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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: NarЯrativa

“Il giardino incantato” di Italo Calvino

22 lunedì Set 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Il giardino incantato, Italo Calvino, Ultimo viene il corvo

Immagine generata con Adobe Express

 

Il racconto è uno dei più belli e significativi di Calvino ed è tratto da “Ultimo viene il corvo”, raccolta del 1949. La prima edizione, pubblicata il 30 luglio 1949, comprende trenta racconti scritti tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, di cui ventitré pubblicati su riviste e sette inediti. Nel 1958, diciannove dei trenta racconti della prima edizione confluiscono nel volume I Racconti (Einaudi, collana Supercoralli). Continua a leggere →

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“Marcovaldo al supermarket” di Italo Calvino

15 lunedì Set 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Italo Calvino, Marcovaldo al supermarket, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città

Immagine elaborata con Adobe Express

La novella è una delle venti da cui è composta l’opera “Marcovaldo ovvero le stagioni in città” di Italo Calvino. Ciascuna è dedicata a una stagione: il ciclo delle quattro stagioni dunque si ripete per cinque volte e ha come protagonista lo stesso Marcovaldo. L’opera fu pubblicata nel 1963 a Torino dalle edizioni Einaudi, con illustrazioni di Sergio Tofano. Continua a leggere →

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“Piedi grossi” di Luisa Mattia

16 lunedì Giu 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, NarЯrativa, Racconti

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Luisa Mattia, Piedi grossi, Racconti d'estate

Il racconto è tratto da Racconti d’estate, una raccolta di dieci racconti d’amore e d’amicizia attraverso la descrizione di periodi significativi del Novecento, dai primi anni del secolo fino alla caduta delle Torri Gemelle. I protagonisti sono adolescenti che vivono la realtà del loro tempo. Unico filo conduttore: l’estate, che diventa il pretesto per parlare di sentimenti e di modi di manifestarli, che nel corso del tempo sono cambiati nella forma, ma hanno mantenuto la connotazione di scoperta di sé. L’autrice racconta dieci vacanze secondo una successione di periodi estivi che hanno preceduto o seguito momenti significativi del Novecento.

*

 

2001-Stoccolma, Svezia

Ingrid ha i piedi grossi e me ne sono accorta da un bel pezzo. É una cosa che non posso fare a meno di guardare, quando entra in piscina per gli allenamenti. Indossa il costume colorato con le paillettes, i capelli sono raccolti in uno chignon, le spalle sono dritte, le gambe in linea perfetta con le ginocchia, ma i piedi… quelli sono proprio fuori misura.

“Avessi io solamente quel difetto!” mi ha detto Kristina, una mia compagna di nuoto sincronizzato.

È stata l’unica volta che ho parlato dei piedi di Ingrid con qualcuno. Poi non l’ho fatto più perché tutti l’adorano e questa cosa non la sopporto. Vorrei essere come lei? No. Vorrei che mi adorassero come succede a lei? Sì. Siamo nella stessa squadra di nuoto sincronizzato da un bel pezzo e, col passare del tempo, siamo migliorate e adesso siamo parecchio brave nelle gare di gruppo. Nel sincronizzato singolo me la cavo bene, ma Ingrid è più brava di me. Cosi sembrano pensare le giurie. Poco tempo fa si è piazzata al primo posto nei Campionati regionali e io solo quarta.

“Meglio una medaglia di legno che niente” ha commentato mio padre. “La prossima volta ti piazzerai meglio. Allenati di più. Prendi esempio da Ingrid.”

Anche mio padre adora Ingrid, è evidente. Io la detesto e vorrei che sparisse dalla mia vita, dalla mia piscina, dalle mie gare. Invece resta. E vince. Vince su tutta la linea. Infatti, si è presa anche Sven.

Sven abita a due passi da casa mia e ci conosciamo da molto tempo. Io non l’ho mai preso in considerazione quando eravamo piccoli ma, adesso che stiamo per finire la scuola dell’obbligo e siamo cresciuti, lo guardo con altri occhi. Lui guarda Ingrid e lo trovo intollerabile. Quando finisce gli allenamenti, con la scusa di aspettarmi per tornare a casa insieme, si mette a sedere sulle gradinate e dice di voler seguire i nostri esercizi, ma in realtà guarda solo lei. Lo so perché ogni volta che riemergo dall’acqua, punto lo sguardo su di lui e vedo che non mi tiene proprio in considerazione. Detesto anche lui, da un po’. E avrei voglia di chiedergli che cos’ha di speciale Ingrid, ma tanto so bene che se ne uscirebbe con quelle frasette smozzicate che usa lui quando è in imbarazzo, magari balbetterebbe e cambierebbe discorso. Ieri ho provato il costume da gara nuovo. Mi sono messa davanti allo specchio e non mi sono piaciuta. Il costume non ha colpa perché è bellissimo, con i colori dell’arcobaleno, un velo che lo tiene aderente alle spalle e le paillettes che brillano. Sono io che proprio non vado bene perché mi sono vista le gambe e le ho trovate corte e tozze. Ho guardato le spalle e sono parecchio graciline. Il collo… è corto. Avevo i capelli sciolti e, siccome sono lunghi, mi facevano il collo ancora più corto. Mia madre è intervenuta e me li ha raccolti in uno chignon, ma io ho continuato a vedermi per quello che ero: una ragazzina senza niente di bello. A parte i piedi. Perché quelli li ho perfetti e in una <<gara di piedi» surclasserei Ingrid senza problemi. Mi sono tolta il costume e l’ho messo nella borsa, insieme ai sandali e all’accappatoio. Sven mi aspettava, per andare insieme in piscina. Quando ho aperto la porta, me lo sono ritrovata davanti che mi sorrideva e gli ho detto: «Che c’è da ridere?» e lui ha abbassato la testa e non abbiamo scambiato una sola parola fino alla piscina, dove ci siamo separati. Credo che abbia mormorato il suo solito «a più tardi», ma io non gli ho risposto perché alla sola idea di indossare il costume nuovo davanti alle altre mi sentivo male per la vergogna. Sono tutte più belle di me. Sono tutte più brave di me. Ingrid più di tutte. Nello spogliatoio eravamo eccitate perché è giorno di prova di ammissione, cioè facciamo gli esercizi di squadra e di singolo e il coach decide chi gareggerà e chi no. Io sono sempre in bilico tra l’ammissione e l’esclusione. Oggi non andrà bene, me lo sento. Ingrid è concentratissima come sempre, più di sempre. Difatti, non dice una parola e fa stretching in disparte, gli occhi persi a guardare lo specchio d’acqua della piscina, oltre la vetrata. Lei è fatta così: pensa solo agli esercizi e non si lascia distrarre da niente e da nessuno. Quando il coach ci chiama, lo raggiungiamo. Ingrid arriva per ultima e si tuffa dopo tutte noi. È il suo modo di farsi notare, penso. Lei evita di confondersi con noi, penso. L’esercizio a squadra è andato come doveva andare. Cioè bene, con qualche incertezza.

“Si risolveranno” ha detto il coach fiducioso, e ha ragione.

Gareggiare in gruppo rende tutte noi più capaci di concentrazione, più determinate. Nell’esercizio a squadre, io dimentico i miei difetti e mi focalizzo su quello che devo fare e riesco bene, così tanto che mi dimentico perfino di Ingrid. Solo che poi ci sono anche gli esercizi singoli. Il programma che mi ha dato il coach è difficile.

“È segno che ti ritiene in grado di riuscire al meglio” ha commentato mio padre.

Forse ha ragione e io mi sono impegnata moltissimo, ma il fatto che il coach abbia dato lo stesso livello di difficoltà anche al programma per Ingrid mi fa disperare, perché penso che sia un modo per favorirla. Perfino il coach l’adora e con questa serie di esercizi in acqua è sicuro che avrò incertezze e non sarò perfetta come lei. E siccome andrà come prevedo, sarà Ingrid a gareggiare per il nostro club. Sarà lei a indossare il costume arcobaleno con le paillettes e l’applaudiranno tutti, anche Sven. Sono scesa in acqua con questa convinzione e molta rabbia. Ho fatto la mia prova, secondo il programma previsto dal coach. Tutte le ragazze mi guardavano. Ho sentito gli occhi di Ingrid su di me per tutto il tempo e quando sono risalita dalla scaletta me la sono ritrovata davanti, pronta a tuffarsi. Io ho abbassato la testa e mi sono avvolta nell’accappatoio. Lei è scesa in acqua. Il coach non mi ha detto niente. La musica della prova di Ingrid è partita, mentre Sven si sedeva sulle gradinate in tempo per vederla danzare in acqua. Che tempismo! Mi è venuto da piangere e sono corsa nello spogliatoio. Sotto la doccia ho pianto e non so spiegare per che cosa. Per Sven? Per il mio collo corto? Per le mie gambe tozze? Per Ingrid? Il tempo di chiedermelo non ce l’ho avuto, perché tutte le ragazze sono piombate nello spogliatoio gridando ma, lì per lì, ho capito solo «New York». Ce la sogniamo da tempo la Grande Mela per poterci andare a disputare qualche gara, fare un tour negli Stati Uniti se diventiamo brave a fare un bello spettacolo di sport, però le facce erano tristi e qualcuna piangeva. In un attimo, come erano entrate sono uscite, indossando gli accappatoi. Ingrid gocciolava ancora, per il fatto che doveva essere uscita di corsa dalla piscina. lo le ho seguite e ci siamo ritrovate ad accalcarci davanti alla TV che sta nel gabbiotto del custode. Si vedevano le Torri Gemelle di New York bruciare. Ingrid era accanto a me, la faccia pallidissima e mi sono accorta che tremava, ma forse era per il fatto che era ancora bagnata.

“È la guerra?” ha chiesto Kristina.

“Spero di no” ha mormorato il coach.

“E’ un macello” ha commentato il custode.

Sven, che era li, muto come noi, a guardare le immagini della CNN, si è avvicinato e si è messo tra me e Ingrid. Più vicino a Ingrid che a me. Ho pensato che lo stava facendo per poter consolare Ingrid che tremava davvero come una foglia. Poi, Sven mi ha parlato.

“Hai paura?” mi ha detto sottovoce. “Ci sono io” ha aggiunto, mi si è avvicinato e mi ha stretto la mano. Ed è stato in quel momento che ho cominciato a tremare. Le emozioni si mescolavano: avevo paura per quello che vedevo in TV e che mi sembrava così irreale. E provavo una gioia incontenibile perché Sven mi teneva la mano ed era così reale! Il coach ci ha mandate a casa subito. Però, prima ci ha detto che la prova singola l’avrebbe fatta Ingrid. Mi sarebbe piaciuto sentirgli dire il mio nome? Sì. Mi è dispiaciuto che non abbia detto: «La prova singola la farai tu, Wilma»? No.

Improvvisamente, non me ne importava più niente della gara, della prova, dei premi. Niente.

“Wilma…” ha detto Sven, chiamandomi sottovoce.

