato al tribunale racconta a K. una parabola di tono biblico, ormai divenuta celebre, che riporto di seguito: «Non illuderti, – disse il sacerdote. «In che cosa dovrei illudermi?» chiese K. -Ti illudi sul tribunale», disse il sacerdote, «negli Scritti che preludono alla Legge, di questa illusione si dice così: Davanti alla porta della Legge c’è un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede di poter entrare nella legge. Il portiere però gli dice che ora non può permettergli di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più tardi. “Può darsi”, dice il guardiano, “ora però no”. Siccome la porta che dà accesso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si sposta da un lato, l’uomo si curva per guardare, attraverso la porta, all’interno. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: “Se ti attira tanto, cerca pure di entrare malgrado il mio divieto. Sta’ attento però: io sono potente… Alla fine la sua vista si indebolisce e non sa se davvero intorno a lui si sta facendo più buio o se sono solo i suoi occhi che lo ingannano. Nel buio però ora distingue un bagliore che riluce ininterrotto attraverso la porta della Legge. Non gli resta più molto da vivere. Prima della morte tutte le esperienze di tutto quel tempo gli si riassumono nella testa in una domanda, che ancora non ha fatto al guardiano. Gli fa un cenno, perché non può più sollevare il suo corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano deve chinarsi profondamente fino a lui, perché la differenza di statura è molto cambiata a sfavore dell’uomo. “Cosa vuoi sapere ancora”, chiede il guardiano, “sei insaziabile”. “Tutti desiderano la legge”, dice l’uomo, “come mai allora in tanti anni nessuno tranne me ha chiesto di entrare?” Il guardiano si rende conto che l’uomo ormai è alla fine, e per raggiungere ancora il suo udito che sta svanendo gli grida: “Da qui non poteva essere ammesso nessun altro, perché questo ingresso era riservato solo a te. Ora vado e lo chiudo”».

Nel cuore di ogni uomo si nasconde una porta, una soglia che conduce alla verità, alla legge, a ciò che ognuno cerca e teme. La narrazione del sacerdote è un labirinto di simboli, un enigma avvolto nell’ombra, ma nel suo centro pulsa una riflessione antica e sempre attuale: l’illusione del controllo e il mistero dell’accesso al sapere. L’uomo, con la sua domanda impaziente, si pone davanti alla porta come un peregrino smarrito; la Legge, inespugnabile e sublime, resta lì, silenziosa e distante. E il guardiano? Lui è il custode ambiguo, al contempo ostacolo e guida, che lascia intravedere ma non attraversare. Non è forse questa la metafora della vita? Un incessante tentativo di afferrare qualcosa che sembra sempre sfuggire, nonostante sia lì, davanti a noi? E quel “bagliore ininterrotto” che illumina attraverso il buio? Ci provoca, ci infiamma l’anima: è speranza o scherno? È forse il senso stesso del cammino umano? Ogni passo verso la conoscenza intreccia desiderio e frustrazione, una battaglia tra i limiti che ci contengono e la volontà di superarli. Nel finale, amaro nel testo, si svela l’ultima beffa: quella porta era unica, esclusiva per quell’uomo, riservata a un momento irripetibile che mai fu colto. Come un segreto profondo che si schiude solo nel barlume dell’ultimo respiro. Il guardiano chiude la porta e va oltre, portando con sé una verità che forse non aveva mai avuto voce. Ogni lettore è come quell’uomo di campagna. Ci avviciniamo alle nostre porte personali con dubbi, paura e coraggio al tempo stesso. Ma se c’è un messaggio nascosto in questa parabola inquietante, forse è che non basta desiderare l’accesso: bisogna chiederlo davvero. O forse non chiederlo affatto e semplicemente osare attraversare. Tre elementi fondamentali delineano la complessità del testo: la Legge che emana un bagliore perpetuo oltre la soglia, quasi mistico nella sua intangibilità; l’uomo della campagna, che ingenuamente immagina la Legge come qualcosa di universale e sempre accessibile; e il guardiano, figura paradossale che incarna l’ambiguità—negando l’accesso con decisione, per poi rivelare che quella porta era unica e dedicata esclusivamente all’uomo stesso. Questa combinazione di contrasti e paradossi lascia spazio a una riflessione disorientante e penetrante: la Legge appare eterna e onnipresente, ma inaccessibile; il contadino rappresenta l’inesauribile desiderio di ottenere ciò che si percepisce come diritto naturale; il guardiano diventa simbolo enigmatico di un potere oscuro, crudele, e forse insensato. [4]Il significato ultimo rimane elusivo, sfuggendo a qualsiasi interpretazione definitiva. Kafka, con il suo genio provocatorio, sembra costruire una macchina narrativa che intrappola il lettore in cerchi di dubbi. Chi è il guardiano? È davvero una figura esterna o rappresenta piuttosto il nostro personale sabotatore, quella voce interiore che ci blocca davanti a opportunità uniche, ricordandoci brutalmente il peso dell’incertezza? La scena si trasforma così in uno specchio di esistenza in cui il fallimento di comprendere pienamente non è un errore, ma un’essenza stessa della condizione umana. La lettura de Il Processo, un libro intriso di malinconia e poesia, lascia un segno indelebile: si diventa più tristi, ma anche più consapevoli. Così è, sembra suggerire il racconto, questo è il destino umano; si può essere accusati e puniti per una colpa mai commessa, una colpa sconosciuta che il “tribunale” non rivelerà mai. Eppure, di questa colpa si può provare vergogna, portandola con sé fino alla morte, e forse persino oltre. Tradurre, tuttavia, è qualcosa di più che leggere: uscire da questa traduzione è stato come uscire da una malattia. Così scrive Primo Levi nella nota del traduttore.La tragedia che emerge dai grandi testi di Kafka[5] è il riflesso di un’umanità che si trova imprigionata tra le mura invisibili di un senso che si è sgretolato, lasciando solo frammenti sparsi di razionalità. Ma ciò che rende questa tragedia tanto universale e potente non è solo la scoperta dell’assurdo: è l’irriducibile ostinazione degli esseri umani nel cercare un significato anche dove non esiste. È come aggrapparsi a una corda sospesa su un abisso, pur sapendo che sotto non c’è alcuna rete a salvarci, né alcuna promessa di salvezza. Il senso dell’esistenza è una luce fioca all’orizzonte: intangibile, inafferrabile. Una verità che non può essere svelata, ma che ci condanna inevitabilmente a inseguirla senza tregua. [6]Gli eroi kafkiani si trasformano così in specchi deformanti della nostra stessa condizione: vogliono comprendere, vogliono un perché, ma ottengono solo silenzi o risposte enigmatiche che scavano ulteriormente nella loro angoscia. In questo persistente desiderio di dare ordine al caos si nasconde, paradossalmente, l’elemento più profondamente umano: l’incapacità di accettare il vuoto, la disperazione che si fa spinta vitale. Forse è proprio qui la provocazione più alta della tragedia kafkiana. Non sta solo nella resa all’assurdo, ma nella consapevolezza che è la nostra continua ricerca del senso a creare un conflitto inesauribile. Se smettessimo di interrogarci, se accettassimo il nulla senza opporci, finiremmo forse per liberarci? Oppure, al contrario, cadremmo in uno stato più tremendo, quello dell’apatia totale? Kafka non ci offre risposte definitive; lascia a ognuno di noi il compito di convivere con queste domande aperte. E in fondo, non è forse questo stesso enigma a essere il motore della nostra esistenza?

Maria Allo


[1] Giorgio Luti/ I diversi piani della poetica di Landolfi, (in Letteratura italiana del ‘900, Vol.VI Marzorati, Milano 1979) p.496

[2] Scrittori tradotti da Scrittori Vol.1, IL PROCESSO di Frank Kafka nella traduzione di Primo Levi

[3] Scrittori tradotti da Scrittori Vol.1, IL PROCESSO di Frank Kafka nella traduzione di Primo Levi, Cap. IX pp.233-234

[4] P. Citati, Kafka, Rizzoli, Milano 1987

[5] Franz Kafka , il suo tempo , la sua opera , Mondadori, Scrittori del Novecento

[6] G. Baioni, Kafka, Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1972.

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“Variazioni romanzesche sulle istanze di crisi dei mondi narrativi”. Studio di Paolo Landi.

17 lunedì Nov 2025

Posted by Deborah Mega in CRITICA LETTERARIA, Recensioni

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Giuseppe Donateo, Il Maestro del Romanzo Vuoto, Paolo Landi, Pierrot e l'asino di Buridano

 

GIUSEPPE DONATEO, Il Maestro del Romanzo Vuoto, Erasmo, Livorno 2017, pp. 265, € 18,00; Pierrot e l’asino di Buridano, Europa, Roma 2021, pp. 238, € 15,90.

Questi due romanzi si basano su una riflessione diretta all’istanza del romanzo stesso, nonché relativa alla crisi della sua composizione; e tale riflessione è un pretesto per rappresentare diverse vicende intrecciate o sovrapposte e alternate fra loro, che riguardano da un lato la circostanza di base, e da un altro lato il romanzo nel romanzo – o il racconto nel racconto.
Da ciò deriva una linea narrativa screziata e provvista di un ritmo variegato, che a partire da questa complicazione di base incorpora nel suo tessuto sia una serie di considerazioni relative alla valenza psicologica ed esistenziale del romanzo – nonché della crisi nella quale quest’ultimo si può imbattere -, sia un insieme di rimandi a mondi narrativi sedimentati nell’immaginario – quali sono quelli dei poemi epici, della visitazione dei contesti storici, o dei fumetti. E in particolare, Il Maestro del Romanzo Vuoto si apre con le amare considerazioni sulla situazione di una crisi nel percorso della scrittura, e si conclude con il recupero di rinnovate energie, che viene raffigurato attraverso la chiamata a correo di una serie di personaggi ed autori che soccorrono l’alter ego dell’autore in questione con un girotondo di felliniana memoria, animato dal supplemento di una giubilazione senza riserve, che lascia emergere i contorni di una festa la quale si libera al di là di ogni legame con il passato della propria esistenza (a differenza di quanto accade in 8½ di F. Fellini); e in modo analogo, Pierrot e l’asino di Buridano inizia con la presa d’atto di una crisi scandita attraverso il monito espresso icasticamente dal numero della pagina che segna l’arresto, e si conclude con una presenza sommessa di una serie di apparizioni in parte reali e in parte immaginarie che hanno animato lo svolgimento precedente; e in entrambi i casi, attraverso la fase intermedia del silenzio, viene preparato lo spazio che rende possibile l’esercizio della scrittura e l’intrapresa creativa.
Per quanto riguarda la struttura di queste opere, si deve sottolineare che la seconda segna uno stadio più complesso, in quanto i contenuti romanzeschi che vengono immaginati hanno un protagonista – Michele -, che nella prima è assente; così, ne Il Maestro del Romanzo Vuoto il protagonista in qualche modo è comunque l’autore – o meglio, quell’alter ego dell’autore che non viene nominato, ma corrisponde solo al pronome egocentrico -, mentre in Pierrot e l’asino di Buridano abbiamo una tortuosa linea di congiunzione e una serie di rimandi che allacciano la più diretta proiezione dell’autore – corrispondente alla figura dell’io – con quella proiezione ulteriore e di tipo indiretto che è data dal personaggio di Michele; e inoltre, questa maggiore complessità dell’impianto di base in questo romanzo corrisponde alla convocazione di una serie di mondi narrativi che nell’altra opera non può essere riscontrata. Ma ancora, questa minore ricchezza di ingredienti narrativi, scenici e spettacolari ne Il Maestro del Romanzo Vuoto è legata a un andamento riflessivo il quale si inoltra nei tornanti di una regione più profonda e abissale, che lascia intravedere il registro di una solitudine affiorante, la quale in Pierrot e l’asino di Buridano almeno in larga parte sembra superata. E la punta emergente di tale solitudine in questo romanzo è data dal tratteggio del personaggio del signor N, che vive tutta la sua esistenza in una specie di limbo neutrale nel quale non si concede alcun contatto verso l’esterno, lasciandosi alle spalle soltanto la sua giovanile immersione nel mondo dell’astrazione matematica.
D’altra parte, all’interno di una tessitura d’insieme meno stratificata che in quest’ultimo romanzo, il primo inserisce una parte la quale costituisce un motivo più complicato di qualunque ordine della complessità che si trova nell’altra opera. A questo proposito, un personaggio che stabilisce rapporti con l’alter ego dell’autore si riferisce a uno scrittore – appunto il Maestro del Romanzo Vuoto – il quale costruisce un’opera parlando di uno scrittore in crisi, che a un certo punto riempie la sua mancanza di ispirazione – o appunto il suo vuoto più o meno assoluto – inventando la storia di N; e ancora, questo personaggio incarna il vuoto medesimo di una intera esistenza. Dobbiamo allora osservare i seguenti elementi: in primo luogo abbiamo l’autore e il suo alter ego che è dato dallo scrittore in crisi nel quale egli si riflette in modo diretto; in secondo luogo abbiamo questo Maestro, il quale a sua volta è uno scrittore che parla di uno scrittore in crisi – per cui l’autore in seconda istanza si riflette nella figura del Maestro, e in una terza istanza, ma in un modo più stringente perché si tratta di uno scrittore in crisi che replica la condizione del protagonista di base centrato direttamente su di lui, si riflette nel personaggio di questo scrittore -; e infine abbiamo il personaggio di N, che nel cuore annidato dentro la complicazione vertiginosa di questo gioco di scatole cinesi incarna la problematica della crisi e del vuoto nella sua intera esistenza. Ma possiamo dire che questo personaggio, se da un lato viene collocato al culmine dell’artificio concettuale dovuto a questa serie di inclusioni – o di istanze di riflessione – le quali si annodano in una spirale attraversata da una inquietudine e da un tormento che lasciano il segno, da un altro lato introduce nel modo più diretto e vibrante la dimensione esistenziale del romanzo; o ancora, a questo proposito, la distanza che viene apposta nei confronti di una modalità di scrittura di tipo diretto, rende possibile di raggiungere il nucleo più intimo e palpitante di quello che viene narrato – o di cogliere la fisionomia più autentica e disarmante fra quelle rappresentate dalle opere in questione. E si deve anche sottolineare che il pathos rivolto alla figura di questo personaggio così drammatico viene espresso nella tessitura scabra di una serie di notazioni lapidarie, che pervengono a un nitore implacabile della descrizione, il quale non potrà essere raggiunto in altri luoghi di questi due romanzi; e non è un caso che i contorni di questa figura con la loro forza concentrata alludano nel modo più estremo a quella dimensione della crisi e del vuoto, che funge da tema fondamentale di quanto viene narrato.
Sotto un profilo più generale, si deve tenere presente che questi due romanzi attraverso l’espediente di un racconto incentrato sulla problematica della crisi creativa, rappresentano una riflessione su quell’orizzonte di apertura dell’opera che è stato messo tema da svariate indagini filosofiche e semiotiche – e in particolare dalle indagini di U. Eco -; e in questo modo, possiamo dire che la problematica di tale apertura viene sondata non solo attraverso le modalità di una gestazione della scrittura in azione, ma anche sotto le specie delle sembianze che si dispiegano nel corso della formazione di un disegno narrativo; o ancora, potremmo dire che questi romanzi rendono palese come le procedure della interpretazione dei mondi narrativi messi in gioco dai romanzi nella loro fisionomia variegata e priva di una chiusura univoca, corrispondano alle esitazioni, alle incertezze profonde e allo spettro delle alternative che si profilano nel cuore della intrapresa creativa. Così in entrambi i romanzi si verifica questa situazione: da un lato abbiamo una sorta di apertura iniziale, che è comune ad ogni sviluppo narrativo ai suoi esordi, ma in questo caso viene marcata in modo peculiare dal fatto che introduce il problema della sua dimensione, attraverso un elemento di riflessione dovuto al motivo della crisi che incombe sull’autore; e da un altro lato abbiamo quella versione dell’apertura che è data dalla conclusione, nella quale il personaggio dello scrittore si accinge a proseguire il suo sviluppo narrativo. E se nel primo romanzo si tratta del passaggio oltre la fase preliminare di una serie di materiali da utilizzare per l’elaborazione della stesura effettiva, nel secondo – quasi nei termini di un seguito della circostanza precedente – abbiamo invece la prosecuzione di una stesura già inoltrata per una vasta porzione. E sia nel primo che nel secondo caso possiamo dire di avere la messa in scena dell’istanza di apertura di un mondo narrativo che si sta profilando, nonché la congiunzione circolare della conclusione del romanzo effettivo, con l’intrapresa di un romanzo incluso nel suo dominio in termini di finzione.
Stabilito questo, si deve tenere presente che la tematica legata al mondo narrativo del romanzo, in entrambi gli esemplari trova dei riflessi che sono dati dalla intrusione dei contenuti che abitano il mondo della finzione; al che, si deve stabilire quanto segue. In primo luogo, ne Il Maestro del Romanzo Vuoto abbiamo una dialettica ricorrente e a tratti ossessiva tra l’autore e le varianti dei personaggi che sono sul punto di entrare nella stesura del romanzo, e si animano del gioco ipotetico di una loro interlocuzione problematica con il padrone del loro essere, in modo che viene tracciata una loro esistenza fittizia e invasiva; e in secondo luogo, in Pierrot e l’asino di Buridano abbiamo l’arredamento di una serie di contesti storici e letterari nonché relativi alla storia dell’arte, i quali dilagano nel tessuto di base della vicenda, arricchendo l’impianto con la loro veste appassionata e sontuosa, che in larga parte attinge all’ambito immaginario. E d’altra parte, l’autore dimostra l’esercizio di un rigore ben definito, che governa la sua abbondante materia lasciando l’impronta di un’autentica padronanza, in grado di veicolare una notevole ricchezza di immagini tenute sotto controllo da una profonda istanza di riflessione.