E m’è sembrato che fosse la prima volta che lo sentivo dire il mio nome, perché me lo ha detto tendendomi la mano e facendomi un cenno lieve con la testa. Chiamava me, proprio me e mi è nato dentro un sentimento nuovo, come se cominciasse a esistere una Wilma che prima di quel momento non c’era. Mi sono venute delle lacrime di allegria, ma non ho pianto. Ho sussurrato un «sì» e sono uscita dalla piscina con Sven. Sulla via del ritorno, io e Sven abbiamo parlato delle Torri, di New York, della paura e delle gare. E di Ingrid.

“È bella Ingrid” ha detto Sven e ho sentito lo stomaco che si annodava per la gelosia.

“È bravissima” ha aggiunto e ho sentito che il nodo di gelosia si stringeva di più e mi mancava il fiato per parlare.

Ho ritirato la mia mano dalla sua e, per un po’, abbiamo camminato vicini, in silenzio. Sentivo il rumore dei nostri passi e il respiro leggero di Sven che, mentre ci avvicinavamo a casa, mi ha preso di nuovo la mano e io istintivamente gliel’ho stretta, attirandolo verso di me. Lui ha fatto una risatina, prima di dire: «Però… io penso che Ingrid…».

Però… che cosa stava per dire? Mi sentivo gelare.

“Però… ha i piedi grossi” ha concluso, ridacchiando.

“Lo amo” ho pensato abbracciandolo. Prima o poi, glielo dirò.

 

Luisa Mattia, da Racconti d’estate, Lapis, 2020

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Terra matta di Vincenzo Rabito lettura di Antonella Pizzo

12 mercoledì Feb 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Terra matta, Vincenzo Rabito

Terra matta

Di Vincenzo Rabito, Einaudi, 2007

Incipit di Terra matta

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.

L’autore di Terra matta

Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, pubblicata nel 2007 da Einaudi. Con questa autobiografia Rabito ha vinto nel 2000 il «Premio Pieve – Banca Toscana», ed è conservata, nella versione integrale, presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899 Rabito è stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato ed ha allevato tre figli, è morto nel 1981. Era, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale nel Piave, quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio….

Il paese di Terra matta

Chiaramonte è un paese in provincia di Ragusa situato a circa 650 metri di altezza, si trova ai piedi di un gruppo di monti, fra i quali l’Arcibessi; è denominata balcone di Sicilia perché da lì si può vedere Gela, l’Etna, la valle dell’Ippari, gli Erei, gli Iblei e nelle giornate chiare anche il mare dell’Africa. Ci sono molti uliveti che danno un olio conosciuto in tutto il mondo. Se vai in piazza un uomo come Vincenzo può essere che ancora lo trovi, sono gli uomini di una volta, quelli dalle scarpe grosse e dal cervello fino, le mani callose, la fronte rigata, il sorriso sempre e la gentilezza sempre, gente saggia, con intelligenza vigorosa, che non ha paura di niente, gente che lavora senza mai stancarsi. Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 il nostro ha scritto, utilizzando una vecchia Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore e inferiore e inserendo, come punti di interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola.

Il pubblicato è di circa 400 pagine.  Rabito ha scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu. In questo diario ci racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà, l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie.

Gli editor di Terra matta dell’Einaudi hanno aggiunto la punteggiatura e diviso il diario in capitoli inserendo ad ogni capitolo un titolo, hanno aggiunto delle note a piè pagina laddove il significato delle parole non era molto chiaro. Rabito non ha inventato una nuova lingua, la lingua che ha usato è quella che parlavano i nostri vecchi, quella che noi siciliani abbiamo sentito parlare ai nostri vecchi quando, seduti davanti alle porte dei vari circoli dei mestieri, raccontavano, in quello che  a loro sembrava italiano, le loro storie, quella lingua che usavano i nostri nonni quando raccontavano la loro guerra ai nostri figli; non è quindi siciliano ma un siciliano italianizzato. L’italianizzazione   del siciliano dei nostri nonni avveniva utilizzando la stessa sintassi della frase in siciliano ma cambiando le “u” in “o” e, dove possibile o dove si pensava occorresse, cambiando le “i” in “e” .

Questo scambio si può notare anche nella scrittura del Rabito, infatti la parola “carusi” (ragazzi) viene tradotta in “caruse”,  “sèntire” in “sèntere”, e nel dubbio si cambiano le “i” in “e” e le “e” in “i” anche alle  parole in italiano vedi “piedi scalzi” in “piede scalze”;  “metà” in  “mità”;  “medico” in  “medeco” , “disonesta” in desonesta, gli esempi potrebbero essere moltissimi e si trovano sparsi in tutto il libro. Riguardo le note dei curatori, Evelina Santangelo e Luca Ricci, pur riconoscendo la validità del loro lavoro nell’inserimento dell’h nel verbo avere, nella scomposizione di alcune parole che il Rabito aveva scritto unite ai fini di una migliore leggibilità del testo  ho riscontrato nelle note a più pagina alcune carenze, ad esempio i curatori traducono bommolillo con boraccia, ma la bummula non è una boraccia ma una piccola giara di creta; il retapunto non è un generico lavoro di cucito ma è il retropunto; “inzamaie” non è “malauguratamente” ma più correttamente  è “non sia mai”. E tutte dicevano “Refrescate le armuzze dello priatorio”  non è “andate ad allietare le animucce del purgatorio” ma, probabilmente dal latino requiescat , è riposino; oppure mi pare che in questo caso possa essere “siano alleviate  le pene delle anime del Purgatorio”  sicuramente non allietate. Senza dubbio queste sono sfumature poco importanti quello che a noi importa, quello che conta è l’opera del Rabito, un’opera forte, che ha una grande potenza narrativa, scrittura genuina, viva, un’opera epica, è il cuntu di un cantastorie.

Il cuntu della sua vita in Terra matta inizia come padre di famiglia ad appena 12 anni, perché la madre aveva sette figli ed era vedova, continua in trincea, in Africa, nel matrimonio con la moglie appartenente ad una famiglia della ricca borghesia che poi ricca non era, c’è la voglia di riscatto dalla sua condizione di povertà e di ignoranza, il desiderio di fare parte di un ceto sociale superiore, («impriaco di nobilità»), colto, raffinato, che assomiglia tanto allo stesso desiderio di Mastro Don Gesualdo  che sposa Bianca Trao, una nobile decaduta e alla fine quel matrimonio si rivelerà un affare sbagliato. Nel caso di Rabito la suocera Anna è senza soldi e gli mangia, per una questione di case, quasi tutto quello che Rabito aveva messo da parte in tanti anni di lavoro. Però l’affare Rabito in un certo senso lo fa perché la moglie anche se gli porta in dote questa suocera terribile gli da tre figli meravigliosi che Rabito fa studiare perché ha capito che il riscatto è, anche e soprattutto, nel sapere, nello studio. Perché lui pensa “ e i miei figli, se vuole il Dio, la vita meschina che offatto io non ci la voglio fare fare” E quando il primogenito si laurea lui si è sentito come se avesse vinto la Sisola.

Dio appare qui forse per la prima volta come un Dio che probabilmente vorrà fare quello che Rabito desidera, nel resto del libro, nelle trincee, sotto i bombardamenti, nella malattie d’Africa, Dio è spesso assente, spesso bestemmiato «ognuno bestimiava al santo protettore del suo paese». «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, nonave niente darracontare».

Rabito aveva  tanto da raccontare e per nostra fortuna in Terra matta lo ha fatto in modo sublime.
Ma la storia non finisce qui, esce infatti nel 2022, sempre con Einaudi, Il romanzo della vita passata,  un ulteriore inedito ritrovato dal figlio Giovanni. Nel sito Einaudi leggiamo: Se c’è una vicenda editoriale che vale la pena ricordare, è quella di Terra matta. «Il capolavoro che non leggerete», cosí fu definito dalla giuria dell’Archivio di Pieve Santo Stefano: 1027 pagine fitte fitte di una lingua impossibile trasformate miracolosamente in un libro amato da tantissimi lettori, lanciando il cuore oltre l’ostacolo come si può fare soltanto quando si ha la certezza di avere tra le mani qualcosa di unico. Quel che è accaduto dopo ce lo spiega Giovanni Rabito, il figlio di Vincenzo: «Fu solo in seguito al successo di Terra matta che mi ricordai dell’esistenza di un secondo plico di dattiloscritti conservati a casa di mio fratello Turi, a Ragusa. Dopo la morte di mio padre ero stato proprio io a consegnare quel malloppo a mia cognata Lucia per preservarlo dalla distruzione. Temevo che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece d’altronde con tutto ciò che c’era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia di scrittore “inafabeto”». Il malloppo sopravvissuto alla catastrofe è «un’Amazzonia espressiva» di liane aggrovigliate, sabbie mobili e piante lussureggianti. Una giungla di quindici quadernoni per un totale di 1486 pagine: il secondo memoriale. Che in questa versione, ridotta e adattata proprio da Giovanni, si apre con la parola «romanzo». Perché Vincenzo Rabito, giunto a questa sua seconda, titanica prova, ormai sapeva bene ciò che stava costruendo.

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L’animale morente di Philip Roth lettura di Antonella Pizzo

15 mercoledì Gen 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, L'animale morente, Philip Roth, The Dying Animal

animale-morente

L’animale morente (The Dying Animal) è un romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2001. Il titolo è tratto da un verso di Yeats: «Consumami il cuore; malato di desiderio | E avvinto a un animale morente | Che non sa cos’è». Il romanzo è ambientato negli anni sessanta, narra della relazione che il sessantaduenne David Kepesh ha avuto con una donna di ventiquattro anni. Terminata la relazione i due  si rincontrano in un capodanno di otto anni più tardi.  

David Kepesh è un professore universitario che tiene per i laureandi un unico corso, un seminario di critica letteraria, che ha chiamato Practical Criticism. Da giovane ha fatto l’esperienza di un matrimonio fallito e durato poco tempo, inoltre ha un figlio che non vede mai. Come critico letterario appare settimanalmente in una trasmissione televisiva, grazie a questa sua attività gode di una certa notorietà nell’ambiente universitario e anche al di fuori di esso. Il suo corso è molto seguito.  David è un uomo che ama la vita e i piaceri del sesso. Sono molte le studentesse che andrebbero volentieri a letto con lui. Di questo ne è consapevole ma la sua posizione accademica gli consente di andare a letto con loro solo alla fine del corso e dopo l’esame finale. Per l’occasione  dà dei festeggiamenti a casa sua dove invita tutti gli studenti che hanno completato il seminario. David non è uno sprovveduto, quella procedura lo tiene lontano dai guai, evita il rischio che possa essere accusato di molestie sessuali nei confronti delle sue studentesse. È un procedura   che gli dà soddisfazione e che svolge sempre nello stesso modo e ogni volta è un successo, ha la garanzia del risultato, alla fine della serata qualcuna delle sue giovani studentesse finisce allegramente nel suo letto.  Lui vive il sesso come piacere e superficialmente, senza  lasciarsi coinvolgere sentimentalmente da questi incontri.  Fino a che non incontra Consuela Castillo, una ragazza cubana di ventiquattro anni. Kepesh ama la vita e la bellezza. Consuela non è come le altre, appartiene a una ricca e nobile famiglia di esiliati cubani, ha nostalgia dell’Avana anche se non ha mai vissuto a Cuba. Ha dei principi un po’ antiquati, vede nel professore la “versione soggiogabile della raffinatezza della sua famiglia”. Consuela ha un corpo statuario, dei seni prorompenti. A tratti li nasconde,  a tratti li mostra sbottonando i tre bottoni della sua camicetta di seta bianca, che indossa sotto una severa giacca blu, simile a quelle che usano le segretarie di uomini importanti. David, così racconta a un interlocutore di cui non sappiamo nulla, ne è soggiogato. Consuela diventa per lui non più un piacere ma un’ossessione, una malattia. Ne è geloso, ha paura di perderla, è malato di desiderio. Consuela non è come le solite studentesse che lui si portava a letto, Consuela lo fa star male, con le altre  non ha mai provato quella smania e quella brama di possesso. Gli incontri sessuali con Consuela sono descritti nei particolari, spesso spregiudicati e inaspettati, come assaggiarne il sangue mestruale. Il romanzo potrebbe sembrare pornografico per certe disgressioni, ma non lo è. David è letteralmente ammaliato dai seni della ragazza, li adora. I seni oltre a essere sessualmente importanti hanno una funzione specifica, la produzione del latte. Il latte è il nutrimento primordiale, è come il sangue, è  vita. Ciò richiama un simbolismo religioso, il Cristo e l’ultima cena, prendete e mangiate questo è il mio corpo. David si nutre del corpo di Consuela, ne beve il suo sangue, adora i suoi seni floridi e turgidi, vuole inglobarla, quasi sostituirsi a lei, prendersi la sua vita, la sua gioventù, la sua bellezza.  È un bisogno primordiale e ancestrale. Il sesso è l’alternativa alla morte?