Paolo Landi

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Dieci riots tardoletterari di Ivan Pozzoni con un commento di Enzo Bacca

13 giovedì Nov 2025

Posted by Loredana Semantica in CRITICA LETTERARIA, CULTURA E SOCIETA', Prosa poetica

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Giorgio Bacca, Ivan Pozzoni, Riots

Paul Klee, Kettledrummer, 1940

Commento di Enzo Bacca al tardomodernismo letterario

C’è un bosco fitto di sterpaglie, un fogliame gonfio da far paura, un lamento di voci che sembrano provenire dall’aldilà in cerca di aria, un graffiare di uccelli notturni che richiamano vecchi film dell’orrore. C’è un bosco o selva oscura o foresta senza via d’uscita dove un cavaliere striglia il suo destriero per trovare la luce. Ecco, questo mi par di vedere approcciandomi alla scrittura poetica di Ivan Pozzoni. Un nuovo custode del Santo Graal. La poesia ha bisogno di irriverenze e nuovi profeti che possano oltrepassare a suon di macete o spada o lancia o logos la selva selvaggia ed aspra e forte che nel pensier rinova la paura. Le tematiche trattate con piglio innovativo per quanto riguarda l’estetica pura della poetica di Ivan Pozzoni mi fanno pensare che finalmente esista qualcuno che ha il coraggio di sfrondare e sfondare la stagnante retorica della consuetudine poetico-letteraria che non avvampa per nulla lo scrivere in versi degli ultimi tempi. Ivan scompone quel muro e lo riedifica come alcuni palazzi costruiti nell’edilizia giapponese che dopo vent’anni vanno ricostruiti e rieducati ad un più giovanile senso della composizione. Ben venga questo sbriciolamento a polpastrelli stretti del fogliame sottoboschivo. Nuovo linguaggio che a dire il vero mi ricorda alcuni ardimenti degli anni sessanta e settanta del novecento, che lo stesso poeta inaugura in neoN-avanguardistici. Sì, perché di avanguardia si può ben tradurre il dettato che il poeta monzese propone disponendo l’efficace trama che sgorga dal filosofico e sfocia nell’energia vibrante e lavica d’un vulcano super attivo. Un lanciafiamme, come Alessandro Fo, in una recente nota sul giornale La Fonte, definisce il poetare di alcune penne che “scuotono le sillabe con voce tesa e quasi impostata a grido di guerra”. Un manifesto poetico da esporre senza porsi troppe domande e sconfinamenti questo dell’uomo Ivan, filosofo e stratega di battaglia ma anche missionario e medico di bordo della parola con la consapevolezza che nel “mangrovico” mondo della poesia moderna, ben si stagli una voce cristallina e allo stesso tempo martellatrice. Martello pneumatico che rompa le zolle cementificate e stagnanti d’un mondo bigotto e ignavo e senza memoria.

Di seguito un file scaricabile contenente il commento di Enzo Bacca riportato qui sopra e dieci riots di Ivan Pozzoni

Limina mundi – Ivan PozzoniDownload

Biografia dell’autore

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre). Ha fondato una quindicina di case editrici socialiste autogestite. Ha scritto/curato 150 volumi, scritto 1000 saggi, fondato un movimento d’avanguardia (NeoN-avanguardismo, approvato da Zygmunt Bauman), con mille movimentisti, e steso un Anti-Manifesto NeoN-Avanguardista, È menzionato nei maggiori manuali universitari di storia della letteratura, storiografia filosofica e nei maggiori volumi di critica letteraria.Il suo volume La malattia invettiva vince Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva.I suoi versi sono tradotti in francese, inglese e spagnolo. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).

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“Nastassia” di Stefano Benni

29 lunedì Set 2025

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA, Racconti

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Il bar sotto il mare, Nastassia, Stefano Benni

immagine creata con OpenArt

“Nastassia” è un racconto di Stefano Benni, tratto da Il bar sotto il mare del 1987. L’opera comprende 24 storie; 23 di loro sono raccontate dai clienti, l’ultima dall’Ospite. All’inizio del libro c’è un disegno che rappresenta le sagome di tutti i personaggi indicati con i numeri, legenda che ci aiuta a orientarci meglio nella storia, segue una fotografia dei personaggi. Ogni racconto presenta la stessa struttura: prima Benni menziona il nome del narratore, seguito dal titolo della storia e poi da una citazione letteraria che riassume la morale contenuta nelle storie che seguono. Nel bar sottomarino Benni descrive ventitrè personaggi che si incontrano e raccontano storie di diverso genere: storie felici e tristi, gialli, horror, parodie di opere celebri. L’ospite è invitato a rimanere per ascoltare i narratori, in caso contrario non potrà mai uscire dal bar e tornare a casa. I narratori non hanno un nome, Benni gli dà un nome tratto dalle loro caratteristiche tipiche: il primo uomo col cappello, la bionda, il venditore di tappeti, il marinaio, il ragazzo col ciuffo, la sirena, ecc. La storia di Nastassia è raccontata dall’uomo invisibile. Si tratta di un racconto breve ma intenso e struggente. Gregorij Alexeij Alexandrevič è innamorato di Nastassia Nicolaevna e sta aspettando la risposta della ragazza alla sua dichiarazione d’amore. Per seguirlo a Pietroburgo lei dovrà lasciare la sua casa e la sua famiglia. Mentre lui si dirige verso il capanno del giardiniere, immerso nei suoi sentimenti di beatitudine e allo stesso tempo di angoscia, sono evocate le immagini delle tortore che tubano e di un fringuello che prende il volo. L’atmosfera è romantica e nostalgica, i due si incontrano, la ragazza accetta la proposta di Gregorij. Sembra che per una volta l’amore stia trionfando ma il colpo di scena finale ribalta completamente le aspettative e invita a riflettere sull’imprevedibilità della vita.

IL RACCONTO DELL’UOMO INVISIBILE

NASTASSIA

«L’unica passione della mia vita è stata la paura.»

(Thomas Hobbes)

Gregorij Alexeij Alexandrevič percorreva col cuore in tumulto il viale di betulle che portava al capanno del giardiniere. Su tutto aleggiava una luce dorata, intensa e gradevole che penetrava persino nell’ombra. Le tortore tubavano senza sosta, un fringuello spiccó il volo da un ramo di lillà verso una nuvola rosa, opalescente come la lampada che Gregorij aveva visto la sera prima sul tavolo di Nastassia Nicolaevna. Nastassia! Al solo rievocarne il nome il cuore appassionato di Gregorij precipitava in un abisso ove beatitudine e angoscia erano avvinte, senza che una potesse lasciare l’altra, nella fatale estasi della caduta. Nastassia! Gli sembrava di udire quel nome nello sciabordio del fiume, nel respiro di ventaglio delle chiome dei tigli, nel canto appassionato del cuculo. Nastassia, egli ripeté a bassa voce, trattenendo sulle labbra ogni sillaba di quel nome, degustandola come l’elisir che avrebbe potuto dare la vita, o toglierla. Nastassia! Cuore mio, non fuggirmi dal petto! Il capanno del giardiniere era coperto da un manto di edera rossa che riluceva nel tramonto con sfumature di fiamma e rubino. Mojka, la cavallina di Nastassia brucava pigramente, ancora sudata per la corsa. Lei dunque c’era! Era venuta! Cuore, un attimo ancora, intimò Gregorij Alexandrevič, avvicinandosi al capanno. La mano del giovane aprì lentamente la porta, che cigolò con discrezione, quasi a dimostrare che anch’essa conosceva la segretezza di quell’incontro. Nastassia Nicolaevna sedeva su un ceppo di ciliegio. La veste bianca brillava nella semioscurità come un esotico fiore misterioso, e i piedini ondeggiavano come due uccellini nervosi. Nastassia sorrise al giovane e con un gesto irresistibile, scostò dalla bianchissima fronte una ciocca dei capelli ricci. Gli occhi celesti brillarono di una luce seducente. Dio, com’era bella! Pensò Gregorij Alexandrevič, avvicinandosi, e ammirandone, come se fosse la prima volta, il delicato ovale. il disegno sensuale della bocca, la quieta pienezza delle spalle candide. E quei piedini inquieti, quelle caviglie da angioletto d’alabastro! O cuore mio!

– Volete dunque la mia risposta? – disse Nastassia abbassando gli occhi.

Cuore, resisti, pensò Gregorij Alexandrevič, nell’udire quella voce, quella voce che sapeva leggere i più delicati versi di Puškin come domare gli scarti dei cavalli e le bizze della servitù.

– Ebbene la mia risposta… – disse Nastassia. E tacque a lungo.

Cuore, resisti! Quanta grazia e pudore, pensò Gregorij, in questa donna che non vuole forse ferirmi con un rifiuto, o forse ha un ultimo momento di naturale timidezza nel pronunciare le parole che la porteranno lontano dal luogo ove è nata, dal luogo che ha illuminato con la sua incomparabile bellezza.

– La mia risposta è sì – disse Nastassia tutto d’un fiato -Gregorij Alexandrevič, verrò con voi a Pietroburgo e sarò vostra moglie.

– Nastassia! Nastassia! – sospirò Gregorij Alexandrević e non aggiunse altro. Stramazzò tra l’edera crepitante e il soffice muschio, fece appena in tempo a vedere i piedini di Nastassia che si avvicinavano allarmati, poi più nulla. Il cuore appassionato di Gregorij Alexandrevič non aveva resistito.

 

Stefano BENNI, «Nastassia», in Il bar sotto il mare, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 75-77.

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“Fermagenesi” di Isabella Bignozzi

25 giovedì Set 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA, Note critiche e note di lettura, POESIA

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Anterem edizioni, 2025

 (opera vincitrice della sezione prosa artistica del Premio Lorenzo Montano 2025)

“L’altro sguardo” di Isabella Bignozzi

Nota di lettura di Maria Allo

Leggere Fermagenesi significa attraversare la soglia di una dimensione intima e raffinata, dove le parole di Isabella Bignozzi si fondono in un tessuto pulsante, intriso di luce e significato. Nell’opera prendono forma fermenti cromatici e mistici che generano un dialogo profondo tra il mondo dei colori e quello della spiritualità. L’autrice invita il lettore a esplorare le emozioni più autentiche, aprendo uno spiraglio su un angolo sacro e prezioso della propria anima. È un’esperienza che nutre lo spirito, stimola la riflessione e instaura una connessione autentica tra lettore e scrittore. La scrittura assume qui il ruolo di strumento d’introspezione, un viaggio nei recessi del proprio sé che porta ad osservare e affrontare coraggiosamente i lati più oscuri dell’esistenza. In questo percorso, si abbandonano posture desideranti e fertili di immaginazione – quella che, seguendo le parole di Simone Weil, tende a chiudere ogni via alla grazia – per raggiungere una parola meno razionale ma profondamente viscerale e visionaria.  L’aspetto peculiare dell’opera si manifesta nella straordinaria abilità di adottare il “coraggio dello sguardo” come plasma puro ,una forza che permea ogni frammento, conferendo all’intero lavoro di Isabella Bignozzi una profondità davvero unica e trasformativa: “ Fermagenesi che non demorde, riparte da dentro, dall’intimo profondo, quello esilissimo che dice l’occhio capovolto nell’involucro, e come una guida montana sa la via suprema verso il basso, pulsazione di suono che chiama il centro, nel rosso cuore battente dei bassi che ripetono i passi, alzando il nome al varco aureo della presenza” (p.29). Per richiamare l’autenticità, è necessario utilizzare una lingua di straordinaria purezza, seguendo il percorso delineato da Isabella: un viaggio impregnato di letture e scritture lontane, quasi sospese nel tempo, simili a una preghiera silenziosa e profonda che si orienta verso ciò che è essenziale. Scriveva la Cvetaeva: “io non penso io ascolto. Poi cerco un’incarnazione esatta della parola”. Questo processo si realizza attraverso una sintesi precisa e calibrata, quasi alchemica, capace di trasformare il linguaggio in una fiamma sacra. Secondo Cristina Campo, solo con un cuore libero si può osare oltrepassare i confini dell’impossibile. Isabella, in Fermagenesi descrive questa idea con poetica intensità: “Rossi erano i cuori battenti, un attimo prima del mondo. Era una polifonia lo spazio che dirigeva il sogno, una fusione di reale, scenario sinfonico che puntinava dettagli di semicroma, tutti i capi reclinati sulla partitura, come i calici irradiati da un’aurora di animale disciolto, muto nel bene, dorato di vita senza bordo, sempre su una riva di amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine” (p.35). Creazione e Caduta offre una visione originale sull’origine del mondo, presentandola attraverso una prospettiva unica e suggestiva. Isabella indaga il concetto di un movimento immobile, quell’istante eterno che rappresenta l’inizio di ogni principio e che si ripete senza sosta. È in quel momento di immobilità dello sguardo che si accoglie il talismano: uno strumento che permette di percepire i millenni come forme circolari e leggere, privi di angoli, simili a un miraggio avvolgente. Eppure, questa quasi nullità che ci definisce sembra divertirsi a interpretare la tragedia, proprio in quel luogo dove il tempo non trova tregua. ll concetto di una genesi senza fine “interminato soffio che sopravvivi nella durata, una staffetta di fiati “sembra evocare un continuo processo di nascita e rinnovamento, una vita che si rigenera senza sosta. Al contrario, l’idea di una morte illusoria sottolinea l’aspetto transitorio della fine, vista non come un termine definitivo, ma piuttosto come parte di un ciclo eterno, spesso ingannevole nella percezione della sua apparente conclusività “e mai perduto è stato l’amore”. Fermagenesi incarna un impegno di amore e compassione per il mondo, intrecciando una filosofia della pazienza in cui fede e speranza trovano nuova vita dalle proprie ceneri. Un messaggio pieno di luce che l’autrice, con grande generosità, ci offre, ancor più significativo in un periodo dominato da un susseguirsi di devastazioni e un senso di vuoto.

Maria Allo

Ph. Daniele Ferroni

Isabella Bignozzi (Bologna, 1971) in poesia ha pubblicato: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021, prefazione di Elio Grasso) e Memorie fluviali (MC edizioni, collana Gli insetti, a cura di Pasquale di Palmo). In prosa i romanzi Il segreto di Ippocrate (2020), e Cantami o diva degli eroi le ombre (2023), entrambi editi da La Lepre Edizioni, I bimbi nuotano forte (Arcippelago Itaca, 2024). È nell’antologia Splendere ai margini. Narrazioni emergenti (Oligo 2023) a cura di Andrea Temporelli; è con l’artista Daniele Ferroni nella plaquette Come tintinni ceste d’incenso (settembre 2023), uscita per Lumacagolosa, in collaborazione con le Edizioni Pulcinoelefante. Con alcune poesie è in Riflessi. Rassegna critica alla poesia contemporanea, a cura di Patrizia Baglione, Edizioni Progetto Cultura 2023. Nella rivista «La foce e la sorgente», a cura di Marco Ercolani e Lucetta Frisa, è presente con alcune liriche (n. 6, seconda serie, dicembre 2021), e con una prosa artistica (n. 7, seconda serie, gennaio-giugno 2022). È presente con suoi testi, saggi e interventi critici in numerose riviste letterarie cartacee, tra cui «Filigrane» (Ronzani Editore), «L’anello critico» (CartaCanta Editore), «Avamposto», «Metaphorica» (Efesto Edizioni); alcuni suoi saggi sono on line in «Poesia del nostro tempo», «Larosainpiu», «Nazione Indiana», «Morel – voci dall’isola», «Pangea». Cura lo spazio web «L’Astero rosso – luogo di attenzione e poesia».

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“Il giardino incantato” di Italo Calvino

22 lunedì Set 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Il giardino incantato, Italo Calvino, Ultimo viene il corvo

Immagine generata con Adobe Express

 

Il racconto è uno dei più belli e significativi di Calvino ed è tratto da “Ultimo viene il corvo”, raccolta del 1949. La prima edizione, pubblicata il 30 luglio 1949, comprende trenta racconti scritti tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, di cui ventitré pubblicati su riviste e sette inediti. Nel 1958, diciannove dei trenta racconti della prima edizione confluiscono nel volume I Racconti (Einaudi, collana Supercoralli). Continua a leggere →

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“Marcovaldo al supermarket” di Italo Calvino

15 lunedì Set 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Italo Calvino, Marcovaldo al supermarket, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città

Immagine elaborata con Adobe Express

La novella è una delle venti da cui è composta l’opera “Marcovaldo ovvero le stagioni in città” di Italo Calvino. Ciascuna è dedicata a una stagione: il ciclo delle quattro stagioni dunque si ripete per cinque volte e ha come protagonista lo stesso Marcovaldo. L’opera fu pubblicata nel 1963 a Torino dalle edizioni Einaudi, con illustrazioni di Sergio Tofano. Continua a leggere →

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Potere evocativo e simbolismo in “Scrigno”

17 martedì Giu 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, Note critiche e note di lettura, Poesie

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Maria Allo, Rosaria Di Donato, Scrigno

a cura di Maria Allo

Rosaria Di Donato, Scrigno, Amazon.it 2025

Prefazione di Lucianna Argentino, postfazione di Marzia Alunni. Editing, impaginazione e copertina di Valeria Girardi.

Autoritratto

sono nata in un angolo di cielo

dove il vento rincorre nuvole

e spazza via la tristezza

Rosaria di Donato

Nella sua nuova raccolta poetica “Scrigno”, Rosaria Di Donato esplora il tema della memoria, riavvicinandosi a luoghi e volti familiari fin dall’infanzia, senza cadere nella trappola di un rimpianto sterile per il passato, pur evocandolo. Riflettendo sul passato, l’autrice si lascia guidare dai ricordi, seguendo la sua inclinazione verso un’autobiografia intima che caratterizza l’intera raccolta. I titoli delle quattro sezioni – visioni, chiaroscuri, miniature e tracce – rappresentano le fasi di un viaggio di riscoperta del passato e di conoscenza di sé. Questi titoli mettono in risalto e rafforzano la metafora dello scrigno, conferendo all’opera una notevole coerenza. Il passato del tempo presente al passato del ricordo si accompagna, nei versi del testo l’ulivo secolare: “…uni-verso in espansione/nuovo anno aggiunge/un nodo un ramo /un altro cerchio al tronco/poderose radici/s’allungano d’intorno/come a sfidare il tempo//e degli uccelli in volo//le stagioni / quali storie racconta il secolare ulivo”. Il tempo della memoria si manifesta con il suo maestoso scorrere, ma la poetessa non ne è sopraffatta. Al contrario, trova la sua essenza nel recupero dei vari momenti di quel fluire interrotto. In questo modo, la scrittura accompagna ogni passo nel percorso verso una verità riconquistata. È una poesia che tendenzialmente rimane legata all’esperienza diretta e concretamente vissuta: “il quartiere misurato/con il tuo passo//padre/ora mi è più caro/ogni angolo vivo//nel suono-profumo/di gemme in boccio…” (da “lascito”). La luce e i colori utilizzati nelle immagini del testo sembrano accentuarsi progressivamente man mano che lo sguardo dell’autrice abbraccia uno spazio sempre più vasto: “lo sguardo all’orizzonte/incontra dio/azzurra linea di colore/l’infinito…” (da “Silenzio tra cielo e mare”). Uno dei principi chiave della poetica di Rosaria Di Donato, come dimostra “Il fiore di melo”, celebra la forza evocativa che scaturisce da intuizioni soggettive e irrazionali, espressa attraverso uno stile agile e fluido. Tuttavia, a un livello più profondo, questa leggerezza suggerisce anche la capacità della scrittura di osservare la realtà. Come esprime l’autrice: “leggeri vorrei giorni / senza cupi pensieri / senza affanni / un filo di vento / fra le mani”, invitando a non farsi sopraffare dal peso del mondo. Da qui deriva l’alternanza tra il tema della violenza contro le donne, vittime dell’odio dei loro carnefici, e le poesie che commemorano l’assassinio di Samia Yusuf Omar e delle sorelle Mariposa, oppresse dalla loro opposizione al regime del dittatore Trujillo. In contrasto, si esplora anche il tema del luogo d’origine, depositario invece di un’esistenza genuina, colma di affetti profondi. I testi, accompagnati da fotografie, sembrano confermare la possibilità di riportare il passato nel presente, creando un dialogo profondo tra parole e immagini. In questo modo, riescono a sottrarre il passato al suo contesto originale, donandogli una dimensione di eterno presente. Una poesia può emergere come un modo per offrire serenità a un’anima inquieta. Niente è più adatto della poesia, che ci è stata trasmessa nel tempo, per narrare le esperienze degli uomini del passato. Essa comunica i loro sentimenti più profondi e la vita quotidiana, non attraverso descrizioni astratte, ma attraverso la rappresentazione di emozioni, coinvolgimento e una sorprendente attualità, come se fosse un autentico scrigno.

Maria Allo

Testi tratti da “Scrigno”

Lascito  

il quartiere

misurato

con il tuo passo

padre

ora mi è più caro

ogni angolo vivo

nel suono-profumo

di gemme in boccio

il tempo intriso

d’attese lo sguardo

che dai muri sorride

nuovo stupore

nei giorni infonde

rinnovata primavera.      

***

samia yusuf omar 

sono io samia

nube dissolta nel vento

onda mai giunta alla riva

sono io samia

corrente gelida inarrestabile

che solca oceani di luce

sola come un punto nel cielo

intemerata sfida

il pregiudizio

svelata (corre)

va oltre la morte

corre ancora (vince)

sono io samia

nulla potè la censura   

contro di loro

la rivolta scardinò

il regime (trujillo morì)

volevano essere farfalle

le sorelle mirabal

la dissidenza

ha dato loro le ali

***

C’è

c’è un pianto che non ha fine

sulla terra voce di chi non ha voce

donne umiliate-percosse

massacrate dall’odio dei carnefici

c’è un pianto che non ha fine

sulla terra voce degli orfani

delle vittime di femminicidio

non c’è sole per loro al mattino

ma ombre-tristezza e il vuoto

di una vita non-vita

incubo della paura

c’è violenza che annienta

***

scrigno

le notti insonni

uno scrigno dischiudo

di lucciole e parole

sembrano piccole stelle

e suoni comparsi

all’improvviso dal buio

volano ballano

s’attorcigliano

come a voler comporre

una canzone in libertà

è la poesia

che uscita dallo scrigno

s’innamora dei sogni

culla le anime inquiete

Rosaria Di Donato (2021)

Fotografia: Rita Valenzuela

Rosaria Di Donato è nata a Roma, dove vive. Laureata in filosofia (quadriennale e specialistica), insegna in un liceo classico statale. Ha pubblicato sei raccolte di poesia: Immagini, Ed. Le Petit Moineau, Roma 1991; Sensazioni Cosmiche, Ed. Le Petit Moineau, Roma, 1993; Frequenze D’Arcobaleno, Ed. Pomezia-Notizie, Roma 1999; Lustrante D’ Acqua, Ed. Genesi, Torino 2008; Preghiera in Gennaio, Ed. Macabor, Francavilla Marittima (CS) 2021. Scrigno, Amazon.it 2025. Ha partecipato sia come autrice che come organizzatrice alla Rassegna Realtà del Divino, a c. di N. A Rossi (Giubileo 2.000) a S. Nicola In Carcere – Roma. E’ presente nell’antologia Nuovi Salmi a c. di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino, Ed. I Quaderni di CNTN, Palermo 2012. Alcuni suoi testi sono inseriti in Voci dai Murazzi 2013, antologia poetica a c. di Sandro Gros Pietro, Ed Genesi, Torino 2013. Poesie dialettali compaiono nella Rivista i fiori del male 2013 n. 55, quaderno quadrimestrale di Poesia a c. di A. Coppola.  Ha partecipato con il gruppo Poeti per Don Tonino Bello alla realizzazione di Un sandalo per Rut Oratorio per l’oggi, Ed. Accademia di Terra D’Otranto – Collana Neobar, 2014. E’presente nell’antologia I poeti e la crisi a c. di Giovanni Dino, Fondazione Thule Cultura, Bagheria 2015. Ha pubblicato l’ebook Preghiera in Gennaio nella collana Neobar eBooks nel 2017. Ha partecipato all’eBook n. 217: Proust N.7 – Il profumo del tempo, di Aa. Vv. (LaRecherche.it – Un accordo di essenze). Nel 2019 ha partecipato all’antologia poetica Break Point Poetry – Città Poetica, c. di  Patrizia Chianese, nell’ambito dell’ Estate Romana. Ha partecipatoall’antologia Ho sete, l’Arte si fa Parola, a c. di Maria Pompea Carrabbae Ella ClafiriaGrimaldi, Ed. SarpiArte 2020; è presente nell’antologia del Concorso Nazionale di Poesia Città di Chiaramonte Gulfi – Premio Sygla XIV ed. 2022. Collabora a riviste di varia cultura e i suoi volumi si sono affermati sia in Italia che all’estero, con giudizi critici di Giorgio Barberi Squarotti, per esempio, e traduzioni in francese di Paul Courget e Claude Le Roy (riviste Annales e Noreal) e in inglese di Valeria Girardi (riviste on-line in vari Paesi). Partecipa al blog Neobar di Abele Longo e a vari siti letterari sul web. Vincitrice di alcuni premi di poesia, si interessa di arte, cinema, fotografia. Dal 2016 ha curato un laboratorio di scrittura creativa nel Liceo in cui insegna poi interrotto a causa del Covid-19. E’ presente nell’antologia Sorella Morte a c. di Giovanni Dino, Fondazione Thule Cultura, Bagheria 2023. Ha partecipato con il racconto Candore a Un magico e prezioso Natale – piccoli racconti per bambini di tutto il mondo, a c. di Sara Conci, Macabor 2023.

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“Piedi grossi” di Luisa Mattia

16 lunedì Giu 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Luisa Mattia, Piedi grossi, Racconti d'estate

Il racconto è tratto da Racconti d’estate, una raccolta di dieci racconti d’amore e d’amicizia attraverso la descrizione di periodi significativi del Novecento, dai primi anni del secolo fino alla caduta delle Torri Gemelle. I protagonisti sono adolescenti che vivono la realtà del loro tempo. Unico filo conduttore: l’estate, che diventa il pretesto per parlare di sentimenti e di modi di manifestarli, che nel corso del tempo sono cambiati nella forma, ma hanno mantenuto la connotazione di scoperta di sé. L’autrice racconta dieci vacanze secondo una successione di periodi estivi che hanno preceduto o seguito momenti significativi del Novecento.

*

 

2001-Stoccolma, Svezia

Ingrid ha i piedi grossi e me ne sono accorta da un bel pezzo. É una cosa che non posso fare a meno di guardare, quando entra in piscina per gli allenamenti. Indossa il costume colorato con le paillettes, i capelli sono raccolti in uno chignon, le spalle sono dritte, le gambe in linea perfetta con le ginocchia, ma i piedi… quelli sono proprio fuori misura.

“Avessi io solamente quel difetto!” mi ha detto Kristina, una mia compagna di nuoto sincronizzato.

È stata l’unica volta che ho parlato dei piedi di Ingrid con qualcuno. Poi non l’ho fatto più perché tutti l’adorano e questa cosa non la sopporto. Vorrei essere come lei? No. Vorrei che mi adorassero come succede a lei? Sì. Siamo nella stessa squadra di nuoto sincronizzato da un bel pezzo e, col passare del tempo, siamo migliorate e adesso siamo parecchio brave nelle gare di gruppo. Nel sincronizzato singolo me la cavo bene, ma Ingrid è più brava di me. Cosi sembrano pensare le giurie. Poco tempo fa si è piazzata al primo posto nei Campionati regionali e io solo quarta.

“Meglio una medaglia di legno che niente” ha commentato mio padre. “La prossima volta ti piazzerai meglio. Allenati di più. Prendi esempio da Ingrid.”

Anche mio padre adora Ingrid, è evidente. Io la detesto e vorrei che sparisse dalla mia vita, dalla mia piscina, dalle mie gare. Invece resta. E vince. Vince su tutta la linea. Infatti, si è presa anche Sven.

Sven abita a due passi da casa mia e ci conosciamo da molto tempo. Io non l’ho mai preso in considerazione quando eravamo piccoli ma, adesso che stiamo per finire la scuola dell’obbligo e siamo cresciuti, lo guardo con altri occhi. Lui guarda Ingrid e lo trovo intollerabile. Quando finisce gli allenamenti, con la scusa di aspettarmi per tornare a casa insieme, si mette a sedere sulle gradinate e dice di voler seguire i nostri esercizi, ma in realtà guarda solo lei. Lo so perché ogni volta che riemergo dall’acqua, punto lo sguardo su di lui e vedo che non mi tiene proprio in considerazione. Detesto anche lui, da un po’. E avrei voglia di chiedergli che cos’ha di speciale Ingrid, ma tanto so bene che se ne uscirebbe con quelle frasette smozzicate che usa lui quando è in imbarazzo, magari balbetterebbe e cambierebbe discorso. Ieri ho provato il costume da gara nuovo. Mi sono messa davanti allo specchio e non mi sono piaciuta. Il costume non ha colpa perché è bellissimo, con i colori dell’arcobaleno, un velo che lo tiene aderente alle spalle e le paillettes che brillano. Sono io che proprio non vado bene perché mi sono vista le gambe e le ho trovate corte e tozze. Ho guardato le spalle e sono parecchio graciline. Il collo… è corto. Avevo i capelli sciolti e, siccome sono lunghi, mi facevano il collo ancora più corto. Mia madre è intervenuta e me li ha raccolti in uno chignon, ma io ho continuato a vedermi per quello che ero: una ragazzina senza niente di bello. A parte i piedi. Perché quelli li ho perfetti e in una <<gara di piedi» surclasserei Ingrid senza problemi. Mi sono tolta il costume e l’ho messo nella borsa, insieme ai sandali e all’accappatoio. Sven mi aspettava, per andare insieme in piscina. Quando ho aperto la porta, me lo sono ritrovata davanti che mi sorrideva e gli ho detto: «Che c’è da ridere?» e lui ha abbassato la testa e non abbiamo scambiato una sola parola fino alla piscina, dove ci siamo separati. Credo che abbia mormorato il suo solito «a più tardi», ma io non gli ho risposto perché alla sola idea di indossare il costume nuovo davanti alle altre mi sentivo male per la vergogna. Sono tutte più belle di me. Sono tutte più brave di me. Ingrid più di tutte. Nello spogliatoio eravamo eccitate perché è giorno di prova di ammissione, cioè facciamo gli esercizi di squadra e di singolo e il coach decide chi gareggerà e chi no. Io sono sempre in bilico tra l’ammissione e l’esclusione. Oggi non andrà bene, me lo sento. Ingrid è concentratissima come sempre, più di sempre. Difatti, non dice una parola e fa stretching in disparte, gli occhi persi a guardare lo specchio d’acqua della piscina, oltre la vetrata. Lei è fatta così: pensa solo agli esercizi e non si lascia distrarre da niente e da nessuno. Quando il coach ci chiama, lo raggiungiamo. Ingrid arriva per ultima e si tuffa dopo tutte noi. È il suo modo di farsi notare, penso. Lei evita di confondersi con noi, penso. L’esercizio a squadra è andato come doveva andare. Cioè bene, con qualche incertezza.