«Essere casto, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticartela mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?» 

È David l’animale morente?   È George, l’amico di Kepesh, che in punto di morte utilizza le sue ultime forze vitali per sfiorare il seno della moglie?

È Consuela che si ammalerà e che vorrà essere fotografata i seni prima di essere operata di cancro?  “Le scattai una trentina di fotografie. Lei sceglieva le pose, e voleva tutto. Voleva avere le mani sotto, che li reggevano. Li voleva mentre se li strizzava, li voleva dal lato sinistro, dal lato destro, li voleva fotografati mentre si chinava”.

È Consuela che ha il rimpianto di non aver potuto vedere L’Avana?  

“… e di momento in momento il suo pianto si fa sempre più forte, – credevo che un giorno avrei visto L’Avana.» «La vedrai.» «No. Oh, David, mio  nonno…» «Si, cosa? Coraggio, dimmi, parla.» «Mio nonno sedeva nel soggiorno…» «Avanti.» La tenevo tra le braccia quando cominciò a parlare di se stessa come  non aveva mai fatto prima, come prima non aveva mai avuto motivo di fare, come, forse, lei stessa non aveva mai saputo. «Mentre andava in onda The News Hour, mentre andava in onda The MacNeil-Lehrer News Hour, e… – disse, tra lacrime copiose, – improvvisamente sospirava: “Pobre Mama”. Che era morta all’Avana senza di lui. Perché la loro generazione, quella generazione, non era andata via.

“Pobre Mama”. “Pobre Papa”. Loro erano rimasti indietro. Aveva solo questa  tristezza, questo rimpianto per loro. Un terribile, terribile rimpianto. Ed è quello che ho io. Ma per me stessa. Per la mia vita, Mi tocco, tocco il mio corpo con le mani, e penso, Questo è il mio corpo! Non può andarsene così! Non può essere  vero! Non può capitarmi una cosa simile! Come può andarsene così? Non voglio morire! David, ho paura di morire!»

Siamo tutti animali morenti. 

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I giorni di Vetro di Nicoletta Verna lettura di Antonella Pizzo

20 mercoledì Nov 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, SINE LIMINE

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Antonella Pizzo, I GIORNI DI VETRO, Nicoletta Verna

 
 
 
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I GIORNI DI VETRO  di Nicoletta Verna – Einaudi Stile Libero Big
pp. 448
 

Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: “Ammazzatemi, osta dla Madona” e la Fafina rispondeva: “Sta’ zeta ché chiami il Diavolo”, e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: “E’ segno che a Dio Cristo lassù gli bisognavo un angiolino”.
Ne vedeva tanti di bambini nati morti, e quello era uguale a tutti gli altri, anche se era suo nipote.
Mia madre la guardò avvilita. “Perché?” chiese.
“Perché hai mangiato troppo cocomero. Il cocomero fa acqua nello stomaco e il bambino si è annegato, il purino”.

La vicenda si svolge in Romagna durante il ventennio fascista, una Romagna povera e arcaica, dove vige la superstizione e l’ignoranza, dove si va dal Zambuten per curarsi e fare figli usando il sangue del mestruo versato in un pitale d’argento. 

“Dovete aspettare che vi venga il mestruo. Il primo mestruo dopo la bambina morta è quello buono. Dovete stare seduta su un pitale d’argento e raccogliere il sangue, quindi dovete farne bere dieci gocce a vostro marito, diluite nel Sangiovese. Dopo dodici giorni lui deve prendervi, e anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non dovete guardarvi più. Voi dovete dormire in un letto e lui in un altro. Vi nascerà una figlia che ancora addosso la scarogna, ma camperà.”

Nasce così la figlia che aveva previsto Zambuten che chiameranno Redenda. Redenta rappresenta il ventennio fascista, è nata il 10 giugno del 1924, lo stesso giorno della morte di Matteotti. Nasce a Castrocaro, in Romagna, da una famiglia modesta, il padre è Primo, un uomo mediocre, fa il guardiano e considera la guerra l’unico mezzo per riscattarsi, è una mezza tacca fascista e senza scrupoli. La madre è Adalgisa, vende lupini al mercato ed è una madre che partorisce figli morti. Redenta sopravvive ma, come aveva già avvertito  Zambuten avrà pietà e la scarogna addosso. Redenta si ammala di poliomielite, la malattia le lascia danni permanenti alla gamba, lei la chiama la gamba matta. La babina non parla, sembra ritardata al punto che la chiamano inscimunita,  la purina. La nonna Fafina fa l’infermiera e lavora fuori casa, per guadagnare qualcosa in più accoglie in casa degli orfani per denaro che chiamano i bastardi. Con gli affamati e terribili bastardi Redenta cresce, va d’accordo solo con uno di loro, Bruno.   Fafina lo preferisce agli altri che sono dei selvaggi affamati e quasi lo considera suo figlio. Bruno è un bastardo diverso, è intelligente, si occupa degli altri bastardi, prepara loro da mangiare, li lava. Con Bruno la Redenta comincia a parlare. Redenta vive ai margini, ha uno sguardo laterale, parla con i fratellini morti. Bruno promette di sposarla  ma invece sparisce nel nulla.

I giorni di Vetro del titolo sono i giorni del fascismo, giorni che sembrano non terminare mai, giorni invincibili, imbattibili, ma alla fine finiscono per essere sconfitti dal bene, da chi all’apparenza sembra insignificante, fragile, debole. Sono giorni in cui l’occhio fasullo di Amedeo Neri sostituisce l’occhio vero del bellissimo Amedeo Neri, soprannominato Vetro. Sono i suoi giorni, quelli di un angelo cattivo, un demone, bello, possente, un colosso. Il crudele e sadico gerarca fascista aveva perso il suo occhio in Africa durante una delle sue tante rappresaglie verso la popolazione locale. Il personaggio di Vetro è ispirato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani che durante il fallito attentato del febbraio del 1937 aveva perso un occhio. Graziani era denominato il macellaio di Fezzan, durante il periodo del colonialismo si è reso protagonista delle peggiori atrocità perpetrando stragi di massa contro intere tribù accusate di collaborare con i ribelli, uccisioni di donne, anziani e bambini, ha distrutto interi villaggi, ha confiscato risorse essenziali, come acqua e bestiame, ha fatto uso di armi chimiche. L’occhio di vetro è il vero protagonista del romanzo, è la violenza allo stato puro, quella violenza incapace di verità. Vetro è la rappresentazione del male assoluto, bello all’apparenza ma incapace di vedere e sentite, inerme e senza vita, uno zombie il cui scopo è quello di causare sofferenza e affermare il potere della malvagità. Di quell’occhio lui è quasi orgoglioso, lui è orgoglioso del male che sa fare,  così come lo è della testa della donna africana mummificata. Nel romanzo si alternano due voci narranti femminili le cui storie si intersecano e trovano ragione di essere l’una nell’altra. Le due voci sono quella di Redenta e quella di Iris.

Iris  non vive a Castrocaro ma a Tavolicci, dove storicamente nel luglio 1944, i nazi-fascisti italiani trucidarono 64 persone, fra cui 19 bambini di età inferiore ai 10 anni, donne e anziani. Le vittime vennero arse vive. I capi famiglia dopo essere stati costretti ad assistere al massacro, furono condotti in una località vicina dove furono torturati e poi uccisi.
Le due protagoniste amano lo stesso uomo, Bruno, che diventa l’eroe Diaz, capo di una brigata partigiana capace di azioni esemplari. Nel contempo le due donne, che non si conoscono, sono vittime dello stesso carnefice, il crudele gerarca Vetro. Il nemico principale di Vetro è Diaz. Vetro sposa Redenta e ne fa la sua schiava sessuale. Vetro è un sadico violento che ama sopraffare le donne. Ha ucciso senza pietà, scaraventato bambini vivi nel fuoco, ha portato dall’Africa la testa di una donna mummificata che mette in bella mostra in camera da letto. Redenta subisce ogni violenza, ogni tortura, viene stuprata, viene picchiata e violentata con armi e pugnali, viene ferita e costretta ad assistere ai rapporti sessuali violenti che lui ogni sera ha con le prostitute del locale casino. Redenta subisce e non racconta nulla alla sua famiglia di origine. Per non rimanere incinta di Vetro, sa che se le nascerà una femmina vetro ucciderà la bambina perché vuole un maschio, beve ogni giorno un sorso di acqua con il piombo, non sa che l’ingestione di piombo è causa di grave, spesso fatale, avvelenamento.
La resistenza fa da contraltare alla violenza e ci fa ben sperare che non tutto è perduto, che esistono gli eroi, che hanno paura come tutti, ma la generosità fa superare ogni paura, gli eroi sono le persone comuni che mettono a repentaglio e sacrificano la propria vita per gli altri. Nel ventennio fascista le donne avevano un ruolo di sottomissione e marginale, ma nelle cascine, nei campi, nella Romagna le donne sono quelle che hanno portano avanti le famiglie quando gli uomini erano stati richiamati o costretti a nascondersi, sono gli eroi della storia. Iris e Redenta, ciascuna a modo loro  hanno fatto la resistenza. A volte gli eroi sono le persone meno insospettabili, le babine, le purine, le inscimunite, insospettabili eroi come la Redenta. Il romanzo è riuscito,  aderente alla realtà storica, i personaggi indimenticabili, Redenta in modo particolare, ma anche quello di Vetro il cui nome è presente nel titolo del romanzo.