“Si risolveranno” ha detto il coach fiducioso, e ha ragione.

Gareggiare in gruppo rende tutte noi più capaci di concentrazione, più determinate. Nell’esercizio a squadre, io dimentico i miei difetti e mi focalizzo su quello che devo fare e riesco bene, così tanto che mi dimentico perfino di Ingrid. Solo che poi ci sono anche gli esercizi singoli. Il programma che mi ha dato il coach è difficile.

“È segno che ti ritiene in grado di riuscire al meglio” ha commentato mio padre.

Forse ha ragione e io mi sono impegnata moltissimo, ma il fatto che il coach abbia dato lo stesso livello di difficoltà anche al programma per Ingrid mi fa disperare, perché penso che sia un modo per favorirla. Perfino il coach l’adora e con questa serie di esercizi in acqua è sicuro che avrò incertezze e non sarò perfetta come lei. E siccome andrà come prevedo, sarà Ingrid a gareggiare per il nostro club. Sarà lei a indossare il costume arcobaleno con le paillettes e l’applaudiranno tutti, anche Sven. Sono scesa in acqua con questa convinzione e molta rabbia. Ho fatto la mia prova, secondo il programma previsto dal coach. Tutte le ragazze mi guardavano. Ho sentito gli occhi di Ingrid su di me per tutto il tempo e quando sono risalita dalla scaletta me la sono ritrovata davanti, pronta a tuffarsi. Io ho abbassato la testa e mi sono avvolta nell’accappatoio. Lei è scesa in acqua. Il coach non mi ha detto niente. La musica della prova di Ingrid è partita, mentre Sven si sedeva sulle gradinate in tempo per vederla danzare in acqua. Che tempismo! Mi è venuto da piangere e sono corsa nello spogliatoio. Sotto la doccia ho pianto e non so spiegare per che cosa. Per Sven? Per il mio collo corto? Per le mie gambe tozze? Per Ingrid? Il tempo di chiedermelo non ce l’ho avuto, perché tutte le ragazze sono piombate nello spogliatoio gridando ma, lì per lì, ho capito solo «New York». Ce la sogniamo da tempo la Grande Mela per poterci andare a disputare qualche gara, fare un tour negli Stati Uniti se diventiamo brave a fare un bello spettacolo di sport, però le facce erano tristi e qualcuna piangeva. In un attimo, come erano entrate sono uscite, indossando gli accappatoi. Ingrid gocciolava ancora, per il fatto che doveva essere uscita di corsa dalla piscina. lo le ho seguite e ci siamo ritrovate ad accalcarci davanti alla TV che sta nel gabbiotto del custode. Si vedevano le Torri Gemelle di New York bruciare. Ingrid era accanto a me, la faccia pallidissima e mi sono accorta che tremava, ma forse era per il fatto che era ancora bagnata.

“È la guerra?” ha chiesto Kristina.

“Spero di no” ha mormorato il coach.

“E’ un macello” ha commentato il custode.

Sven, che era li, muto come noi, a guardare le immagini della CNN, si è avvicinato e si è messo tra me e Ingrid. Più vicino a Ingrid che a me. Ho pensato che lo stava facendo per poter consolare Ingrid che tremava davvero come una foglia. Poi, Sven mi ha parlato.

“Hai paura?” mi ha detto sottovoce. “Ci sono io” ha aggiunto, mi si è avvicinato e mi ha stretto la mano. Ed è stato in quel momento che ho cominciato a tremare. Le emozioni si mescolavano: avevo paura per quello che vedevo in TV e che mi sembrava così irreale. E provavo una gioia incontenibile perché Sven mi teneva la mano ed era così reale! Il coach ci ha mandate a casa subito. Però, prima ci ha detto che la prova singola l’avrebbe fatta Ingrid. Mi sarebbe piaciuto sentirgli dire il mio nome? Sì. Mi è dispiaciuto che non abbia detto: «La prova singola la farai tu, Wilma»? No.

Improvvisamente, non me ne importava più niente della gara, della prova, dei premi. Niente.

“Wilma…” ha detto Sven, chiamandomi sottovoce.

E m’è sembrato che fosse la prima volta che lo sentivo dire il mio nome, perché me lo ha detto tendendomi la mano e facendomi un cenno lieve con la testa. Chiamava me, proprio me e mi è nato dentro un sentimento nuovo, come se cominciasse a esistere una Wilma che prima di quel momento non c’era. Mi sono venute delle lacrime di allegria, ma non ho pianto. Ho sussurrato un «sì» e sono uscita dalla piscina con Sven. Sulla via del ritorno, io e Sven abbiamo parlato delle Torri, di New York, della paura e delle gare. E di Ingrid.

“È bella Ingrid” ha detto Sven e ho sentito lo stomaco che si annodava per la gelosia.

“È bravissima” ha aggiunto e ho sentito che il nodo di gelosia si stringeva di più e mi mancava il fiato per parlare.

Ho ritirato la mia mano dalla sua e, per un po’, abbiamo camminato vicini, in silenzio. Sentivo il rumore dei nostri passi e il respiro leggero di Sven che, mentre ci avvicinavamo a casa, mi ha preso di nuovo la mano e io istintivamente gliel’ho stretta, attirandolo verso di me. Lui ha fatto una risatina, prima di dire: «Però… io penso che Ingrid…».

Però… che cosa stava per dire? Mi sentivo gelare.

“Però… ha i piedi grossi” ha concluso, ridacchiando.

“Lo amo” ho pensato abbracciandolo. Prima o poi, glielo dirò.

 

Luisa Mattia, da Racconti d’estate, Lapis, 2020

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“La muta per amore” di Francesca Canobbio, Terra d’ulivi edizioni, 2024

28 mercoledì Mag 2025

Posted by Loredana Semantica in CRITICA LETTERARIA, Note critiche e note di lettura, Podcast

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Francesca Canobbio, La muta per amore, Podcast

“La muta per amore” è l’ultima opera di Francesca Canobbio stampata per i tipi di Terra d’ulivi edizioni nell’anno 2024. In copertina una foto dell’autrice, che mette in luce i grandi, magnetici occhi verdi.

Il titolo “La muta per amore” ha per la sua prima parte un senso ambivalente. Muta come cambio di pelle quale avviene per certi animali che abbandonano la pelle vecchia per venirne fuori con una tutta nuova che li ricopre. Pronti a vivere un’altra fetta d’esistenza ringiovaniti, rigenerati, lucidi, levigati. Muta è anche il rinnovare di piume o pelo degli uccelli o dei mammiferi. In questo senso potrebbe intendersi “La muta” come  metamorfosi che “muta” radicalmente l’essere. “Muta” tuttavia  è anche l’aggettivo qualificativo che indica il fare silenzio declinato al genere femminile, potrebbe quindi voler alludere all’atto di tacere “per amore”. In entrambi i casi quest’ultima locuzione non lascia dubbio sulla seconda parte del titolo, la potente forza che ha ingenerato la trasformazione o provocato il mutismo. Dal silenzio, in particolare, è ben noto che spesso germogli la scrittura poetica.

All’interno del libro tre sezioni,  la prima e più ampia, senza titolo, è arricchita dalle tavole pittoriche di Stefania Bergamini le altre sezioni sono  titolate “Le cinque fiamme” e “Temporalia”. La prima contiene, tra l’altro, le sottosezioni LA MUTA PILOTA, LA MUTA PAZIENZA, LA MUTA COMMOSSA, LA MUTA COMPAGNA, LA MUTA ROSA, LA MUTA SPASIMANTE, LA MUTA MISURA, LA MUTA RIDE, LA MUTA NOSTRA, LA MUTA CALIGO.

Il trasformismo che anima “la muta” la offre allo sguardo nel fermo immagine di una pluralità di declinazioni che oscillano dalla sofferenza, alla tenerezza, dall’esitazione alla certezza, dalla dedizione alla nudità. Quest’ultima spalanca le porte dell’introspezione, un onere d’indagare a cui non è aliena l’espressione poetica. Si direbbe, nell’insistenza del vocabolo, che sia il tacere a produrre il frutto.

L’opera si compone per la maggior parte di scritti in prosa poetica, caratterizzati dalla quasi totale assenza di segni di interpunzione e da un’abbondanza di relativi (“che”, “dove”), nonché dall’andamento tipico del flusso di coscienza, nel quale immagini, ricordi, sensazioni, pensieri, desideri fluiscono inarrestabili fino al punto fermo che delimita l’enucleazione. Pochi testi hanno invece la forma più consueta della poesia, con i versi delimitati dagli a capo. Queste poesie segnano un apice dove, pur nella brevità, il dettato si distende, amplifica, esalta e puntualizza “che sei scheletro dei miei mondi”, rivolgendosi a un “tu” che è anche “musica” “tamburo d’ossa”, “spina dorsale”. Un’essenza in seconda persona singolare, spesso chiamata in causa, che si pone al vertice dell’architettura fondante l’interiorità e l’armonia dell’interlocutrice.

Il tema che è la causa della “muta”, focalizzato fin dal titolo, è l’amore. In tal senso è centrale la poesia di pag. 25 (vedi la prima immagine qui sotto), che reca appunto questo titolo. La scrittura riverbera il sentimento amoroso. Serpeggiano in tutta l’opera la sensualità e la sessualità che lo pervadono. L’alleanza potenzia il singolo proiettato nel rapporto e lo esalta in una pluralità di connessioni, nella varietà delle circostanze, nella combinazione degli elementi soggettivi e antropici, la complessità della relazione fiorisce in un dinamismo al contempo duplice – monolitico – molteplice. Come una rosa dai molti petali che, ciononostante, resta una. L’amore riluce nella percezione di un caleidoscopio – fantasmagoria di forme e colori -, ma è consapevole anche di un dopo o oltre, al quale, nel viluppo della ramificazione tende, perchè sbocco inevitabile che, di contro, libera dalla materialità e dalla materia, dal corpo e dalle necessità. Punto di approdo per l’esplicazione totale del sentire amoroso esteso oltre ogni delimitazione dell’empirico.

La prefazione all’opera è di Francesco Forlani, chiude Paolo Ivaldi con la postfazione.

Loredana Semantica

Di seguito una breve lettura di Loredana Semantica di una poesia di Francesca Canobbio tratta dalla raccolta “La muta per amore”, Terra d’ulivi edizioni, 2024

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Incontro di sguardi tra profezia e memoria

15 martedì Apr 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA

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Ernst Jünger, Franz Kafka, Joseph Conrad, Maria Allo, Osip Ėmil'evič Mandel'štam, Paul Celan, Rainer Maria Rilke

A cura di Maria Allo

Joseph Conrad

Nella prima metà del Novecento, la letteratura ha spesso anticipato i segni premonitori della disumanizzazione dell’uomo, che si sarebbe tragicamente concretizzata ad Auschwitz. Un esempio significativo è il romanzo “Cuore di tenebra” (Heart of Darkness, 1902) di Joseph Conrad (1857-1924), che illustra in modo straordinario l’orrore insito nella civiltà occidentale e il suo desiderio di controllo globale, realizzato attraverso l’uso razionale dello sfruttamento economico delle risorse e del dominio politico. Questo orrore si manifesta tanto nel lento scorrere del Tamigi quanto in quello del Congo, che rappresenta il confine della civiltà occidentale e il palcoscenico dell’impresa eroica e brutale, sacra e maledetta, del misterioso Kurtz. Grazie alla forza critica e ironica della sua scrittura, Conrad riesce a superare gli stereotipi culturali del suo tempo, offrendo una rappresentazione senza pregiudizi della dura realtà del dominio coloniale. Si tratta di una vera e propria disamina. Il paesaggio appare apocalittico e distrutto, caratterizzato da burroni, crateri, rottami metallici di macchinari, vagoni ferroviari, rumori assordanti e mine. Nella visione letteraria di Conrad, questo scenario coloniale si trasforma in un cupo girone d’inferno, dove i dannati sono i neri e i diavoli i bianchi. L’attualità di questo testo è splendidamente rappresentata dalla visionaria trasposizione cinematografica ambientata nel Vietnam americano, realizzata in “Apocalypse Now” (1978) da Francis Ford Coppola.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Nel 1923, il poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam, a pochi anni dall’inizio della rivoluzione, scrive un drammatico confronto con il suo secolo: “Secolo mio, mia belva, chi saprà/ fissare lo sguardo nelle tue pupille, /chi incollerà con il proprio sangue/ le vertebre di due secoli? / Sangue costruttore sgorga/ dalla gola di cose terrene, /Tenera cartilagine di bimbo/ è il secolo infantile della terra:/hanno immolato ancora una volta/ come un agnello il cranio della vita”. Nelle parole di Mandel’štam si percepisce un’immagine chiara e inquietante delle tragedie che di lì a poco avrebbero colpito il continente. Questo sembra confermare l’idea che, nello specchio della letteratura autenticamente creativa, la realtà si rivela nella sua essenza più profonda e nascosta. Come si può dimenticare il presagio della violenza anonima e impersonale della burocrazia nei romanzi di Franz Kafka?

Franz Kafka

Attraverso i suoi inquietanti e surreali personaggi di Praga, Kafka mette in luce, in modo profondo e primordiale, la vulnerabilità della vittima. Allo stesso modo, il disagio e il senso di alienazione dell’uomo del Novecento trovano una piena e originale espressione nell’opera del boemo. Nella Metamorfosi (Die Verwandlung, 1916), il protagonista Gregor Samsa si confronta con un mondo dominato da una legge incomprensibile, che lo schiaccia sotto il peso di una colpa indefinita, vanificando ogni tentativo di comprensione e ogni protesta d’innocenza. Inoltre, i meccanismi di controllo e tortura, rappresentati come una macchina che funziona autonomamente per dodici ore consecutive, nella Colonia penale (In der Strafkolonie, 1919), si manifestano attraverso la scrittura del comandamento violato sui corpi nudi dei condannati, sotto la supervisione di un ufficiale che incarna caratteristiche inquietanti: “soldato, giudice, ingegnere, chimico e disegnatore”.

Ernst Jünger

Analogamente, gran parte dell’opera di Ernst Jünger (1895-1998) offre spunti di riflessione sull’inumanità della vita quotidiana e si focalizza sull’analisi della società di massa. Questo approccio prende avvio dalla sua esperienza durante la prima guerra mondiale, descritta in “Tempeste d’acciaio” (In Stahlgewittern, 1920), e dal cambiamento sociale che ne è scaturito, esplorato in “Operaio” (Der Arbeiter, 1932). Jünger indaga come la mobilitazione sociale generi un’energia capace di trasformare le società contemporanee, ritrattando gli individui come insetti oscuri, privi di princìpi o ideali, mossi esclusivamente dall’organizzazione e dalla struttura tecnica delle loro azioni. Anche la poesia sembra aver anticipato questa trasformazione, non solo della vita, ma soprattutto della morte, evidenziando un cambiamento significativo nel modo in cui viene espressa. Essa evolve il proprio linguaggio e le forme del canto per affrontare la morte e tradurla in parole. Come possono coesistere la bellezza e l’orrore estremo? E come può l’essere umano trovare il proprio posto di fronte a tenebre così profonde? Il semplice atto di nominare l’orrore implica già un confronto con l’umanità, opponendosi all’inesorabile barbarie che si manifesta sia all’esterno che all’interno di noi, come abbiamo potuto osservare attraverso le opere di Conrad. Per Jünger, così come per il filosofo Martin Heidegger (1889-1976), esiste una netta e ferma consapevolezza dell’inadeguatezza dei criteri tradizionali dell’umanesimo nel comprendere e affrontare la realtà attuale. Auschwitz non ha scosso profondamente questa convinzione; al contrario, ha spinto entrambi a esplorare con maggiore urgenza il superamento dell’umanesimo, avvalendosi di strumenti di pensiero che non si fondano esclusivamente sul concetto tradizionale di “uomo”. La poesia sembra aver anticipato la trasformazione non solo della vita, ma soprattutto della morte nella società di massa. Questo cambiamento si riflette in un profondo mutamento nel modo di esprimerla, nel linguaggio e nelle forme del canto, per poterla affrontare e tradurre in parole.