Antonella Pizzo

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La città e le sue mura incerte di Haruki Murakami lettura di Antonella Pizzo

13 mercoledì Nov 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, Haruki Murakami, La città e le sue mura incerte

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La città e le sue mura incerte – Haruki Murakami – Einaudi – Collana: Supercoralli – Traduzione di Antonietta Pastore

Dalla quarta di copertina: «Diciassette anni lui, sedici lei, il primo amore, il tempo di un’indimenticabile estate. Tra passeggiate lungo il fiume o in riva al mare, speranze sussurrate su una panchina e sogni affidati alle righe di una lettera, lei gli racconta di una città circondata da alte mura: i ponti di pietra, la torre di guardia, un orologio senza lancette, una biblioteca. «La vera me stessa è lì che vive», gli dice la ragazza, e in quel luogo lui sarà il Lettore dei sogni. Poi, all’improvviso, lei scompare. La chiave per ritrovarla è quella città. Ma solo chi lo desidera con tutto il cuore potrà superare le sue mura.»

Il romanzo è diviso in tre parti e settanta sezioni. Le parti si ricongiungono come fiumi che si riversano tutti nel mare. La prima parte riguarda la ragazza e la vita di lui, che sarebbe anche il narratore di cui non conosciamo il nome.   Il suo compito dentro la città è quello di leggere i sogni contenuti nelle uova, due/tre al giorno, per farlo ha dovuto rinunciare alla sua ombra  e farsi ferire gli occhi dal guardiano . Nella seconda parte Il narratore, ormai adulto e che ha abbandonato la città dalle alte mura,  lavora come bibliotecario capo della biblioteca della Città rurale Z. sulle montagne di Tohoku. Lì conosce il bibliotecario capo, Tatsuya Koyasu, incontra anche M.  un misterioso ragazzo di 16 anni, lì si innamora di una donna. Nella terza parte tutto si conclude.

Lui ne ha diciassette  e lei sedici, hanno cominciato a frequentarsi e a scriversi dopo essersi conosciuti perché entrambi avevano partecipato a un concorso letterario. Sono due adolescenti che si innamorano, lui l’accompagna a casa risalendo il fiume. “Sei tu che mi hai fatto scoprire la città. Una sera di quell’estate, risalivamo il corso del fiume pervaso dalla fragranza dell’erba. Ogni tanto superavamo piccole cascate, fermandoci a guardare i pesciolini argentati che vi guizzavano.” Lei ha dei sandali rossi che conserva in una borsa di plastica gialla per non bagnarli, le foglie le si appiccicano alle gambe.

La ragazza gli confida che lei non è reale e che la sua vera essenza vive in una città circondata da alte mura, dove fa la bibliotecaria.  Per entrare in quella città bisogna staccarsi dalla propria ombra. In quella città non esiste il tempo, l’orologio della torre è senza lancette. La città è molto fredda, la gente veste con abiti lisi, molte case sembrano abbandonate da tempo,  come una città morta abitata da morti, con un guardiano alla porta, delle mura che non si possono scalfire, ma mutano, in giro transitano degli unicorni. L’unicorno nella cultura giapponese punisce i malvagi con il suo unico corno, protegge i giusti e assicura loro la buona sorte. Solo gli unicorni possono entrare  e uscire dalla città, una città in cui gli abitanti tentano di conservare i sogni di chi lì ha abitato, in un tempo nel quale, forse, la gente era viva e sognava. I sogni sono racchiusi nelle uova, la ragazza bibliotecaria li consegna al lettore  che sembra avere il compito di schiuderli, di  liberarli. In quale dimensione ci troviamo? Luogo di vita o di morte? Ci sono salici e glicini. C’è molto freddo, non ci sono le ombre, sono state strappate via, non esiste il tempo. Sembra  un mondo di morte. Il calore è vita. La ragazza conforta e sostiene il lettore preparandogli ogni mattina, prima di iniziare il lavoro, una tisana calda con delle erbe speciali. La ragazza, che prima indossava dei sandali rossi, ora veste abiti cupi e grigi, incolori.

Nella seconda parte il narratore ormai adulto e che ha lavorato per anni nel mondo dell’editoria,  cerca e trova un impego nella vecchia biblioteca di un paese sperduto che si chiama Z.  Nella prima biblioteca si leggevano i sogni, in questa invece si leggono libri. Anche in questo paese c’è molto freddo, il ghiaccio ricopre le strade e ogni angolo della città. Qui il narratore incontra un personaggio, estremamente caratteristico e quasi tenero per il suo vissuto doloroso e per la sua sensibilità, il signor Tatsuya Koyasu. È il vecchio bibliotecario andato in pensione,  è un uomo anziano molto particolare,  indossa una gonna scozzese, una sciarpa scozzese, una calzamaglia nera, scarpe di tennis bianche e un basco azzurro. Gli incontri fra i due avvengono in una piccola stanza quadrata, con l’unica stufa a legna presente nel palazzo dove ha sede la biblioteca. La stanza viene riscaldata da questa stufa che viene accesa prima di ogni incontro dal signor Koyasu, il quale, come la bibliotecaria della città dalle alte mura,  gli prepara una bevanda calda, per la precisione un the servito usando delle raffinate porcellane. In questa città il narratore incontra anche un ragazzo che ha la particolarità di saper leggere una enorme quantità di libri e che indossa una felpa con la stampa del Yellow submarine dei Beatles. Quest’ultimo a un certo punto della storia scompare senza lasciare traccia, così come svanisce il signor Koyasu.  

I colori presenti nel romanzo sono il rosso dei sandali della ragazza, il giallo della sua borsa, il giallo del sottomarino del ragazzo, l’azzurro blu del basco, la gonna e la sciarpa scozzese, il glicine, il verde dei salici. Il giallo e il rosso sono colori caldi come il sole, simboleggiano la vita, il glicine nella cultura giapponese simboleggia l’amicizia, l’amore eterno e la longevità, Il Salice simboleggia la grazia e la resistenza. Tutto sembra essere utile per contrastare il freddo e la morte, i colori, il supporto e l’affetto dimostrato nella preparazione delle calde bevande, il conforto e l’importanza della lettura, della storia, del passato, delle testimonianze. Grande importanza hanno Il lettore dei sogni, le biblioteche, i vari bibliotecari, il ragazzo che legge interrottamente.  Leggere il proprio essere, leggere per capire, analizzare il profondo, leggere ciò che è stato scritto o sognato, che forse è irreale o può anche essere vero e reale, nulla deve andare perduto o essere dimenticato.  Attraversare il fiume della vita in un flusso che porta alla fine dell’esistenza, fra realtà e irrealtà, fra sogno e fantasia, fra viventi e fantasmi. Nella città dalle alte mura torna la primavera, il ragazzo Yellow submarine  diviene ciò che vuole essere “Il vero lettore dei sogni”, il narratore incoraggiato dal ragazzo fa il salto e si lancia nel vuoto con fiducia, piomba nel buio, lui che è ombra si ricongiunge al suo corpo.  Qual è la realtà? è quella che stiamo vivendo o stiamo vivendo nei sogni di un altro, stiamo uscendo da un uovo che si sta schiudendo grazie a un lettore a cui la visione della nostra vita gli sta causando un forte dolore agli occhi? La nostra vita vera è dentro o fuori la città, dentro o fuori l’uovo? Il percorso della nostra vita è già scritto o può mutare? Possiamo scegliere di lasciare la nostra ombra o riprendercela? Seguire ciò che crediamo sia vero amore o abbandonare la strada e saltare aldilà del muro.  Risalire il fiume e andare contro corrente come i salmoni? Lasciarci trasportare dalle acque senza sapere la nostra destinazione finale, oppure aiutarci con la mappa della città a forma di rene che ha disegnato il ragazzo? Il rene che nella medicina cinese è l’organo dell’ energia ancestrale, che permette la vita dell’organismo, che è simbolo della potenza procreatrice e della capacità di resistenza dell’organismo. Quella città che sembra città di morte ma che invece è il luogo dove i sogni vengono liberati, dove gli uomini si fortificano, dove mutano e si muovono.  

Le ultime sezioni della terza parte si chiudono con il buio. In questo romanzo niente è stato scritto per caso, ogni parola, ogni simbolo, ogni vicenda, fanno parte di un enorme puzzle che il lettore deve ricostruire per avere una visione chiara dell’insieme. Che io però, mio malgrado, credo di non avere. Anche se penso che a volte la verità sia più semplice di quella che crediamo. Probabile che il protagonista/narratore sia arrivato alla fine della sua vita, che ci abbia semplicemente raccontato il suo percorso, il suo amore adolescenziale, il suo lavoro, l’amore per una donna più matura, il calore dell’amicizia,  la sua passione per la lettura, per la natura, il suo amore per la vita, la sua morte.

Dove sta la verità? resta un mistero, i confini fra il reale e il sogno sono incerti come le mura di quella città, incerti fra il vero e mera rappresentazione del vero. Murakami però è così abile nella costruzione dei personaggi e di quel mondo irreale che mi sembra di conoscere da sempre il signor Koyasu, come fosse realmente esistito, al punto che provo per lui ammirazione e dispiacere per ciò che ha vissuto e per il fatto che si sia dissolto nel nulla diventando evanescente, dispiacere per il fatto che sia svanito in un luogo dove non ha trovato quello che si aspettava, il ricongiungersi con i suoi cari. Penso a lui come fosse un amico scomparso. Murakami ci conduce in un mondo irreale ma dalle sembianze reali, dove tutto si muove e si spostano i confini, dove il tempo scorre lasciando dietro di se i rimpianti e le domande senza risposta ma l’orologio non ha le lancette, come accade viaggiando nello spazio alla velocità della luce, sulla terra il tempo scorre ma nella navicella si è fermato e può anche accadere di essere arrivati ancora prima di partire.

Dove si trova la verità? A questa domanda risponde l’autore nella postfazione del suo romanzo:

“In ultima analisi, la verità non si trova in un’immobilità fissata una volta per tutte, ma nel movimento costante – cioè nelle fasi di spostamento. Non consiste forse in questo il mistero della narrazione? Io ne sono convinto.”

Antonella Pizzo

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Canto della pianura di Kent Haruf lettura di Antonella Pizzo

30 mercoledì Ott 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, kENT HARUF

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Canto della Pianura di Kent Haruf edizioni NNE

“A Holt c’era quest’uomo, Tom Guthrie, se ne stava in piedi alla finestra della cucina, sul retro di casa sua, fumava una sigaretta e guardava fuori, verso il cortile posteriore su cui proprio in quel momento stava spuntando il giorno. Quando il sole ebbe raggiunto la sommità del mulino a vento, l’uomo rimase a guardare la luce che si faceva sempre più rossa sulle alette di acciaio e sulla coda, alte sulla piattaforma in legno.”

Siamo a Holt, un paese immaginario collocato dall’autore in Colorado, assomiglia forse al piccolo villaggio agricolo  dove Haruf ha trascorso la sua infanzia, un paese dalla natura selvaggia e caratterizzato dagli spazi aperti delle grandi pianure. Siamo immersi nel silenzio e nella luce, un raggio di sole colpisce il mulino a vento, a volte soffia il vento, i campi sono dorati, le estati calde e gli inverni gelidi, allora il vento solleva i fiocchi di neve.