Rainer Maria Rilke

Un esempio evidente di questo cambiamento si trova in Rainer Maria Rilke (1875-1926), il quale, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, pubblicato nel 1910), esprime il suo orrore di fronte alla morte degli uomini nell’Hôtel-Dieu, il più grande e antico ospedale di Parigi. Rilke descrive con profondo dolore la massa di diseredati e mendicanti parigini, il commercio della prostituzione e l’angoscioso morire anonimo di individui abbandonati. L’ultima parte del Libro d’ore, intitolata “Il libro della povertà e della morte”, provoca in Rilke un forte impatto emotivo e assume una forza profetica, come se anticipasse i segni premonitori di una disumanizzazione crescente. La massificazione e la produzione a ritmi industriali, insieme alla spersonalizzazione degli individui, conferiscono alla morte le caratteristiche di un processo meccanico. Tuttavia, di fronte all’orrore e alla mostruosità di questo oscuro meccanismo di morte, tipico delle grandi città “perdute” e “sfatte”, in cui l’uomo è privato della sua “dolce” e “personale” morte, Rilke contrappone la vera povertà del desiderio e del bisogno. L’amore emerge come una forma di consolazione e fiducia, ma soprattutto come la “grande morte”, quella “propria”, che cresce dentro ogni essere vivente fin dalla nascita. Questa morte è consegnata a ciascuno insieme al proprio esistere, simile a un “frutto” che matura con la vita e l’amore. La metafora del frutto evoca l’idea di generazione, collegata all’amore come desiderio e unione sessuale, ma anche come abbandono confidente, il quale a sua volta sviluppa il concetto dell’effimero scorrere del tempo e della transitorietà di ogni cosa.

Dal Libro della povertà e della morte (6,7,8.)

 “O Signore concedi a ciascuno la sua morte:

 frutto di quella vita

in cui trovò amore, senso e pena.

***

Noi siamo la buccia e la foglia.

La grande morte che ognuno ha in sé

è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa.

Per questo frutto crescono le ragazze

levandosi come un albero da un liuto

e ragazzi per averle bramano diventare adulti,

e chi cresce confida alle donne paure

che nessun altro potrebbe placare.

Per questo frutto rimane eterno

quel che ammirammo anche se passato da tempo-

e scultori e architetti si realizzarono

in un mondo che gelò, sgelò

e s’intrecciò con esso illuminandolo.

Vi fluirono dentro il calore del cuore

e il bianco ardore del cervello-:

ma i tuoi angeli vi passano sopra come uccelli:

tutti i frutti erano verdi per loro.

***

Signore, siamo più poveri delle povere bestie

Che muoiono della loro morte, anche se cieche

Perché noi non siamo ancora morti.

Concedici uno che riesca

a intrecciare la vita ad una pergola

su cui a tempo giusto inizi maggio.

Perché ciò che ci rende estraneo e greve il morire

È che la morte non è nostra, ch’essa ci prende

Solo perché non ne abbiamo maturata un’altra.

Ed è una tempesta e ci sfronda tutti.

Cresciamo nel suo giardino per anni,

alberi ai cui rami pende la dolce morte,

ma quando giunge il tempo del raccolto

siamo vecchi, donne che hai picchiato;

chiusi, cattivi e sterili.

O la mia boria è forse ingiusta?

Gli alberi sono migliori? Siamo soltanto

sesso e ventre di donne compiacenti?

 Abbiamo copulato con l’eterno

per partorire al momento delle doglie

i defunti aborti della nostra morte,

il curvo, triste embrione

che (spaventato da cose orribili)

si copre con le mani gli occhi ancora in germe

e reca sulla fronte già formata

la paura dei suoi futuri dolori-

e tutti muoiono come sgualdrine

sul letto dl parto, al taglio cesareo.

R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

L’orrore generato da questo inquietante meccanismo di morte ha un forte impatto sulle ultime opere di Rilke, come abbiamo osservato.

Questa reazione si manifesta e si intensifica anche nella poesia di un altro grande poeta, Paul Celan (1920-1970), il quale ha posto al centro del suo linguaggio l’esperienza della morte dopo Auschwitz.

Paul Celan

LETTO DI NEVE di Paul Celan

Occhi, ciechi al mondo,

dentro le crepe del morire:

vengo, io, con più durezza

in cuore. Vengo.

Specchio lunare ardua

parete. Giù! (Lanterna

macchiata di fiato. Strisce

di sangue. Anima

annuvolante, di nuovo

quasi figura. Ombra delle

dieci dita – avvinghiate.)

Occhi ciechi al mondo,

occhi dentro le crepe del

morire, occhi, occhi:

Il letto di neve sotto noi

due, letto di neve. Cristallo

per cristallo, in griglia

profonda quanto il tempo,

noi cadiamo, e

cadiamo e restiamo e cadiamo.

Noi cadiamo: Noi fummo.

Noi siamo. Siamo una sola

carne con la notte.

Nei cunicoli, cunicoli.

P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

In “Grata di parole” (1959), la poesia di Celan trascende il semplice commento su un evento tragico. Essa si propone come un tentativo di preservare la memoria del passato e di redimere i “sommersi” attraverso la potenza della parola poetica. La sua scrittura si impegna in una ricerca intensa e talvolta oscura, ma è caratterizzata da una straordinaria forza lirica e semantica. Auschwitz ha privato i morti della loro voce, ha reso mute le loro bocche, ha pietrificato le loro palpebre e ha trasformato il mondo in un deserto sepolto dal gelo della neve, soffocato da un’aria intrisa dell’orrore di quei corpi ridotti in cenere. Solo la poesia può cercare il barlume luminoso della loro parola (Lanterna macchiata di fiato, v.5) e penetrare le palpebre pietrificate (negli occhi dentro le crepe del morire, v.9, richiamando l’immagine di Levi della “Gorgone”) di quegli sguardi persi nel vuoto della camera a gas. Solo la poesia ha il potere di catturare l’immagine che racchiude l’eco dell’ultimo respiro, affinché essa possa essere custodita. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di avviare un dialogo e un incontro di sguardi, elementi fondamentali per i vivi, affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte come esseri umani. Gli occhi diventano una metonimia, simboleggiando l’atto di vedere, la luce e il giorno (temi presenti in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e creano un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Tuttavia, ora solo un letto di neve—gelido e desolato come gli inverni orientali, dove i forni crematori hanno disperso le ceneri di quegli sguardi—accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. Solo la poesia ha la capacità di raccogliere da essi l’immagine che custodisce l’eco di quell’ultimo respiro. Perché possano a loro volta custodirlo. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di instaurare un dialogo e un incontro di sguardi, essenziali per i vivi affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte da esseri umani. Gli occhi fungono da metonimia, esprimendo l’idea di vedere, di luce e di giorno (temi che ricorrono in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e stabiliscono un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Ma ormai solo un letto (in cui si compendia l’immagine nuziale e al contempo funerea) di neve-vale a dire gelido e deserto come quello degli inverni orientali in cui i forni crematori dispersero le ceneri di quegli sguardi- accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. La “grata di parole” che offre gioia ai vivi e dignità ai morti è stata spezzata: l’ombra del silenzio si allunga su un mondo che persiste dopo lo sterminio. In risposta a questo silenzio, la poesia di Celan intraprenderà un cammino lungo, oscuro e affascinante, che porterà infine alla consapevole decisione di rimanere in silenzio per sempre.

Note

– R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

– P. CELAN, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

-Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1988

-H. Langbein, Uomini ad Aushwitz, Mursia, Milano 1984

-Th.W.Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972

-G.Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, Milano 2001

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Considerazioni a margine di “Amén” di Sergio Daniele Donati, Il Leggio, 2024. Recensione di Ester Guglielmino.

24 lunedì Mar 2025

Posted by Deborah Mega in CRITICA LETTERARIA, Recensioni

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Amén, Ester Guglielmino, Sergio Daniele Donati

 

“Parlai di inciampo e balbuzie
molto prima che il cuore
s’infiammasse dell’inutilità
della parola.

Per la prima volta –
conobbi allora
quanto è spaventevole
il silenzio che precede ogni creazione.”

Inizia con queste parole Amén, l’ultima silloge di Sergio Daniele Donati, parlandoci di inciampi e balbuzie, dell’inutilità della parola come arma che taglia di netto le ingiustizie della vita, del silenzio come spaventosa partenogenesi di tutto ciò che un uomo può arrivare a dire. E, da cultori della parola, come non concordare fin da subito col poeta? Con questo suo ossimoro ragionato che scopre a priori le carte in gioco, lasciandoci scevri d’ogni certezza, se non di quella che alligna nella consapevolezza della nostra imperfezione? Quella stessa imperfezione che ci fa anelare, nel contempo e per tutto il nostro tempo, alla perfettibilità dell’essere, dell’esistere, del progettare.
È il silenzio la condizione del nostro venire al mondo, e pure del lasciarlo; quel silenzio che ci trova soli, intenti a misurare l’ampiezza delle nostre ferite e la misura del passo che possiamo compiere nel tentativo di colmarle. Parimenti, in una prospettiva sovra-individuale, il silenzio si attesta all’origine (e alla fine) d’ogni altra creazione. E grida, primordiale, grida tutto ciò che non riusciamo compiutamente a percepire; è la voce del mondo che esiste e che si regola a dispetto della nostra partecipazione. Ci sarà stato un deflagrare di galassie, un riversarsi di acque che esondavano la misura dell’umano, un avvicendarsi di esseri pronti a mettere in gioco la sopravvivenza della propria specie. Eppure tutto ciò è avvenuto nell’assoluto silenzio del linguaggio umano. E tutto ciò, probabilmente, marcherà la fine d’ogni passaggio che, sulla Terra, possa ancora compiere l’uomo. È nel silenzio, insomma, che rimbalza l’eco della nostra natura minuscola e accessoria.
Eppure, è proprio questo mistero non verbale, insito in ogni atto di creazione e conclusione, che l’uomo cerca da sempre di colmare con la narrazione. Si stima che il linguaggio sia apparso sulla Terra circa due milioni di anni fa con l’homo habilis, come strumento di difesa e aggregazione, e che poi, trentamila anni or sono, con l’homo sapiens sapiens sia finalmente diventato strumento di trasmissione di esperienze, di scambio di elementi simbolici, di sviluppo di capacità astrattive. Il linguaggio è, quindi, professione dell’arcano del mondo; tentativo di raccontare agli altri la propria idea di creazione; atto di auto-conservazione dinnanzi all’inadeguatezza d’ogni spiegazione; è risposta umana all’ignoto che ci trascende e fa paura. Ed è in questo perenne esercizio di scelta per esprimere l’inesprimibile che matura, nella storia, l’arte della parola: “[…] datemi un machete/ e vi mostrerò le tracce dell’Antico/ tra liane e sterpaglie./ Sarà lui la vostra guida.”.
Sopravvivenza al dolore, alla paura, alla noia, al tempo, al proprio trascorrere per poi non più esistere. La parola perpetua il passaggio. È il testimone, il filo rosso che si dipana dall’antico al contemporaneo al futuro. Una storia che si arricchisce di molteplici voci, che diventa – di necessità – un coro: “[…] Mi chiedi da dove io venga?/ Vengo da una crepa di una storia antica,/ vengo con mani impolverate/ e ginocchia sbucciate/ a pregare il mondo/di venerare le stelle/ che io ho dovuto dimenticare.”; perché è in questa trasmissione che si compie lo scarto verso l’alto, il salto che permette di diventare eterni; la vertigine che svetta nell’altezza: “Gli alberi si baciano in alto,/ troppo pudichi per mostrare/ al mondo l’intreccio/delle loro radici.”
È lungo questa strada che la nostra voce diventa risonanza sempiterna dell’umano, richiamo che non muore ma che si rinnova di senso al passaggio dei secoli e delle generazioni, perché: “Finiamo coll’ospitare/ nelle rughe delle mani/ parole altrui – malsane -/ per non dirci capaci/ del volo che c’appartiene. […]”.
Se il silenzio è il tutto da cui proveniamo e verso cui torniamo, la parola è anche scelta
precipua; è affermazione limpida di pensiero; è conferma dell’esistere e della volontà di creare una catena che renda l’uomo meno solo, che renda l’umano meno provvisorio. Che si confidi o meno nell’arbitrarietà del significante a dispetto di ogni intrinseco significato, è indubbio che la parola implica sempre un atto di elezione e di riferimento all’altro: è esclusione di tutte le altre parole e, al contempo, individuazione di una sola variabile possibile con, implicite, tutte le sue antiche risonanze. Non solo, anche il silenzio che la precede o la segue è atto di scelta, in qualità di gestazione o sospensione. Se si riesce a dare il giusto peso al silenzio che circonfonde la parola e che con essa costituisce un’unità indissolubile, si riesce a ridare la giusta importanza al pensiero che la rappresenta e, soprattutto, al dialogo sotteso che essa stessa implica.
La parola come diaframma – insomma – che collega il nostro corpo con l’esterno; come
seconda pelle che vive di contatto, sedimentazione, trasformazione e dono. E questo principio è tanto più valido per la parola poetica che, per definizione, vuole essere senso scelto, distillato, vibrante nell’altro, continuum che perpetua la memoria.
C’è una bellissima sezione di Amén dedicata ai dialoghi coi grandi poeti del passato, ma anche con alcuni dei più rappresentativi contemporanei. Questa sezione ci ricorda quanto la comunità poetica dovrebbe essere luogo di confronto e di scambio, perché non c’è nulla che non sia stato detto in letteratura, tutto viene solo recuperato e restituito con parole nuove, aggiungendo la propria traccia a quella dei poeti che ci hanno preceduto. Peccato – sembra dire, tra le righe, il nostro – che questo senso di comunità venga oggi ad affievolirsi sempre di più, nella misura in cui ci lasciamo sedurre dalla deriva individualistica dei tempi, nella misura in cui stiamo attenti non “a cosa si dica” ma solo al fatto che “lo si dica” e che “nel dirlo” si sia ammirati, seguiti, riconosciuti. In Donati c’è, invece, la consapevolezza onesta che non si è nulla senza un passato e un presente e un’anima altra con cui dialogare nel tempo.
Quella di Donati è una parola poetica misurata ed elegante; dietro vi si scorgono risonanze storiche – e metafisiche – a lungo ponderate, fatte proprie, lasciate andare sulla pagina come essenza personale e viva. Non c’è mai artificio nelle sue volute filosofiche e letterarie, perché sono acquisto maturo e consapevole, bagaglio di lungo corso, pronto a mettersi a disposizione di chi legge o ascolta. È una parola che non indulge mai a facili giochi di prestigio, ma che acquista la sua potenza nelle risonanze di senso che riesce a costruire.
Anche la sintassi è sempre limpida e chiara, riflesso di un pensiero già presente e consapevole nella mente di chi scrive. D’altronde è solo per questa via che la parola può diventare baluardo della fragilità contro la violenza del mondo. Nella compostezza di un frutto già raccolto, assaporato e custodito. C’è un senso delle cose già sviscerato e dato per acquisito, così come lo è quella zona d’ombra che si ammanta di mistero, un mistero accolto e mai violato come bagaglio eterno da cui trarre fuori la propria – e altrui – poesia.

 

Modica, 22 febbraio 2025 Ester Guglielmino

 

Nota bio-bibliografica dell’autore

Sergio Daniele Donati (Milano, 1966) è un avvocato milanese che si occupa di diritto commerciale e tutela dei minori. Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale, insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione e tiene seminari sul valore simbolico dell’alfabeto ebraico.
Ha pubblicato per Divergenze edizioni il romanzo Tutto tranne l’amore (2023).
Sue poesie sono state inserite nella antologia poetica collettiva curata da Roberto Addeo Pasti caldi, giù all’ospizio – Antologia degli opposti (Transeuropa ed., 2023).
Ha pubblicato per Ensamble edizioni la silloge Il canto della Moabita (2021).
Ha pubblicato per Mimesis edizioni (Collana dei Taccuini del Silenzio) il libro E mi coprii i volti al soffio del Silenzio (2018).
È fondatore, caporedattore e curatore della pagina letteraria Le parole di Fedro, dove
propone alcuni dei suoi percorsi nel linguaggio poetico e narrativo.
Altre sue poesie sono state pubblicate più volte su vari litblog, su riviste cartacee e online e su quotidiani nazionali.

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Emilio Paolo Taormina, “Il tempo lungo”, Ladolfi Editore, 2024. Nota di lettura di Deborah Mega

17 lunedì Mar 2025

Posted by Deborah Mega in CRITICA LETTERARIA, Note critiche e note di lettura, POESIA

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Emilio Paolo Taormina, Il tempo lungo

 

 

Da molto tempo è nota la vocazione poetica di Emilio Paolo Taormina, apprezzatissimo poeta e scrittore siciliano dei nostri anni. L’ultima sua raccolta, “Il tempo lungo” è stata edita a ottobre 2024 da Ladolfi Editore ed è permeata da due sentimenti prevalenti: l’amore che domina i rapporti interpersonali e con la natura che circonda il poeta e il sentimento del tempo che passa. La raccolta è costituita da un nutrito numero di componimenti e frammenti che per la loro organicità, compattezza, omogeneità di toni e temi, si presentano come un unitario poema d’amore. Poesia crepuscolare, ricca di metafore e personificazioni, poesia della memoria, dove si alternano dialoghi immaginari con l’amata, monologhi interiori, flussi di coscienza. La lezione è quella dei poeti decadenti, di Machado, Salinas e altri grandi del Novecento. Come scriveva Machado “L’amata non viene all’incontro; è l’assenza. Non fa compagnia; è quello che non si ha e si aspetta invano”. E nel caso di Taormina, si ricorda; la mancanza dell’amore diviene presenza tangibile e costante. Le pause di silenzio tra un componimento e un altro rivestono la loro importanza dal momento che i testi appaiono indipendenti tuttavia concatenati. Accanto a mutamenti di stagioni, scorci del paesaggio siciliano con limoni, zagare, ulivi, arance, mandorle, gelsomini, gerani, melagrane, menta, oleandri, ginestre, si delinea il segno di un intimismo lirico, frutto di un sentimento di nostalgia che riconduce ai ricordi dell’infanzia e della giovinezza. La città con i suoi vicoli, le sue strade, le statue, le fontane, le piazze diventano oggetti familiari, liberati dalla loro staticità per diventare simboli e allegorie della “solitudine” interiore del poeta: gli scenari esterni, infatti, alimentano il dialogo di Taormina con la realtà e gli consentono di approfondire la conoscenza di sé. La tendenza alla riflessione e la semplicità lessicale permettono un graduale processo di interiorizzazione operando allo stesso tempo una fusione del sentimento del tempo con il paesaggio. L’amore sfugge e ritorna, come la natura, come le onde del mare. Il poeta, segnato nel fisico dal tempo che passa, resta giovane nei ricordi, è un bambino che gioca ancora col mondo, infila ancora il filo “nella cruna del verso”.

Deborah Mega

 

 

sono un bambino

affacciato agli occhi

di un vecchio

per giocare col mondo

 

a gennaio

basta un giorno di sole

e il limone fiorisce

era quel raro profumo di zagare

che volevo regalarti in un verso

 

talvolta nella solitudine

davanti a me

viene a sedere

una donna di sabbia

che le onde del tempo

non hanno sgretolato

 

la pioggia è una bambina

che corre a piedi nudi

cigola la porta del vento

la stanza ha pareti di nuvole

le lancette del pendolo

mi cuciono con ago e cotone

tutto è fermo

una sabbia impalpabile

come il tempo copre ogni cosa

 

ci conoscemmo di sfuggita

nel cortile del ginnasio

t’incontrai che gettonavi

“only you”

mi fermai con te

con “passion flowers”

e “diana”

eri abbronzata

passeggiammo per

corso vittorio con un cono

di cioccolata e nocciola

il frastuono del traffico

aveva un ritmo di cha cha cha

le colombe nel tramonto

erano d’oro

per molti giorni

come un malato

di notte alla finestra

cercai i tuoi occhi

in un cielo blu reale

non t’incontrai

né al jukebox né sulla spiaggia

a luglio la luna

è una lampada immensa

le falene e gli amori

girandovi intorno

si bruciano le ali

 

sei la parola che non riesco

a scrivere

il seme portato dal vento

germogliato dentro di me

le tue radici

prendono linfa nelle mie vene

ti porto con me

 

andrò a samarcanda

a comprare

un tappeto volante

voglio tornare bambino

sdraiato sotto l’azzurro

sentire sulla mia pelle

l’erba crescere come piume

volare sui tetti

ritrovarmi nella sala

di un cinema

accanto alla nonna

guardare sullo schermo

come dentro uno specchio

il ladro di bagdad

 

ci sei

sento la tua musica

i tuoi occhi verdi

mi scrutano dalla superficie

del torrente

basta solo un raggio di sole

e tu mi appari

in forma di verso

 

tutta la notte il ragno

dell’insonnia

a tessere la tela

della tua assenza

 

sei passata

come un giorno di festa

al crepuscolo

è rimasta la tristezza

di un treno che parte

 

non sei vecchio

se riesci ad infilare

il filo

nella cruna del verso

 

Emilio Paolo Taormina, “Il tempo lungo”, Ladolfi Editore, 2024.

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Emilio Paolo Taormina è nato a Palermo nel 1938. Sue opere sono state tradotte in albanese, armeno, croato, francese, inglese, portoghese, russo, greco, tedesco, spagnolo, ebraico, polacco. Ha pubblicato molti libri di poesia e sei romanzi, tra cui Archipiélago, ed. Plaza & Janés, con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale. Barcellona 2002, La stanza sul canale, Palermo 2005, Lo sposalizio del tempo, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2011, Le regole della rosa, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2014, La cengia del corvo, edizioni del foglio clandestino, 2016 e con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale, ed. peccata minuta, Barcellona 2016 e con testo a fronte in armeno di Hiacob Symonian, Erevan, 2016, Cronache da una stanza, ed. l’arciere del dissenso, 2017, Palermo, Gelsi neri, ed. la linea dell’equatore, 2018, Parnassius apollo, ed. l’arciere del dissenso, 2018, Il giardino dell’elleboro, ed. la linea dell’equatore di Fabrizio Orlandi, 2019, nel 2020 Il sorriso del tulipano, nel 2021 Ore piccole e nel 2023 Poesie scritte all’aria aperta (tutte e tre con Giuliano Ladolfi). Dopo Il fonografo a colori del 1970 ed. Siculiana, Palermo, ha pubblicato molti quaderni e libri con il logo l’arciere del dissenso e la Forum quinta generazione di Giampaolo Piccari. Da cinquanta anni non partecipa a premi letterari. In prosa ha pubblicato: Elvira des Palmes, Palermo 1991 (ristampa Giuliano Ladolfi, 2022), La pioggia di agosto, Marina di Patti, 1993, Il giusto peso dell’anima, Palermo, 1999, Inchiostro, Sesto San Giovanni. 2011, Passeggiata notturna, ed. l’arciere del dissenso.
emiliopaolo@taormina-bendrien.it

 

 

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Tra ironia e disincanto: “Barracuda”

04 martedì Mar 2025

Posted by maria allo in Note critiche e note di lettura

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Loredana Semantica, Maria Allo

“Barracuda”

di Loredana Semantica

Terra d’ulivi edizioni, 2024

Nota critica di Maria Allo

“Ecco uno spaccato del mondo

 osceno fino al disgusto

 che nessuna poesia sensazionalista

 può oltrepassare in verità

questo il mare di melma

 che ci sommerge

 che ci affonderà.

(Pag.89)

Barracuda, la raccolta poetica di Loredana Semantica, recentemente edita da Terra d’Ulivi e corredata dalle sue illustrazioni, arricchisce l’esperienza di lettura con un mix di emozioni e suggestioni, anche dal punto di vista visivo. Il criterio che investe la produzione “civile” di Barracuda è il grado di autenticità della sua comprensione del reale, basata sull’identificazione della conoscenza poetica con l’esperienza personale nella stessa misura in cui l’autrice se ne distacca e lo distanzia in una dimensione prettamente artistica:” Io non scrivo per rompere il silenzio/ ma per proclamarlo. / Dicono che si scriva/ per non imbracciare un fucile/ e sparare. / Io sparerei a volte/ non a ladri assassini e stupratori/ folli balordi e disonesti/ ma alle persone normali/ tutte prese dalla loro normalità/ di esseri superiori. / Poi contemplandoli da questa rocca/ girerei il fucile/ e mi sparerei in bocca (pag. 40). Il testo, collocato nella terza sezione Un sillabario di passiflore, contiene un’esplicita dichiarazione di poetica, seguita da una riflessione sulla funzione della poesia di illuminare la realtà nella sua interezza, ponendosi come limpida chiarificazione del confuso caos dell’esistenza e delle sue contraddizioni. In Barracuda la fisicità della parola fa spazio al pulsare delle sensazioni, all’evidenza del corpo, ai tratteggi nitidi che incidono sul foglio un cromatismo intenso e diretto: “Essere infido informe infame/ ti osserva l’occhio enorme/che tutto vede” (pag. 80). Di fronte a questa negatività, che presenta molte affinità con la desolata Terra di Eliot, l’autrice si scaglia contro chi predica bene ma agisce male: “… Intanto il potere si arroga ogni diritto/ dilaga e gonfia tronfio il proprio petto/ riempie il portafoglio di sbruffoni” (pag. 37). Con lucidità e disincanto, si fa carico di proteggere un margine di libertà per l’umanità, affermando che “Solo un fiore placa il terrore” (pag.98), e che “Diremo poi all’altare dell’Unicità/ noi almeno abbiamo vissuto/ coi santi dei valori morali/ occidentali o musulmani/ fin dentro la terra/ liberi e umani” (pag. 98). Tuttavia, l’evento salvifico viene solo sfiorato e subito svanisce, rendendo la sconfitta ancora più amara. Così, l’occhio della poeta continua la sua indagine sulla condizione umana con la meticolosità di uno strumento scientifico, consapevole di saper distinguere tra il male subito e quello inflitto dall’uomo. Al contempo, avverte l’urgenza di opporsi a questa realtà, con l’idea implicita di un nuovo impegno intellettuale, finalizzato a creare una cultura in grado di avere un impatto concreto sulla società e di trasformare il mondo: “…c’è bisogno di un pensiero nuovo/ rigenerante universale”(pag.124) o “torniamo indietro/alla radice degli anni scorsi/ alla fonte dell’acqua/ che bagna la terra/ all’essenziale del tempo/ e ne facciamo vangelo/ dei prossimi anni/da vivere stretti alla luce/dei nostri occhi”(pag.125). Questo approccio mira a eliminare l’ingiustizia sociale, come sosteneva Vittorini, non limitandosi a offrire conforto di fronte alle sofferenze, ma cercando di proteggerci da esse, combattendole e sradicandole e a questo controllo vigile sembra richiamare anche la poesia della Semantica. Nelle sei sezioni infatti in cui è articolata Barracuda, l’autrice, per esprimere la sua poesia di impegno civile, affronta diversi temi, con un focus particolare sulla condizione femminile: “La vita sferra i suoi calci/con potenza inaudita travolge/ senza avvertenza l’essere e la grazia/l’archetipo di genere/ la minuzia dell’iperbole “(pag.31) e richiama alla mente le stragi dei bambini e le migrazioni, lasciando intravedere una rappresentazione terribile del mondo contemporaneo, responsabile della perdita della memoria storica e individuale, della capacità critica, dei valori più alti con una riflessione, che è anche un atto d’accusa: “Ci accendiamo per l’inutilità/ e intanto si consuma un olocausto/filtrato tra mezze verità/ consegnato vergognosamente/alla storia” (pag.68). L’autrice, dimostrando una notevole concretezza nell’affrontare la realtà, smaschera anche le illusioni intellettualistiche, che si rivelano essere semplici inganni privi di sostanza. E la poesia non è esente da questa analisi; ha infatti imparato a prendersi gioco di se stessa e della sua arte, in un contesto sociale segnato dalla indifferenza e dalla superficialità: “La vita è una musica/ triste che apre le braccia/ senza volare “(pag.45), o “che volete voi tutti/ siamo inesistenza reciproca/ un sillabario di passiflore” (pag.63). La vita non è un percorso sereno, ma una battaglia che ciascuno affronta quotidianamente, spesso in solitudine. L’autrice sembra indicare che la coerenza con cui si affronta questa sfida è legata alla consapevolezza che se ne ha. Allo stesso modo, il linguaggio prende vita dalla pagina bianca, come se emergesse da un silenzio profondo, attraverso immagini di intensa espressività: “Io so il silenzio fossile dei barracuda/ attestati sui balconi di cartapesta” .In questo scenario, il titolo della raccolta acquista un significato emblematico.

Maria Allo

Da Barracuda (Terra D’Ulivi Edizioni 2024):

Crederò per un attimo

 d’essere qualcosa

 di diverso da un nulla perfetto

 incastonato nello specchio

 tra il nessuno e il niente

 Guarderò l’altro negli occhi

senza un briciolo d’ossequio

 passerà sulla fronte irridente

 l’ombra del riscatto nel canto

 modulato acuto incontenibile

 sazio di vendetta sdegnato

 sdegnoso infastidito acre

 gonfio di rivolta.

(Pag.58)

*

Per i bambini annegati Signore

 per tutti i bambini annegati

 bruciati strappati spezzati

 per tutti i bambini sgozzati

 per tutti tutti i bambini

 coi loro teneri piedi e pancini

 ti prego Signore.

 Per i bambini che muoiono

 Signore

 mentre non sanno di morire

 per tutti i bambini che muoiono

 ti prego Signore

 rimpastali di nuovo dal fango

 riportali integri al mondo

 con occhi nuovi e felici

 di angeli nel paradiso

 angeli siano nel paradiso

 di una storia migliore.

 Pag.77

*

C’è un qualcosa che scorna

 sbattendo sui muri d’amianto

 e nel sorriso insolente di chi

 ha centrato il bersaglio c’è

 la perdita dell’etica trame e tragedia

 il luogo altolocato dei complotti

 e ben prima di adesso

 molto prima di qui

 la perdita del sacro.

 Brandisce le armi una guerra

cola scempio dovunque

 conduce un assalto un affondo

 nell’aria mitraglia

c’è un coltello che taglia

la violenza che grida

un mare per tomba

 una bomba.

 Piangete la domanda ora

 e il messaggio piangete

le madri col velo sulla bocca

nere fosse negli occhi

formate un bavaglio e scalciate  

fiorite di buono

abbiate stelle tra le mani

non più per l’uomo o la donna

lavorate il profondo

salvate la pelle

ai bambini

(pag.78)

LOREDANA SEMANTICA

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Terra matta di Vincenzo Rabito lettura di Antonella Pizzo

12 mercoledì Feb 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Terra matta, Vincenzo Rabito

Terra matta

Di Vincenzo Rabito, Einaudi, 2007

Incipit di Terra matta

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.