“Fuori, il vento era aumentato rispetto al pomeriggio. Lo sentivano ululare attorno alla casa, gemere e rumoreggiare fra gli alberi spogli. La neve farinosa, sollevata dal vento, passava davanti alle finestre e sfrecciava in raffiche improvvise attraverso il cortile gelato, alla luce di un fanale appeso a un palo del telefono sul retro. Candidi, vorticosi mulinelli nella luce azzurrina.”

Notevoli sono i contrasti fra movimento e stasi, il vento che solleva la neve, il raggio di sole che nel silenzio del mattino  colpisce le pale e Tom Guthrie, il padre di due ragazzini che non stanno mai fermi anche se in quel momento dormono ancora, sta alla finestra immobile a osservare il paesaggio che muta. Come in un film, lo spettatore osserva lo svolgimento dell’azione nello schermo, ma presto lo spettatore diventerà protagonista e farà la sua parte.
Assomiglia a un villaggio western dove ancora vivono i pionieri, gli abitanti sono pochi e si conoscono tutti, tutti sanno tutto di tutti. I contadini vivono nelle loro fattorie, coltivano i campi, riempiono i granai, accudiscono il bestiame. La strada principale è la Main Street, la città più vicina è Denver, ma lì la vita è diversa, è più dispersiva. A Holt c’è un giornale, un caffè, un fast food. C’è l’essenziale, una cittadina che basta a sé stessa. In questo spazio, in un tempo di mezzo, né troppo moderno né troppo antico si muovono i personaggi. Non c’è una precisa trama ma sembra uno spaccato di vita che inizia in un tempo e in uno spazio e a un certo punto finisce, come la vita, le vite di tutti, che non hanno una trama logica, ma un inizio e una fine, a volte insulsa, inaspettata, poco soddisfacente, a volte ha un senso compiuto, si vive sperando di trovarlo, come dice il Vasco nazionale: “Voglio trovare un senso a questa vita…Senti che bel vento, Non basta mai il tempo.”

Tom Guthrie è un professore che insegna Storia Americana, boccia uno studente che è un ignorante senza voglia di studiare. Capita nella vita di un professore, capita anche che la famiglia dello studente e lo studente stesso promettano di vendicarsi. Il professore ha due figli di nove e dieci anni, Ike e Bobby, cresciuti anzitempo, la madre soffre di depressione e va a vivere in città dalla sorella. I due bambini prima di andare a scuola prendono la bicicletta e si occupano della consegna dei giornali che arrivano ogni giorno con il treno. Una collega del professore è la buona Maggie Jones, che aiuta una studentessa sedicenne, Victoria Roubideaux, rimasta incinta di Dwayne, un quasi balordo, e cacciata di casa dalla madre. Maggie Jones prima la ospita a casa sua ma il vecchio padre non accetta la sua presenza e Maggie convince a ospitarla nella loro fattoria i due anziani fratelli McPheron, Raymond e Harold, scapoli che vivono soli, da quando la loro madre, molti anni prima, è morta. Si occupano di giovenche, di cavalli, campi di mais, di cereali. Nel romanzo sembra tutto semplice, la struttura semplice, i fatti chiari, i sentimenti ben controllati, gli ignoranti sono ignoranti che non nascondono la loro ignoranza, i cattivi non sono tanto cattivi ma sono solo ignoranti, non sono stati educati, non hanno senso civico, sono come i banditi del far west, stupidi e prepotenti, si riconoscono facilmente e quindi si riesce a tenerli a bada. Poi ci sono i buoni, e sono la maggioranza, e ciò è consolante. Sono buoni i due fratellini Ike e Bobby e i due fratelli anziani Raymond e Harold. Rappresentano il futuro e il passato. Entrambe le coppie di fratelli sentono la mancanza della madre ma riescono a vivere la loro vita anche senza. Entrambe, nonostante l’apparente fragilità, derivata dal loro essere troppo giovani o dal loro essere troppo anziani, hanno coraggio. I fratelli anziani hanno coraggio nell’accogliere in casa, con generosità, una studentessa sedicenne incinta, della quale non conoscono i comportamenti avendo vissuto sempre da soli e in mezzo al disordine, sapendo solo che la ragazza è gravida come lo sono le loro giumente. Hanno coraggio quando fanno partorire la giovenca e quando infilano le braccia dentro l’utero delle giovenche per vedere se sono state fecondate. I fratelli più giovani hanno coraggio nel far visita e compagnia a una vecchia signora abbandonata da tutti alla quale consegnano il giornale, che un mattino trovano morta nel suo appartamento, in solitudine completa. Hanno coraggio quando assistono all’autopsia del loro cavallo morto che viene squartato, le budella rinfilate dentro e poi ricucito con lo spago. Le descrizioni sono crude e il linguaggio essenziale, la natura è quella e non occorre edulcorala, bisogna accettare che ci sono le nascite e che ci sono le morti, c’è chi copula e chi rimane incinta, è il ciclo della natura, le stagioni che si susseguono, si è giovani come i due fratelli Guthrie e poi si diventa vecchi come i fratelli McPheron, si muore come la vecchia signora e si nasce come la figlia di Victoria.
In questo romanzo ci leggo la speranza, la bontà e la generosità, il trovarsi tutti insieme attorno a un tavolo a condividere esistenze, ad amarsi. Nel contrasto fra il movimento e la stasi, osservo il vento, lo spirito che soffia in tutte le stagioni, che fa muovere gli animi e fa nascere la speranza nel futuro. Leggere questo libro mi ha fatto star bene e per questo motivo lo consiglio, nonostante le descrizioni siano a volte crude e tragiche, c’è sotteso un insegnamento, mai avere paura dei banditi che entrano in città a fare razzie, meglio isolarli e fare famiglia, fare comunità aiutandosi l’uno con l’altro, come accadde nella casa dei  fratelli McPheron “quella sera di fine maggio, diciassette miglia a sud di Holt.”

Antonella Pizzo

dal sito della casa editrice NNE

Kent Haruf

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize. NN Editore ha pubblicato tutti i suoi libri ambientati nella cittadina di Holt, compreso Le nostre anime di notte, bestseller uscito postumo nel 2017.

Sinossi

Con Canto della pianura si torna a Holt, dove Tom Guthrie insegna storia al liceo e da solo si occupa dei due figli piccoli, mentre la moglie passa le sue giornate al buio, chiusa in una stanza. Intanto Victoria Roubideaux a sedici anni scopre di essere incinta. Quando la madre la caccia di casa, la ragazza chiede aiuto a un’insegnante della scuola, Maggie Jones, e la sua storia si lega a quella dei vecchi fratelli McPheron, che da sempre vivono in solitudine dedicandosi all’allevamento di mucche e giumente. Come in Benedizione, le vite dei personaggi di Holt si intrecciano le une alle altre in un racconto corale di dignità, di rimpianti e d’amore. In particolare, in questo libro Kent Haruf rivolge la sua parola attenta e misurata al cominciare della vita. E ce la consegna come una gemma, pietra dura sfaccettata e preziosa, ma anche delicato germoglio.

Questo libro è per chi ama spostarsi solo con il pensiero, meglio se in poltrona e sotto una coperta a scacchi rossi e blu, per chi riesce a sentirsi a casa anche solo con una finestra aperta sul cielo, per chi cerca su google maps i luoghi dei libri, meglio se immaginari, e per chi ha deciso di affidarsi al tempo, nella convinzione che lo spazio possa sempre tradirlo.

Vite insignificanti ma indispensabili, per la più semplice delle ragioni: per la voce stupenda, quieta e luminosa, con cui Haruf ci racconta della sua Holt, di questa piccola città dove ci sembra di vivere da sempre e che mai vorremmo lasciare.” TOMMASO PINCIO

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Creatura di sabbia di Tahar Ben Jelloun lettura di Antonella Pizzo

23 mercoledì Ott 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Creatura di sabbia di Tahar Ben Jelloun (Autore) Egi Volterrani (Traduttore) La nave di Teseo, 2022

Un essere umano può dirsi felicemente realizzato quando ha risolto le proprie conflittualità, riconoscendo sé stesso, le proprie fragilità, i propri difetti, i punti deboli, le carenze affettive, i traumi subiti, le proprie mancanze o anche i talenti, le prorie caratteristiche peculiari, la faccia, il naso, il suo corpo disarmonico o armonioso e bello che sia, sano o malato. Quando ha iniziato ad amarsi e accettarsi, così come è. Quando ha smesso di essere come gli altri vogliono che sia, è diventato autentico, non nascondendo le proprie passioni e le proprie aspirazioni, piuttosto coltivandole, affinché i talenti diano dei frutti, non in termini di successo sociale ma di soddisfazione personale. Per essere vero, ascoltando la coscienza, praticando il bene, per essere manifestazione autentica del proprio essere.
Se donna, se uomo, se etero, omo, se bisex, se fluid o queer, che viva e si rapporti con gli altri in armonia con la propria essenza, autentica essenza ed esistenza, senza finzioni. Diversamente lo squilibrio e la dissonanza saranno strada che condurrà all’infelicità, sarà stridio di unghie che grattano sulla lavagna. Occorre vivere nella verità e senza nascondimenti, vivere in armonia con il prossimo e con sé stessi.
Accade, a volte, che circostanze particolari, costrizioni esterne provenienti dal potere o dalla famiglia, portino a reprimere la propria natura senza possibilità di ribellarsi. Ciò sarà causa di dolore ed estrema sofferenza.
Si può essere creatura all’apparenza forte e ben solida ma poi sgretolarsi come creatura effimera, una scultura di sabbia in balia dei venti delle circostanze. È questo il caso di Ahmed, la protagonista del romanzo Creatura di sabbia scritto da Tahar Ben Jelloun e pubblicato per la prima volta nel 1985. Il romanzo è ambientato in un Marocco del secolo scorso. Le atmosfere, gli usi, i costumi, sono nettamente marocchini e non poteva essere altrimenti. La vicenda si svolge fra fiaba e realtà.
Hadj Ahmed avrebbe voluto un maschio al quale lasciare la propria eredità. La moglie era incinta, era stata prolifica partorendogli già sette figlie femmine ma nessun figlio maschio, così l’uomo decise che da quell’ottavo parto, se fosse nata una femmina come le altre, per lui sarebbe stato come se fosse nato un maschio. E così malauguratamente accadde, nacque una femmina. La bambina viene dichiarata maschio. Per continuare l’inganno le viene fintamente tagliato il prepuzio e imposto il nome di Mohamed Ahmed. La bambina viene educata come un bambino, le viene inculcata la mentalità maschile, le si impone di pensare, di vestirsi, di parlare come un uomo, di considerare le donne degli esseri inferiori, prive di ogni diritto e sottomesse all’uomo, in quanto l’uomo è per natura superiore. Segue alla lettera le imposizioni del padre arrivando a fasciarsi il seno e si convince che davvero lei è un uomo nato per errore in un corpo di donna.
Mohamed Ahmed trova sollievo dal dolore dell’esistenza prevaricando il prossimo, approfittando della sua posizione sociale per commettere quanti più abusi possibili. “Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è una illusione e una violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa.” Si macchia così delle peggiori colpe, diventa cattivo e crudele, quasi perfido. Si sposa con una cugina, che malata muore subito dopo il matrimonio. Dopo la morte della moglie e del padre, venendo meno l’autore della sua forzata trasformazione in ciò che non era. “Quello che adesso rimpiango davvero è di non aver svelato prima la mia identità e infranto gli specchi che mi tenevano lontana dalla vita. “
Mohamed Ahmed entra in crisi e inizia a pentirsi, interrogandosi e soffrendo per la sua condizione, si smarrisce nel deserto non riconoscendosi più, né in un uomo e neppure in una donna.
“E’ tempo, per me, di sapere chi sono. Lo so, ho un corpo di donna/ ho un comportamento da uomo, o più precisamente, mi è stato insegnato a comportarmi come un essere naturalmente superiore alla donna. Tutto me lo permetteva: la religione, il testo coranico, la società, la tradizione, la famiglia, il paese … e io stesso …”
Nella migliore tradizione orale nel secondo capitolo la storia di Ahmed viene raccontata da un cantastorie che si aggira per le piazze del Marocco leggendo le pagine del suo diario. Fa parlare il protagonista stesso e nel contempo racconta la sua storia, finché il cantastorie muore con il diario stretto nel petto senza aver rivelato agli uditori la fine. Il romanzo diventa corale e ogni persona che ascoltava il cantastorie racconterà la morte della protagonista avvenuta con diverse modalità. Una donna di nome Fatouma, sembra essere Ahmed stessa che ha attraversato il deserto, superato le dune, fino ad arrivare all’oasi rigogliosa del suo essere autentico.

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Trilogia della città di K. di Agota Kristof lettura di Antonella Pizzo

09 mercoledì Ott 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Agota Kristof

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Trilogia della città di K. (Trilogie des jumeaux)  è un romanzo di Ágota Kristóf, scrittrice ungherese che, in seguito all’intervento in Ungheria dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare, nel 1956 con il marito e la figlia si è rifugiata in svizzera, dove vivrà fino alla morte. La trilogia è stata scritta in francese, la sua seconda lingua, che non riuscirà mai a padroneggiare pienamente, tant’è che lei stessa, nella sua opera “L’analfabeta. Racconto autobiografico”, si è definita analfabeta.

Trilogia della città di K., nella versione completa edita da Einaudi nel 2014, si compone di tre parti: Il grande quaderno (Le grand cahier), pubblicato nel 1986, La prova (La Preuve) del 1988 e La terza menzogna (Le Troisième Mensonge) pubblicato nel 1991.

Dalla Grande Città alla Piccola Città (nel romanzo in maiuscolo, si immagina quindi  che siano quelli i nomi delle città) una Madre con due figli piccoli, gemelli, di cui non conosciamo il nome, arrivano, con due valigie e uno scatolone, dalla madre di lei, la Nonna, che abita in prossimità del confine, in una terra, probabilmente una terra dell’est,  devastata da una guerra di cui non sappiamo nulla. (Madre e Nonna sono in maiuscolo come i nomi della città) I gemelli vengono affidati alla nonna perché la madre non può nutrirli a causa della troppa povertà. La nonna, dagli abitanti della Piccola Città,  viene chiamata la strega e vive in una casa sporca all’inverosimile, possiede un orto e degli animali da cortile dai quali riesce a procurarsi denaro e  cibo di ogni sorta che nasconde sottochiave in cantina. La prima parte, Il grande quaderno, comincia così, come quelle fiabe nere, dove spesso bambini e ragazzini vengono abbandonati nel bosco da adulti che non possono più occuparsi di loro. I due gemellini, al pari di Pollicino, Hansel e Gretel, Cenerentola, vengono lasciati in balia degli eventi e vengono abbandonati nel bosco. Come tutti personaggi di queste antiche fiabe anche loro sono intelligenti e furbi e alla fine riescono a cavarsela. I nostri sono freddi e calcolatori, crudeli senza cattiveria, incapaci di sentimenti positivi o negativi, quasi disumani, si esercitano a sopportare ogni male e ogni privazione per fortificarsi. Non provano emozioni ma hanno un distorto senso della giustizia, provvedono, infatti,  alle necessità di una vicina, vecchia cieca e sorda e di una ragazzina con il labro leporino che è abituata alle più grandi sconcezze.  Fanno esercizi e si ripetono parole e parole, di odio e di amore,  affinché a furia di ripeterle quelle parole perdano forza e significato. Lavorano l’orto e accudiscono gli animali. Nascondono in soffitta un grande quaderno dove narrano  al plurale ciò che accade loro, narrano la loro verità, narrano i loro fatti.  “Le parola che definiscono i sentimenti sono molto vaghe” meglio attenersi alla descrizione fedele dei fatti.  I fatti sono disturbanti, sono incesti, violenze, pedofilia, aberrazioni sessuali, si immagina che siano raccontati nel grande quaderno con rigore e asetticamente. Alla fine della prima parte uno dei due gemelli riesce a passare la frontiera ingannando il padre, finché il padre non salta sopra una mina e il gemello segue le sue orme passando sopra il suo cadavere. A questo punto mi faccio delle domande: Per quale motivo i gemelli si separano? Come fanno a decidere chi resta e chi parte?

Il linguaggio nella seconda parte cambia, da asciutto e conciso, da descrittivo e asettico, diventa più articolato. Nella seconda storia, dal titolo La prova, i gemelli sono divisi e la narrazione da plurale diviene singolare e in terza persona. Apprendiamo che il gemello rimasto si chiama Lucas. (Il secondo gemello che ha passato la frontiera si chiama Claus, anagramma di Lucas.) In questa seconda parte compare il dolore, del tutto assente nella prima parte. Lucas soffre per la perdita del fratello, resta a letto per mesi mentre il campo della nonna va a male e le bestie nella stalla sopravvivono a stento. Che sia stata quindi necessaria una separazione fra i due affinché i sentimenti repressi cominciassero a venire fuori? Probabile.

Lucas si riprende. Nella sua vita appare Yasmine. Lucas, che ora ha 15 anni, accoglie lei e il figlio Mathias. Il bambino è malformato ed è nato relazione incestuosa della ragazza con il padre. Yasmine lascia il villaggio e il figlio. Nonostante la malformazione fisica Mathias è intelligentissimo, al pari dei gemelli, ma a differenza dei gemelli soffre per la sua condizione e per il suo non essere amato e non accettato dalla società. Lucas lo ama come non ha mai amato nessuno, forse vede in lui il fratello perduto. Neppure l’amore di Lucas riesce a salvare il bambino.

L’importanza della scrittura è il cardine su cui gira il romanzo.  Dei due gemelli uno è  prosatore, l’altro è poeta. I protagonisti sin da bambini fanno provviste di prodotti di cancelleria, carta, matite; Lucas acquista la cartolibreria presente sin dall’inizio nel romanzo. La cartolibreria ha nella storia un ruolo fondamentale, così come la lettura e i libri.  La scrittura per loro è salvifica, scrivendo e  narrando la realtà  mantengono il controllo e il distacco da una realtà diversamente inaccettabile. Lucas seduce una bibliotecaria che nasconde e salva dalla distruzione libri proibiti. La libreria è rifugio e consolazione per molti bambini che non hanno molte possibilità di leggere.  Il libraio Victor che vende la sua libreria a Lucas,  non riesce a scrivere quel libro che ha sognato di scrivere per tutta la vita, e ciò lo porta alla morte, al fallimento della sua vita.

“Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia.”

Dopo essere stati convinti d’aver capito tutto o quasi, ci si rende conto di quanto sia labile la realtà e la finzione, la vita e la letteratura. Se è la letteratura che crea una vita accettabile o il suo contrario, se è la vita che nutre la letteratura e tutto è una grande menzogna?

Infatti La terza menzogna, è il terzo libro. Che i primi libri siano due menzogne? Il dubbio è lecito. La terza menzogna è il racconto del secondo gemello Claus o Klaus. Ed è quindi in prima persona singolare. Il terzo libro  ribalta tutto, verità e finzione si aggrovigliano. La matassa è da sbrogliare, ogni nodo è da sciogliere.  Spesso la realtà è più ordinaria e più banale  della letteratura, anche se la realtà, nella sua semplicità,  è molto più dolorosa. Dei due gemelli uno è poeta, come a dire che nella poesia, e non nella prosa, sta  la verità. Ma anche questo non è del tutto vero, come scriveva Pessoa: Il poeta è un fingitore/finge così completamente/che arriva a fingere che è dolore/il dolore che davvero sente./E quanti leggono ciò che scrive,/nel dolore letto sentono proprio/non i due che egli ha provato,/ma solo quello che essi non hanno. /E così sui binari in tondo/gira, illudendo la ragione,/questo trenino a molla/che si chiama cuore.

Il libro è da leggere assolutamente, un’esperienza imprescindibile. Il fascino del romanzo sta proprio in questo gioco continuo tra il vero e il falso, la letteratura e la vita, rendendolo un’esperienza letteraria e intellettuale intensa e coinvolgente.

Antonella Pizzo

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Via Gemito di Domenico Starnone lettura di Antonella Pizzo

02 mercoledì Ott 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Stranone

Pubblicato nel 2001, e ripubblicato nel 2020 da Einaudi, Via Gemito di Domenico Starnone, Premio Strega del 2001, Premio Napoli, cinquina del Premio Campiello, è un romanzo che affonda nelle complesse dinamiche familiari attraverso il racconto di un figlio che ripercorre la vita del padre. La narrazione è intimista e riflessiva, esplora la fragilità dei legami familiari e il peso dei sogni infranti. La vicenda si svolge  a Napoli, tra la fine della Seconda guerra mondiale e il dopoguerra fascista, per buona parte in  Via Gemito 64. La trama è prevalentemente autobiografica ed è raccontata dal figlio Domenico, detto Mimì, mentre va alla ricerca del quadro più famoso del padre, I bevitori, che pare sia esposto presso una sala consiliare. Il romanzo inizia con Mimì che ricorda il padre quando afferma di aver picchiato la moglie solo una sola volta in ventitré anni di matrimonio. Il che è una bugia, il padre ha picchiato e insultato tante volte Rusinè, la madre.  Il padre è Federico detto Federì.  Un pittore che non si è mai realizzato, che pittava, pittava, senza mai raggiungere il successo sperato. Pittava, pittava, e le sue tele coprivano tutto,  la stanza dove dormivano i figli,  la casa dove viveva la famiglia, la vita stessa della  moglie Rusinè e dei tanti figli, tutto passava in secondo piano, tutto coperto dalla tela e dai suoi colori, che soffocavano la realtà, toglievano l’aria e la luce, gli affetti familiari, l’amore. Federì è un ferroviere frustrato che fa di malavoglia e malamente il suo lavoro che percepisce come ostacolo e come causa del suo insuccesso nel mondo dell’arte. Così come gli è d’ostacolo la sua famiglia, diversamente, senza famiglia a carico sarebbe diventato famoso.