L’autore di Terra matta

Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, pubblicata nel 2007 da Einaudi. Con questa autobiografia Rabito ha vinto nel 2000 il «Premio Pieve – Banca Toscana», ed è conservata, nella versione integrale, presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899 Rabito è stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato ed ha allevato tre figli, è morto nel 1981. Era, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale nel Piave, quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio….

Il paese di Terra matta

Chiaramonte è un paese in provincia di Ragusa situato a circa 650 metri di altezza, si trova ai piedi di un gruppo di monti, fra i quali l’Arcibessi; è denominata balcone di Sicilia perché da lì si può vedere Gela, l’Etna, la valle dell’Ippari, gli Erei, gli Iblei e nelle giornate chiare anche il mare dell’Africa. Ci sono molti uliveti che danno un olio conosciuto in tutto il mondo. Se vai in piazza un uomo come Vincenzo può essere che ancora lo trovi, sono gli uomini di una volta, quelli dalle scarpe grosse e dal cervello fino, le mani callose, la fronte rigata, il sorriso sempre e la gentilezza sempre, gente saggia, con intelligenza vigorosa, che non ha paura di niente, gente che lavora senza mai stancarsi. Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 il nostro ha scritto, utilizzando una vecchia Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore e inferiore e inserendo, come punti di interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola.

Il pubblicato è di circa 400 pagine.  Rabito ha scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu. In questo diario ci racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà, l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie.

Gli editor di Terra matta dell’Einaudi hanno aggiunto la punteggiatura e diviso il diario in capitoli inserendo ad ogni capitolo un titolo, hanno aggiunto delle note a piè pagina laddove il significato delle parole non era molto chiaro. Rabito non ha inventato una nuova lingua, la lingua che ha usato è quella che parlavano i nostri vecchi, quella che noi siciliani abbiamo sentito parlare ai nostri vecchi quando, seduti davanti alle porte dei vari circoli dei mestieri, raccontavano, in quello che  a loro sembrava italiano, le loro storie, quella lingua che usavano i nostri nonni quando raccontavano la loro guerra ai nostri figli; non è quindi siciliano ma un siciliano italianizzato. L’italianizzazione   del siciliano dei nostri nonni avveniva utilizzando la stessa sintassi della frase in siciliano ma cambiando le “u” in “o” e, dove possibile o dove si pensava occorresse, cambiando le “i” in “e” .

Questo scambio si può notare anche nella scrittura del Rabito, infatti la parola “carusi” (ragazzi) viene tradotta in “caruse”,  “sèntire” in “sèntere”, e nel dubbio si cambiano le “i” in “e” e le “e” in “i” anche alle  parole in italiano vedi “piedi scalzi” in “piede scalze”;  “metà” in  “mità”;  “medico” in  “medeco” , “disonesta” in desonesta, gli esempi potrebbero essere moltissimi e si trovano sparsi in tutto il libro. Riguardo le note dei curatori, Evelina Santangelo e Luca Ricci, pur riconoscendo la validità del loro lavoro nell’inserimento dell’h nel verbo avere, nella scomposizione di alcune parole che il Rabito aveva scritto unite ai fini di una migliore leggibilità del testo  ho riscontrato nelle note a più pagina alcune carenze, ad esempio i curatori traducono bommolillo con boraccia, ma la bummula non è una boraccia ma una piccola giara di creta; il retapunto non è un generico lavoro di cucito ma è il retropunto; “inzamaie” non è “malauguratamente” ma più correttamente  è “non sia mai”. E tutte dicevano “Refrescate le armuzze dello priatorio”  non è “andate ad allietare le animucce del purgatorio” ma, probabilmente dal latino requiescat , è riposino; oppure mi pare che in questo caso possa essere “siano alleviate  le pene delle anime del Purgatorio”  sicuramente non allietate. Senza dubbio queste sono sfumature poco importanti quello che a noi importa, quello che conta è l’opera del Rabito, un’opera forte, che ha una grande potenza narrativa, scrittura genuina, viva, un’opera epica, è il cuntu di un cantastorie.

Il cuntu della sua vita in Terra matta inizia come padre di famiglia ad appena 12 anni, perché la madre aveva sette figli ed era vedova, continua in trincea, in Africa, nel matrimonio con la moglie appartenente ad una famiglia della ricca borghesia che poi ricca non era, c’è la voglia di riscatto dalla sua condizione di povertà e di ignoranza, il desiderio di fare parte di un ceto sociale superiore, («impriaco di nobilità»), colto, raffinato, che assomiglia tanto allo stesso desiderio di Mastro Don Gesualdo  che sposa Bianca Trao, una nobile decaduta e alla fine quel matrimonio si rivelerà un affare sbagliato. Nel caso di Rabito la suocera Anna è senza soldi e gli mangia, per una questione di case, quasi tutto quello che Rabito aveva messo da parte in tanti anni di lavoro. Però l’affare Rabito in un certo senso lo fa perché la moglie anche se gli porta in dote questa suocera terribile gli da tre figli meravigliosi che Rabito fa studiare perché ha capito che il riscatto è, anche e soprattutto, nel sapere, nello studio. Perché lui pensa “ e i miei figli, se vuole il Dio, la vita meschina che offatto io non ci la voglio fare fare” E quando il primogenito si laurea lui si è sentito come se avesse vinto la Sisola.

Dio appare qui forse per la prima volta come un Dio che probabilmente vorrà fare quello che Rabito desidera, nel resto del libro, nelle trincee, sotto i bombardamenti, nella malattie d’Africa, Dio è spesso assente, spesso bestemmiato «ognuno bestimiava al santo protettore del suo paese». «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, nonave niente darracontare».

Rabito aveva  tanto da raccontare e per nostra fortuna in Terra matta lo ha fatto in modo sublime.
Ma la storia non finisce qui, esce infatti nel 2022, sempre con Einaudi, Il romanzo della vita passata,  un ulteriore inedito ritrovato dal figlio Giovanni. Nel sito Einaudi leggiamo: Se c’è una vicenda editoriale che vale la pena ricordare, è quella di Terra matta. «Il capolavoro che non leggerete», cosí fu definito dalla giuria dell’Archivio di Pieve Santo Stefano: 1027 pagine fitte fitte di una lingua impossibile trasformate miracolosamente in un libro amato da tantissimi lettori, lanciando il cuore oltre l’ostacolo come si può fare soltanto quando si ha la certezza di avere tra le mani qualcosa di unico. Quel che è accaduto dopo ce lo spiega Giovanni Rabito, il figlio di Vincenzo: «Fu solo in seguito al successo di Terra matta che mi ricordai dell’esistenza di un secondo plico di dattiloscritti conservati a casa di mio fratello Turi, a Ragusa. Dopo la morte di mio padre ero stato proprio io a consegnare quel malloppo a mia cognata Lucia per preservarlo dalla distruzione. Temevo che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece d’altronde con tutto ciò che c’era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia di scrittore “inafabeto”». Il malloppo sopravvissuto alla catastrofe è «un’Amazzonia espressiva» di liane aggrovigliate, sabbie mobili e piante lussureggianti. Una giungla di quindici quadernoni per un totale di 1486 pagine: il secondo memoriale. Che in questa versione, ridotta e adattata proprio da Giovanni, si apre con la parola «romanzo». Perché Vincenzo Rabito, giunto a questa sua seconda, titanica prova, ormai sapeva bene ciò che stava costruendo.

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“Lettera da Chetaibi”, racconto breve di Luca Lazzarini

10 lunedì Feb 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Racconti

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Lettera da Chetaibi, Luca Lazzarini

 

Il mare a Chetaibi è splendido, di un blu cristallino e profondo, soprattutto al largo. Lo sa bene Ahmed, proprietario di una piccola barca da pesca, che ogni notte prende il largo per catturare i piccoli pesci che il mare gli offre: sardine, acciughe, merluzzi e sgombri in via eccezionale. Ahmed rispetta il mare più di qualsiasi altra cosa, crede che sia la rappresentazione di Allah perché può offrirti molto pesce o solo inutili alghe, in base a come ti comporti con lui: se butti la plastica in mare o lo inquini in altro modo non sarà magnanimo con te. Allah, come il mare, può prenderti la vita in qualsiasi momento e in qualsiasi modo, ma può anche renderti felice e farti godere di paesaggi mozzafiato. Continua a leggere →

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L’animale morente di Philip Roth lettura di Antonella Pizzo

15 mercoledì Gen 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, L'animale morente, Philip Roth, The Dying Animal

animale-morente

L’animale morente (The Dying Animal) è un romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2001. Il titolo è tratto da un verso di Yeats: «Consumami il cuore; malato di desiderio | E avvinto a un animale morente | Che non sa cos’è». Il romanzo è ambientato negli anni sessanta, narra della relazione che il sessantaduenne David Kepesh ha avuto con una donna di ventiquattro anni. Terminata la relazione i due  si rincontrano in un capodanno di otto anni più tardi.  

David Kepesh è un professore universitario che tiene per i laureandi un unico corso, un seminario di critica letteraria, che ha chiamato Practical Criticism. Da giovane ha fatto l’esperienza di un matrimonio fallito e durato poco tempo, inoltre ha un figlio che non vede mai. Come critico letterario appare settimanalmente in una trasmissione televisiva, grazie a questa sua attività gode di una certa notorietà nell’ambiente universitario e anche al di fuori di esso. Il suo corso è molto seguito.  David è un uomo che ama la vita e i piaceri del sesso. Sono molte le studentesse che andrebbero volentieri a letto con lui. Di questo ne è consapevole ma la sua posizione accademica gli consente di andare a letto con loro solo alla fine del corso e dopo l’esame finale. Per l’occasione  dà dei festeggiamenti a casa sua dove invita tutti gli studenti che hanno completato il seminario. David non è uno sprovveduto, quella procedura lo tiene lontano dai guai, evita il rischio che possa essere accusato di molestie sessuali nei confronti delle sue studentesse. È un procedura   che gli dà soddisfazione e che svolge sempre nello stesso modo e ogni volta è un successo, ha la garanzia del risultato, alla fine della serata qualcuna delle sue giovani studentesse finisce allegramente nel suo letto.  Lui vive il sesso come piacere e superficialmente, senza  lasciarsi coinvolgere sentimentalmente da questi incontri.  Fino a che non incontra Consuela Castillo, una ragazza cubana di ventiquattro anni. Kepesh ama la vita e la bellezza. Consuela non è come le altre, appartiene a una ricca e nobile famiglia di esiliati cubani, ha nostalgia dell’Avana anche se non ha mai vissuto a Cuba. Ha dei principi un po’ antiquati, vede nel professore la “versione soggiogabile della raffinatezza della sua famiglia”. Consuela ha un corpo statuario, dei seni prorompenti. A tratti li nasconde,  a tratti li mostra sbottonando i tre bottoni della sua camicetta di seta bianca, che indossa sotto una severa giacca blu, simile a quelle che usano le segretarie di uomini importanti. David, così racconta a un interlocutore di cui non sappiamo nulla, ne è soggiogato. Consuela diventa per lui non più un piacere ma un’ossessione, una malattia. Ne è geloso, ha paura di perderla, è malato di desiderio. Consuela non è come le solite studentesse che lui si portava a letto, Consuela lo fa star male, con le altre  non ha mai provato quella smania e quella brama di possesso. Gli incontri sessuali con Consuela sono descritti nei particolari, spesso spregiudicati e inaspettati, come assaggiarne il sangue mestruale. Il romanzo potrebbe sembrare pornografico per certe disgressioni, ma non lo è. David è letteralmente ammaliato dai seni della ragazza, li adora. I seni oltre a essere sessualmente importanti hanno una funzione specifica, la produzione del latte. Il latte è il nutrimento primordiale, è come il sangue, è  vita. Ciò richiama un simbolismo religioso, il Cristo e l’ultima cena, prendete e mangiate questo è il mio corpo. David si nutre del corpo di Consuela, ne beve il suo sangue, adora i suoi seni floridi e turgidi, vuole inglobarla, quasi sostituirsi a lei, prendersi la sua vita, la sua gioventù, la sua bellezza.  È un bisogno primordiale e ancestrale. Il sesso è l’alternativa alla morte?

«Essere casto, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticartela mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?» 

È David l’animale morente?   È George, l’amico di Kepesh, che in punto di morte utilizza le sue ultime forze vitali per sfiorare il seno della moglie?

È Consuela che si ammalerà e che vorrà essere fotografata i seni prima di essere operata di cancro?  “Le scattai una trentina di fotografie. Lei sceglieva le pose, e voleva tutto. Voleva avere le mani sotto, che li reggevano. Li voleva mentre se li strizzava, li voleva dal lato sinistro, dal lato destro, li voleva fotografati mentre si chinava”.

È Consuela che ha il rimpianto di non aver potuto vedere L’Avana?  

“… e di momento in momento il suo pianto si fa sempre più forte, – credevo che un giorno avrei visto L’Avana.» «La vedrai.» «No. Oh, David, mio  nonno…» «Si, cosa? Coraggio, dimmi, parla.» «Mio nonno sedeva nel soggiorno…» «Avanti.» La tenevo tra le braccia quando cominciò a parlare di se stessa come  non aveva mai fatto prima, come prima non aveva mai avuto motivo di fare, come, forse, lei stessa non aveva mai saputo. «Mentre andava in onda The News Hour, mentre andava in onda The MacNeil-Lehrer News Hour, e… – disse, tra lacrime copiose, – improvvisamente sospirava: “Pobre Mama”. Che era morta all’Avana senza di lui. Perché la loro generazione, quella generazione, non era andata via.

“Pobre Mama”. “Pobre Papa”. Loro erano rimasti indietro. Aveva solo questa  tristezza, questo rimpianto per loro. Un terribile, terribile rimpianto. Ed è quello che ho io. Ma per me stessa. Per la mia vita, Mi tocco, tocco il mio corpo con le mani, e penso, Questo è il mio corpo! Non può andarsene così! Non può essere  vero! Non può capitarmi una cosa simile! Come può andarsene così? Non voglio morire! David, ho paura di morire!»

Siamo tutti animali morenti. 

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“Le viti del pianto” di Lara Pagani

07 martedì Gen 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA, La poesia prende voce, Note critiche e note di lettura, POESIA

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Lara Pagani, Maria Allo

ilglomerulodisale 2024
collana La rosa del guardare, diretta da Franca Alaimo
prefazione di Franca Alaimo
con una nota di Daìta Martinez

Nota di lettura: Maria Allo

Lara Pagani, nella sua opera prima, “Le viti del pianto”, per conto della casa editrice “ilglomerulodisale, ci consegna una vita vissuta tutta dal di dentro in una dimensione verticale, perché vibra il sogno di una bellezza che, si affaccia sul deserto, ma con l’alternativa dell’unica scelta consapevole: fra terra e mare è quest’ultimo che corrisponde alla sua vita (“sono l’acqua/ che manca sotto i piedi”). La realtà nella quale lo sguardo dell’autrice si sofferma sui dettagli è densa di circostanze , sfumature, tratti descrittivi che si intrecciano nel tempo, si dimenticano o riaffiorano nella memoria ( “In piazza a Venezia fu l’incubo” p.19, o “Era questione di tempo, di correnti/propizie innamorarmi dall’origine”p.27) per cercare strade da battere esclusivamente entro l’orizzonte del tempo e dello spazio, la sola dimensione che ci appartenga, anche se una frattura insanabile accresce il senso di solitudine dell’io. Così nonostante i tratti descrittivi, qui i particolari diventano emblemi tanto più efficaci quanto più sono realistici, perché, come dice Zanzotto, la poesia ci ridà le emozioni più profonde, che possono nascere in noi. Ma non è sufficiente, il tempo incalza e semina rovine, il passato si dissolve, eppure un incontro, un’emozione vissuta o un pensiero resta solo l’oggetto, che era presente e che, come un amuleto, sembra raccoglierne in sé il segreto: “passi e gli angeli si piegano, girano /le viti del pianto. Dai tuoi dolori /brucia una risata – dal mento d’oro/ spunta al cosmo l’inedito profilo”. Ecco, la poeta non accetta l’idea che della vita vissuta non resti traccia e che il trascorrere del tempo porti con sé emozioni legate a una presenza concreta (“Il filo che ci lega non è rosso. / Non stringe, non fa male eppure/lascia sui quattro polsi un lungo segno invisibile” p. 37), messa in dubbio dall’azione del tempo:” È stata una catastrofe /per sottrazioni, non ha fatto danni /particolari – soltanto ha annullato/giorno per giorno il dono del tempo”. Le viti del pianto presenta pertanto una costruzione complessa e delicatissima che si fonda sull’analogia, ovvero sull’accostamento alogico di elementi disparati, che si caricano di valore allusivo, così la discesa di Clizia, figura metamorfica, (come è stato giustamente osservato da Franca Alaimo nella prefazione), coincide con la possibilità che i valori umanistici resistano alla deriva della storia e i significati delle cose vengano ricercati con gli strumenti della ragione. Tuttavia Clizia si contrappone anche alla lontananza irraggiungibile, in quanto connotata con i caratteri istintivi della sensualità e della corporeità : “avevo le piume /e un bel paio d’ali: ero diventata/uno splendido piccione”(p.16) o in un tentativo di rintracciare sul filo della memoria un passato perduto, resta dunque, pur sempre uno jato , un duplice senso di rimpianto e di desiderio della poeta : “A lampioni eclissati ti ho sfogliato le palpebre –/l’iride tremula, viola come la notte /quando è impossibile da spegnere”. In questa raccolta percorsa dal dolore dell’assenza quasi urlata nel sussulto di una raffinata postura poetica (dalla postfazione di Daita Martinez), il nucleo ispirativo di Lara Pagani tende a coincidere con l’istante di grazia e la sua capacità di cogliere il dono ereditato da Clizia che in questa raccolta si definisce con rigorosa coerenza.