Federì è il fulcro del racconto: un artista talentuoso ma frustrato dal fallimento, che si sente incompreso e penalizzato dalle circostanze, un uomo dal carattere difficile, egocentrico, spesso violento. Attraverso la voce del figlio Mimì, l’io narrante, il lettore viene trascinato in un viaggio complesso fatto di amore e odio, in cui la figura del padre emerge come quella di un uomo insoddisfatto e ambizioso, incapace di venire a patti con i propri fallimenti. Questo sogno mai realizzato di vivere d’arte domina la sua esistenza e influenza profondamente il rapporto con la moglie Rusinè, vittima della sua frustrazione e violenza, e con i figli, cresciuti in un ambiente di tensioni e incomprensioni. Starnone esplora le ambizioni irrealizzate di questo personaggio e le loro conseguenze devastanti, in particolare sul piano familiare, dove la realtà quotidiana diventa una prigione per i sogni del padre e un luogo di sofferenza per chi lo circonda. La pittura, per Federì, è l’unico mezzo per affermare la propria identità, ma questo suo desiderio inespresso lo porta a distorcere la realtà, raccontando bugie e millantando successi inesistenti, rendendolo al tempo stesso affascinante e respingente agli occhi del figlio.

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I bevitori di Federico Starnone, esposto nella sala consiliare di Positano. Il bambino che versa l’acqua è Domenico Starnone che ha posato per il padre all’età di 10 anni. Vicenda raccontata nel romanzo.

Il romanzo mette in scena una riflessione sulla memoria e sull’influenza che i ricordi e le narrazioni familiari hanno sulla percezione del passato. Anche i ricordi possono mentire. «Come è perfida la memoria, ogni ricordo è già il primo stadio di una menzogna». Mimì, crescendo, si rende conto che le storie del padre, sebbene potenti e coinvolgenti, sono spesso esagerate o false, e questo lo porta a mettere in dubbio non solo la figura paterna, ma anche la sua stessa identità e i ricordi della propria infanzia. Mimì arriva a rappresentarsi il padre come un pavone, addirittura crede di vederlo reale, presenza viva che si nasconde nella camera da letto del padre, un pavone che fa la ruota con le sue piume colorate. Arriva a odiarlo al punto di desiderare ardentemente, per tre anni di seguito, di ucciderlo. La sua presenza è così predominante che i ricordi che  riguardano la madre sono sbiaditi.  Il contrasto tra la verità e le menzogne di Federì rappresenta uno degli elementi più affascinanti del libro, che si muove abilmente tra realtà e finzione, senza avere mai la contezza di cosa sia autentico e cosa sia invece frutto dell’immaginazione.

L’ambientazione napoletana, con i suoi colori e la sua vivacità, fa da sfondo a una storia che riflette anche i cambiamenti sociali del dopoguerra, in particolare per quanto riguarda il ruolo della donna, incarnato dalla figura di Rusinè, una moglie che subisce il peso delle aspettative del marito, costretta a fare i conti con la povertà, con le manie di grandezza di Federì e il suo egoismo, con tanti figli da crescere, spesso con problemi di salute.

In definitiva, “Via Gemito” è un romanzo intenso e struggente, che non si limita a descrivere un dramma familiare, ma offre anche una profonda riflessione sul rapporto tra arte, fallimento e identità, il tutto immerso in una Napoli malinconica e affascinante. Starnone scrive con una prosa ricca di sfumature, alternando con maestria momenti di ironia a scene di grande pathos, rendendo il libro non solo un ritratto amaro e realista di una famiglia in crisi, ma anche un omaggio all’ambizione umana e ai suoi limiti.

Il libro da Einaudi

Un padre ferroviere strafottente e fantasioso, con la vocazione ostinata di pittore. Un figlio che si è sempre vergognato delle bugie del padre, ma che dopo tanti anni non è più sicuro dell’infallibilità dei ricordi. La memoria è infatti una somma di malintesi, e quanta vita vera può ancora sprigionare la sua confusione, spesso menzognera? E, soprattutto, come raccontare un uomo che ha romanzato continuamente la sua esistenza, uno che «credeva che le sue parole fossero in grado di rifare i fatti secondo i desideri o i rimorsi»? È questa la sfida letteraria vinta da Domenico Starnone che con questo libro grandioso ha fatto scuola, dando corpo al personaggio indimenticabile di Federí, in un continuo dialogo tra esperienza autobiografica e invenzione narrativa. Un libro straordinariamente nuovo, un classico contemporaneo.

La casa di via Gemito odora di colori e acquaragia. I mobili della stanza da pranzo sono addossati alla bell’e meglio contro le pareti e, prima di andare a dormire, bisogna togliere dai letti le tele messe ad asciugare. Federico, detto Federí, ambizioso e insoddisfatto, desidera essere apprezzato come pittore di talento. Lavora invece come impiegato nelle ferrovie statali per dare da mangiare alla sua famiglia: alla moglie Rusinè, di una bellezza speciale, e ai loro quattro figli. A distanza di molti anni, è il primogenito a raccontare quel padre, così inquieto nel dimostrare le sue doti artistiche, così vitale e affascinante, ma anche così sopraffatto da insoddisfazioni e delusioni. Napoli porta ancora su di sé le tracce della seconda guerra mondiale, ma la memoria che ha il figlio di quei giorni è tutta concentrata sulle incandescenze di Federí. Proprio quel padre ingombrante a cui ha sempre cercato di non assomigliare è motore di una ricerca che lo riporta nella città-cosmo in cui affondano le radici del suo immaginario e della sua lingua di scrittore. Federí, con la sua prosopopea e le mani sporche di colore, trova posto tra i personaggi memorabili

Antonella Pizzo

Domenico Starnone (Napoli, 1943) è autore di romanzi e racconti. Nel 2001 Ha vinto il Premio Strega con Via Gemito ripubblicato nel 2020 con Einaudi. Per Einaudi ha pubblicato inoltre Spavento (2009, Premio Comisso), Autobiografia erotica di Aristide Gambía (2011), Il salto con le aste (2012, prima edizione 1989), Condom (2013), Lacci (2014, The Bridge Book Award), Scherzetto (2016, Premio Isola d’Elba, finalista al National Book Award nella traduzione di Jhumpa Lahiri), Le false resurrezioni (2018), Confidenza (2019 e 2021), Vita mortale e immortale della bambina di Milano (2021 e 2023) e La scuola, che racchiude i racconti Ex cattedra, Fuori registro, Sottobanco, Solo se interrogato (2022), L’umanità è un tirocinio (2023), Fare scene. Una storia di cinema (2023), Il vecchio al mare (2024) e Labilità (2024). Dai suoi libri sono stati tratti film di successo, tra i quali La scuola di Daniele Luchetti, Auguri professore di Riccardo Milani, Denti di Gabriele Salvatores e Lacci di Daniele Lucchetti.

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“Mara e Dann” di Doris Lessing. Una lettura di Antonella Pizzo

25 mercoledì Set 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Doris May Lessing, nata Tayler (Kermanshah, 22 ottobre 1919 – Londra, 17 novembre 2013), è stata una scrittrice zimbabwese di origine britannica. Ha vinto il premio Nobel per la letteratura 2007 con la seguente motivazione: «cantatrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa».Doris_Lessing_3

Mara e Dann di Doris May Lessing è un bel librone di più di 500 pagine che ho finito di leggere in soli tre giorni. Le prime cento e più pagine sono quasi prive di dialoghi, i personaggi presenti: i due/tre protagonisti e le figure di contorno, il cattivo di turno, il popolo delle grotte. Molte sono le descrizioni di desolati paesaggi, di pozze d’acqua secche, di fango rappreso, di case con i tetti in paglia, di scorpioni giganti, di pochissime radici gialle trovate sottoterra, di ossa d’animali morti migliaia di anni prima e portati alla luce da improvvise piene di fango, che come improvvisamente arrivano improvvisamente spariscono, di resti di antiche civiltà scomparse di cui si è perso il ricordo. E pur tuttavia il romanzo non stanca e le pagine te le leggi e ti scorrono davanti agevolmente e piacevolmente. Nelle pagine successive il romanzo continua fra descrizioni di avventure e di vicissitudini, fra sventure e avversità, fra colpi di fortuna e coincidenze sfavorevoli, fra una miriade di personaggi, tantissime persone vaganti o stanziali, buone o cattive, ricche o povere, di tutte le razze e di tutti i colori, uomini mostri, uomini fantocci, uomini rimasti uomini.

Romanzo appassionante ed epocale, fantastico, una sorta di fiaba che racconta la storia di Mara e Dann e di tutta l’umanità, la storia della lotta per la vita. In un mondo dove esiste e resiste fortemente la differenza razziale, in un mondo violento, in un mondo assetato e affamato, in quel mondo del futuro ma ricaduto nel passato, vive l’umanità dolente costituita non più dall’uomo moderno ma neppure dall’uomo del passato, l’uomo ha perso la propria identità, vaga incosciente fra relitti meccanici che non sa più usare, manca l’energia necessaria a farli funzionare o si è perso il ricordo del loro funzionamento e della loro funzione. Un mondo nel quale la terra matrigna non dà più frutto, dove gli animali da latte si succhiano per fame le loro stesse mammelle, un mondo dove le lotte fra gruppi diversi, fra razze diverse, sono la normalità, un mondo dove però si fa ancora uso del papavero che dà l’oblio. In questo mondo stravolto si muovono i protagonisti di questa storia. Mara e Dann, due fratelli, un uomo e una donna, che vogliono, che devono, tornare al nord da dove si è venuti, da dove sono stati strappati. Un ritorno alle origini. Sono nel futuro e vogliono tornare al passato, in quel mondo che neppure ricordano ma dove sono certi ritroveranno la propria identità e la propria umanità. La meta agognata alla fine si rivela non essere quella sperata, infatti, arrivano in un “Centro- Regno” dove vivono due vecchi coniugi che hanno consumato la loro esistenza nell’attesa dell’arrivo dei due giovani, i due principi, gli unici sopravvissuti alla strage della loro stirpe, affinché essi possano congiungersi, generare e rigenerare, riconquistare e ricostruire quel regno cosiddetto civile, quella società dove vigeva la schiavitù e regnavano i sovrani. Il centro è pieno di musei e reperti andati ormai in rovina, di un sapere che non si riesce più a comprendere. Così i due fratelli scappano e scelgono di vivere in una fattoria assieme ad altre persone che da soldati si sono trasformati in agricoltori, fra le quali le persone di cui Dann e Mara si sono innamorati, novelli Adamo ed Eva in un nuovo eden, una fattoria dove si può ricominciare a vivere e riscrivere una nuova storia. Mara e Dann sono andati avanti pieni di fiducia, si sono persi e poi ritrovati, hanno combattuto con caparbietà i mali della terra, loro due, simili ma diversi, ognuno con le proprie caratteristiche, con la propria personalità. La storia più antica del mondo, così la descrive nell’introduzione Doris Lessing, infatti non c’è civiltà che non abbia già scritto una storia simile: fratello e sorella, uomo e donna, parti di una sola unità. Insomma una bella favola, ci sono tutti gli elementi di una storia che soddisfano un comune lettore: i protagonisti che si salvano e la sconfitta dei personaggi cattivi.