Maria Allo

da: Le viti del pianto (glomerulodisale 2024)

Canto il tuo corpo acquatico –
i polpastrelli senz’ombra
di grinze, le pinne chiare che sono
la tua chioma. Quando trema
la terraferma è il tuo respiro.

*

Cammino sulla sponda del mio mare
che non è calmo, non è tutto azzurro –
azzurri sono gli occhi disegnati
sul viso, quelle gemme che nascondo
come parole perché fanno male.
Lunghi e ramati i miei capelli, sfoggio
un sorriso capace di confondere
i cercatori di perle più avveduti:
non mi avrete, voi bestie – sono l’acqua
che manca sotto i piedi, sono il fuoco
che arretra al solo pensiero di toccarvi.

*

Dei tuoi dolori non fare parola –
tirare dritto fosse l’ultima prova,
l’ultimo incendio della tua figura:
anche questo sei tu, pianeta rosso
per orbite e per anelli che splendono
al dito, nera cometa e sventura
di tutte le solitudini, tu –
passi e gli angeli si piegano, girano
le viti del pianto. Dai tuoi dolori
brucia una risata – dal mento d’oro
spunta al cosmo l’inedito profilo.

*

Ti si può solo ascoltare, sperare
un giorno di somigliarti. I girasoli
che tanto ami hanno appena messo
la testa fuori dal fango, qualcuno
intanto la china. Tu comprendi tutto:
anche morire è una fatica, dici
mentre sgombri la tavola dai resti
del pranzo che non abbiamo diviso.

*

Alla strada che hai disegnato
di fronte a me come qualcuno
che ti spiega le vele e ti prepara
l’amore di una barca penso adesso
che muori in lunghi momenti bianchi.
Ho avuto la fortuna sul collo, la stella
che non brilla bensì trama sotto il ventre
azzurro delle nuvole logorandomi
in altalena la curva dei fianchi.

*

Ricordo il pulviscolo, la prima bruma
ascendente delle stelle. La tua clavicola
mi parlava incrinata, piuma da mordere.
Come arde la memoria, come trama
la luce. Guarda: sembra ancora viva
la piccola donna amata un secolo fa.

*

Il filo che ci lega non è rosso.
Non stringe, non fa male eppure
lascia sui quattro polsi un lungo segno
invisibile. La scia di una cometa
al confronto mi pare una bugia.

Lara Pagani selfie

Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature
straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Atelier, Poetarum Silva, Larosainpiu, Limina Mundi, Le Parole di Fedro, Bottega Portosepolto e Di Sesta e di Settima Grandezza. Le viti del pianto (ilglomerulodisale, 2024) è la sua prima raccolta di poesie.

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“Herman Melville ovvero il mare rifiutato”, racconto breve di Teodoro Lorenzo

16 lunedì Dic 2024

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Racconti

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Herman Melville ovvero il mare rifiutato, Teodoro Lorenzo

Ogni mattina un uomo compassato, dalla barba quadrata, appesantito e stanco nonostante l’età ancora giovane si prepara per andare al lavoro. Vive nella città che lo ha visto nascere, New York, in una casa modesta: una facciata giallo sporco e dentro vecchi mobili di mogano. Un’ultima occhiata al golfo di Napoli, una stampa appesa in entrata, e l’uomo è già fuori; l’andatura è lenta ma non ci vuole molto per arrivare all’Hudson dal numero centoquattro della ventiseiesima strada. Come la casa anche il suo impiego è modesto; Ispettore delle Dogane. L’uomo ha appena quarantasette anni, un’età che per molti può significare un inizio. Ma non per lui, lui è alla fine. Il suo nome è Herman Melville. Terrà svogliatamente quell’impiego per diciannove anni, diciannove anni di lente camminate quotidiane; poi trascinerà la sua esistenza per altri sei ma la luce era già spenta da tempo. Qualcuno dirà che la colpa è stata sua quindi nessuna compassione: chi è causa del suo male pianga se stesso. C’è del vero, c’è sempre del vero nella saggezza popolare, eppure non si può non riconoscerne la grandezza. Leggete la storia di quest’uomo e poi mi direte se non vi verrà voglia di aspettarlo sotto casa una mattina, mettervi sottobraccio e fare un pezzo di strada con lui.
Era stato uno scrittore di successo, ammirato e benvoluto. I suoi primi libri erano stati accolti con entusiasmo dal pubblico e dalla critica. La sua vena artistica sembrava non doversi mai esaurire. Taipi, Omoo, Mardi, Redburn, Giacchetta bianca; in una felice catena di montaggio ha scritto con facilità e sfornato di getto i suoi primi cinque libri. Bastava che chiudesse gli occhi e spiagge assolate, mari sconfinati, calde immagini e magiche avventure affluivano alla sua mente. Non doveva che riportarli sulla carta. Niente di più facile per lui; in fondo raccontava solo ciò che aveva vissuto in prima persona negli anni felici della sua giovinezza trascorsa sul mare.
Suo padre era stato un ricco commerciante e aveva solcato gli oceani, visitando per lavoro le terre più lontane, riportando a casa libri pieni di velieri immensi e racconti avventurosi. Quei libri e quei racconti avevano suscitato nel giovane Herman il desiderio di viaggiare e conoscere il mondo, di scoprire se quelle immagini di voce e carta corrispondessero al vero.
Di giorno vedeva a Manhattan misteriosi stranieri con una sacca sulle spalle e la pelle bruciata dal sole, sicuramente marinai. Si muovevano con andatura caracollante, come se non camminassero sui marciapiedi della città ma sulla tolda di una nave, seguendone il beccheggio. Dove andavano, cosa si nascondeva in quelle loro sacche misteriose, quale sarebbe stata la loro prossima destinazione? Anche lui bramava l’avventura, anche lui voleva il mare. Intanto gli affari erano cominciati ad andare male e poi sempre peggio, fino al fallimento. Suo padre ne fu talmente avvilito da ammalarsi di disturbi psichici e alla fine da morirci. La famiglia piombò nella miseria. Herman aveva dodici anni e fu costretto a lasciare la scuola per cercare lavori di ogni tipo. A vent’anni, dopo essere stato commesso di negozio, insegnante elementare e fattorino di banca, si imbarca come mozzo su un mercantile diretto a Liverpool. Era pur sempre un lavoro, aiutava la famiglia e in più poteva conoscere il mare. Ma una nave mercantile e la placida rotta verso l’Europa non era esattamente l’avventura che aveva
sognato. I marinai che aveva visto camminare in città non avevano la faccia di chi passa le giornate tra cassoni di merce. Ecco allora, appena un anno dopo, l’occasione che aspettava; una baleniera, finalmente! Non più mozzo ma marinaio, e rotta verso il Pacifico. Qui gli capita di tutto: nelle Isole Marchesi incontra una tribù di cannibali presso cui rimane quattro mesi, a Tahiti viene arrestato dalle autorità inglesi per ammutinamento, evade e si rifugia nell’ Isola di Moorea, arriva alle Hawaii e qui lavora come garzone e uomo di fatica, infine si arruola su una nave da guerra e torna a casa.
Melville naviga in tutto quattro anni, accumulando così tante esperienze, avventure e ricordi da riempire decine di libri. Quando torna in America comincia a scrivere e lo fa a pieno ritmo: la vita gli sorride. Anche la sua esistenza personale prosegue senza ostacoli. Si sposa e gli nasce il primo figlio, un maschio come lui desiderava, che chiama Malcom, a cui seguiranno Stanwix e due altre bambine: una famiglia numerosa e felice. Poi arrivò il fatale febbraio del 1850, e quella prima frase: “Chiamatemi Ismael”. Già, è l’inizio di Moby Dick: l’inizio della fine. Melville ha appena trent’anni ed è un uomo nel pieno delle forze. Si butta a capofitto nella stesura dell’opera, ci lavora giorno e notte; è come divorato da un‘ansia febbrile, quasi non mangia. Il libro è un combattimento corpo a corpo che dura diciotto mesi, un combattimento lungo 1.500 pagine. Quando lo inizia è in buona salute, sereno e soddisfatto; quando lo termina è un’altra persona: esausto, svuotato, debole e impotente. Non c’è vento, non c’è sole in Moby Dick, non ci sono orizzonti da contemplare. Non c’è l’allegria della vita, i sorrisi della gente, la gioconda atmosfera delle isole del Pacifico. Il libro è una lenta discesa negli inferi dell’animo umano. Il pensiero non si allarga, non prende fiato ma sprofonda in un imbuto sempre più stretto fino a concentrarsi in un solo punto: l’ossessione.
Moby Dick è un fiasco colossale. Esce prima a Londra, nell’ottobre del 1851, con il titolo di The Whale, (La Balena); a novembre esce anche a New York, con un titolo diverso, Moby Dick or the whale (Moby Dick ossia la balena). In Inghilterra vende solo cinquecento copie, qualcosa di più in America. Appena uscito i critici lo definiscono, via via, “una zuppa”, “un ibrido”, “un libro genialmente sbagliato”, “ un libro informe come i movimenti marini”. I suoi antichi lettori, un tempo così attenti ed affezionati, lo abbandonano. Non avevano capito nulla di quanto aveva scritto, e comunque non era quello che si aspettavano da lui. Aveva perduto la sua vena di fantasioso narratore di avventure, non c’erano più il mare lucente, le vele spiegate e il cielo sempre azzurro.
Fu una cosa molto triste e mortificante per lui. La delusione l’aveva precocemente invecchiato. Ma il rimedio era lì, a portata di mano. Bastava riprendere i vecchi soggetti. Non erano certo le storie e le avventure quelle che gli mancavano dopo le ribalde scorrerie giovanili. Bastava tornare sulla vecchia strada, al fondo della quale ripensare Moby Dick come uno spiacevole incidente di percorso e niente di più. Tornare indietro e salvarsi la vita. Invece no. Alla fine del libro la balena, invece di fuggire come aveva sempre fatto, decide di attaccare la nave e si abbatte con tutta la sua potenza sul legno della chiglia. Achab è lì che la aspetta, la sta aspettando da tutta la vita: finalmente era giunto il momento. Scaglia il suo arpione nella carne della bestia, la nave affonda ma Achab non molla la presa. Uno scarto improvviso lo imbriglia sul dorso della balena con le corde degli arpioni. Achab non riesce più a muoversi e l’animale si inabissa trascinandolo con sé. Melville è come Achab. Anche lui vuole rimanere attaccato a Moby Dick, costi quel che costi, anche a sacrificio della vita. Quel libro non lo lascerà mai più e con lui si perderà facendosi trascinare nell’abisso; giù, sempre più giù. Melville dopo Moby Dick non scriverà più di mare e di sole, di spiagge e di vele. Nel 1852 pubblica Pierre o delle ambiguità, una trama che include perfino un incesto, nel 1855 è la volta di Benito Cereno, oggetto del quale è la tratta degli schiavi, nel 1856 dà alle stampe Israel Potter, un romanzo storico, nel 1857 tocca a L’uomo di fiducia, una indebita mescolanza di satira e filosofia. Giù, sempre più giù, legato da mille fili a quel libro che non vuole abbandonare, che non vuole tradire. Hai toccato il fondo Herman, reagisci, taglia quelle corde e torna a respirare. Riprendi a scrivere le tue meravigliose avventure. É con quelle che sei diventato ricco e famoso e c’è ancora un pubblico che ti sta aspettando.
“Preferirei di no”.
Ecco, lui ormai è diventato Bartleby lo scrivano. Il famoso racconto è del 1853, due anni dopo il disastro di Moby Dick. Assunto come scrivano nello studio di un avvocato, ogni volta che gli viene chiesto di fare un lavoro diverso dal copiare documenti, Bartleby rifiuta. Come fa Melville quando gli viene chiesto di tornare sui suoi passi. Entrambi rispondono “Preferirei di no”.
Melville è Bartleby. Si è chiuso in se stesso, ha perso la fiducia nel mondo e ha scelto l’indifferenza come risposta. Non è la decisione di chi vuole restare lontano dal vorticoso turbinio della gente, standosene come un filosofo a guardare il naufragio dell’esistenza. No, Bartleby-Melville è già naufragato. Dopo il 1857 smette di pubblicare narrativa, distrutto da tanta ostilità e indifferenza. Si dedica alla poesia, figurarsi, ispirandosi alla guerra civile, ai viaggi fatti in Italia e in Grecia, ai pellegrinaggi in Terra Santa. Scrive due libri e li pubblica a sue spese: 25 copie alla volta. Confessa all’amico Nathaniel Hawthorne: “Quel che mi sento di scrivere è proibito, non paga; e a scrivere nell’altro modo non riesco” Il mare, quel mare che aveva rappresentato la sua vita dal 1839 al 1843 e la sua fortuna letteraria dal 1846 al 1850 non gli interessa più, lo accantona, lo rifiuta. Certo, lo ricorda, con affetto e nostalgia, ma non è più il centro della sua vita. Così facendo continua a inabissarsi; giù, sempre più giù. Nel periodo in cui ha scritto di mare, Melville ha guadagnato ottantamila dollari di diritti d’autore; dopo Moby Dick ne guadagna un centinaio all’anno. Con il suo lavoro di scrittore, di scrittore fallito, non riesce a mantenere la famiglia e nel 1866 accetta il lavoro di Ispettore delle Dogane. Anche la sua vita privata precipita con lui. Malcom, il figlio tanto amato, si uccide a diciotto anni sparandosi in casa un colpo di pistola ed il secondo figlio, Stanwix, fugge da casa per non farvi più ritorno, terminando a San Francisco, ad appena trentacinque anni, la sua vita errabonda. Giù, sempre più giù. È sera. Quando ritorna a casa dopo le misere occupazioni della dogana l’uomo è ancora più stanco e appesantito, il passo ancora più strascicato di quello della mattina. Le chiacchiere con la moglie Elizabeth e le due figlie
non riescono a colmare il vuoto che sente dentro di sé. Sempre più spesso si apparta e trova rifugio sul balcone. Si accomoda sulla sua sedia di tela e si accende la pipa. Il balcone è il suo scoglio, l’ultimo appiglio del naufrago prima di essere sommerso dalle onde. Quando muore, nelle prime ore del mattino del 28 settembre 1891, Herman Melville è un uomo dimenticato da tutti. Un solo giornale americano ne riporta la notizia. Con tre righe di necrologio.

Teodoro Lorenzo

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