Antonella Pizzo Sinossi

” Il clima della Terra è cambiato. Il nord è coperto completamente dai ghiacci, e gli uomini si sono rifugiati al sud, caldissimo e secco. Mara e Dann, due fratelli di sette e quattro anni, vivono in Africa, che ora si chiama Ifrik. Soli e dispersi, rapiti dalla propria famiglia, vengono accolti da una donna gentile e affettuosa, ma la loro nuova esistenza è difficoltosa: la fame, la sporcizia, il pericolo accompagnano costantemente la loro vita. L’aridità e il fuoco distruggono la casa adottiva, e i fratelli sono costretti a spostarsi, ad affrontare l’ignoto, a misurarsi in una serie di avventure che li condurrà in un mondo completamente diverso, dove iniziare a scoprire di nuovo la vita, dove vivere di nuovo. (Dalla scheda su Ibs)”

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Cormac McCarthy – La strada lettura di Antonella Pizzo

18 mercoledì Set 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Cormac McCarthy – La strada

La strada è il primo romanzo che ho letto di Cormac McCarthy ed è stato una rivelazione, dello stesso autore ho letto in seguito anche altri romanzi ma nessuno mi ha colpito come La strada, come fosse un primo amore che non si scorda mai.

La strada, romanzo distopico e post-apocalittico di Cormac McCarthy, pubblicato nel 2006  (colpevolmente letto da me solo pochi anni fa) è un’opera struggente e potente che esplora non solo il legame tra un padre e suo figlio in un mondo devastato, ma anche i temi universali del bene e del male insiti nella natura umana. Il libro, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa, è considerato uno dei capolavori della letteratura contemporanea.

Il romanzo segue il viaggio disperato di un padre e del suo giovane figlio, entrambi senza nome e definiti il padre e il figlio come a rappresentare ogni padre e ogni figlio appartenente al genere umano. I due attraversano un paesaggio ridotto in cenere a causa di un cataclisma di origine sconosciuta. McCarthy non ci rivela mai cosa abbia provocato la distruzione totale della civiltà. Non sembra essere stata un’esplosione nucleare che tutto cancella in un attimo, piuttosto una lenta e inesorabile estinzione della vita sulla Terra. Forse una catastrofe naturale, come la caduta di un meteorite o uno spostamento dell’asse terrestre, ha causato tutto ciò. Gli incendi devastano le foreste, gli alberi si sgretolano e cadono sul terreno perché non hanno più radici, i semi non esistono più e i frutti degli alberi sono quasi scomparsi, tranne rari funghi  e mele, segni che qualcosa ancora vive.  Dopo dieci anni di sopravvivenza, padre e figlio sanno che non resisteranno un altro inverno nel luogo in cui vivono così  decidono di partire verso altri luoghi, mossi da una debole speranza, non possono più attendere la fine senza far nulla, devono muoversi in cerca della salvezza, di un luogo più vivibile e accogliente.  Il sole è tiepido e senza forza e non riesce a riscaldare l’atmosfera. La terra è ridotta a un cumulo di cenere, priva di vita vegetale e animale, l’umanità è stata quasi completamente annientata.  Il bambino è nato dopo la catastrofe, non ha mai visto un animale se non un cane di sfuggita. La madre, anch’essa senza nome,  dopo il parto preferisce morire  piuttosto che continuare a vivere come morta viva, come una zombie.  Il bambino  e il padre partono con l’intendo di raggiungere il mare che sperano sia blu, hanno nel cuore un vago barlume di speranza e nessuna certezza.

I pochi sopravvissuti che incontrano lungo il cammino si dividono in due categorie: quelli che cercano di mantenere la propria umanità e quelli che sono scesi in una brutalità primordiale, fino al cannibalismo. Alcuni tengono prigionieri altri esseri umani con l’intento di nutrirsene nel tempo, hanno la carne umana fra i denti. Padre e figlio spingono un carrello con quel poco che hanno: qualche scatola di cibo che si sono procurati in un supermercato abbandonato e in un bunker e alcune coperte. Il padre, consapevole di avere una malattia terminale, ha un unico obiettivo: salvare la vita del figlio, anche a costo di uccidere o rifiutare aiuto agli altri. Il bambino, nonostante sia nato in un mondo senza speranza, è portatore di un raro e fragile seme di bontà, il fuoco che rappresenta la speranza e l’altruismo, loro non mangiano gli umani e il figlio vuole prestare aiuto ai derelitti che incontrano nel loro cammino.

L’amore incondizionato del padre per il figlio e la sua determinazione a proteggerlo contrastano fortemente con il contesto disperato e privo di luce. In un mondo in cui la madre ha scelto la morte, padre e figlio sono i portatori di quel fuoco che simboleggia la vita, l’amore e la speranza di preservare la propria umanità. Durante il loro viaggio, incontrano un vecchio, l’unico personaggio a cui McCarthy dà un nome: Ely, un riferimento al profeta Elia. Il bambino è il prescelto? il messia che porterà la luce nel mondo? “Se egli non è la parola di Dio, allora Dio non ha mai parlato”. Il viaggio non è stato invano e neppure il sacrificio del padre.

Il bambino rappresenta la speranza in un mondo dove la sopravvivenza ha soppiantato ogni altro valore. In lui c’è una bontà innata, che lo porta a convincere il padre a condividere quel poco che hanno, anche se questo potrebbe costare loro la vita. Ely riconosce in lui una scintilla di qualcosa di più grande. La speranza è quel fuoco, la dignità umana, la fiducia negli altri, l’amore.

Alla fine la speranza in un futuro migliore e nella rinascita sembra prevalere: il padre muore, ma è riuscito a condurre il figlio fino al mare.   Il ragazzo incontra una nuova famiglia e si affida, ora ha una madre e un padre adottivi, e persino un cane,  una visione di normalità e di futuro. La domanda finale è simbolica: “Ma voi non mangiate la gente?” la risposta, “No, noi non mangiamo la gente”, rappresenta la possibilità di questa comunità di una nuova vita e di un ritorno all’umanità.

La prosa asciutta e scarna di McCarthy riflette la desolazione dell’ambiente, sempre monotono e grigio. Tuttavia, il romanzo non è mai ripetitivo: ogni pagina rivela qualcosa di nuovo, ed è in questa varietà che si manifesta la grandezza e l’unicità del libro.

La strada è un’opera dura e angosciante, ma di una bellezza rara e profonda. È una riflessione sulla resistenza dell’animo umano e sull’amore che, anche nei tempi più bui, continua a dare un senso alla nostra esistenza. La prosa di McCarthy, poetica nella sua austerità, dipinge un mondo tetro ma intriso di momenti di umanità che restano impressi nella mente molto tempo dopo la fine del libro.

antonella pizzo

dal sito Einaudi

La strada

Il libro

Un uomo e un bambino viaggiano attraverso le rovine di un mondo ridotto a cenere in direzione dell’oceano, dove forse i raggi raffreddati di un sole ormai livido cederanno un po’ di tepore e qualche barlume di vita. Trascinano con sé sulla strada tutto ciò che nel nuovo equilibrio delle cose ha ancora valore: un carrello del supermercato con quel po’ di cibo che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia gelida e una pistola con cui difendersi dalle bande di predoni che battono le strade decisi a sopravvivere a ogni costo. E poi il bene più prezioso: se stessi e il loro reciproco amore.

«Guardati intorno, – disse. – Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia. Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione».

Che cosa resta quando non c’è più un dopo perché il dopo è già qui? Generazioni di scienziati, mistici e scrittori hanno offerto in risposta le loro visioni di luce e tenebra. Ci hanno prospettato inferni d’acqua e di fuoco e aldilà celesti, fini irrevocabili e nuove nascite, ci hanno variamente affascinato o repulso, rassicurato o atterrito. Nell’insuperabile creazione mccarthiana, la post-apocalisse ha il volto realistico di un padre e un figlio in viaggio su un groviglio di strade senza origine e senza meta, dentro una natura ridotta a involucro asciutto, fra le vestigia paurosamente riconoscibili di un mondo svuotato e inutile. Restano dunque, su questa strada, esseri umani condannati alla sopravvivenza, la loro quotidiana ordalia per soddisfare i bisogni insopprimibili e cancellare gli altri, la furia dell’umanità tradita e i residui, impagabili scampoli di piacere dell’essere vivi; restano i cristalli purissimi del sentimento che lega padre e figlio e delle relazioni che i due intessono fra loro e con gli altri, ridotte all’estrema essenza nella ferocia come nella tenerezza. E restano le parole, splendide, precise, molto più numerose ormai delle cose che servono a designare; la prodigiosa lingua di McCarthy elevata a canto funebre per «il sacro idioma, privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà». Resta dell’altro, un residuo via via più cospicuo in mezzo al niente circostante: resta un bambino che porta il fuoco e un uomo che lo protegge dalle intemperie del mondo semimorto con implacabile amore, uomo e bambino tradotti in ogni Uomo e ogni Bambino, con responsabilità e ruoli che inglobano e trascendono quelli dei singoli individui. E resta, perciò, uno sguardo discreto in avanti e forse in alto, oltre a quello nostalgico voltato a rimirare il regno dell’uomo così come lo conosciamo. In questa risposta di McCarthy – epica, elegiaca, mitica, profetica, straziante, universale – resta perfino l’imprevedibile: un’affettuosa quotidianità che consola e scalda il cuore.

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Weyward il romanzo di esordio di Emilia Hart – una lettura di Antonella Pizzo

11 mercoledì Set 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Emilia Hart

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Weyward – Emilia Hart | Fazi Editore

L’autrice

Weyward è il romanzo di esordio di Emilia Hart,  uscito nel 2023  nella collana Le strade di Fazi Editore, pag. 406, con traduzione di Enrica Budetta. Con questo libro ha raggiunto un pubblico così vasto che si è classificato come uno dei romanzi più venduti in America e in Inghilterra. Emilia Hart è una giovane scrittrice inglese di origini australiane. Nata a Sydney, ha studiato letteratura inglese e legge all’università del New South Wales,  lavora come avvocato a Londra.

La copertina

La copertina incuriosisce perché inusuale, è di un bel giallo vivo con le stampe di un corvo e di due insetti, dei tralci di foglie e fiori colorati, un evidente richiamo alla flora e alla fauna.

La storia

Il racconto si svolge su tre piani temporali, nel 2019, nel 1942 e nel 1619, e racconta la storia di tre donne, Kate, Violet e Altha, che appartengono alla stessa famiglia, le Weyward.

Le protagoniste

Le tre  donne, per ovvi motivi temporali, non si sono mai incontrate ma sono legate, oltre che da legami di sangue, anche da una precisa peculiarità. Le tre possiedono un dono meraviglioso, sentono i soffi impercettibili della natura, il verso degli animali, il brusio degli insetti, degli alberi e delle erbe, i suoni che nessun essere umano normale percepisce.

Sono loro stesse natura e sono perfettamente integrate in essa, ne fanno parte, non ne sono alleate ma sono compartecipi della flora e della fauna. Ne avvertono i segnali, comunicano con la natura e la natura comunica con loro come fossero un unico organismo.

Altha

La madre di Altha, vissuta nel 1600, era considerata una strega perché curava i malati con decotti di erbe medicinali che raccoglieva nei campi, andando contro alla medicina ufficiale che utilizzava le sanguisughe. La madre ha trasmesso alla figlia il suo sapere. Rimasta sola la ragazza dovrà affrontare la comunità che la manda a processo con l’accusa d’aver ucciso un uomo tramite i poteri che Altha ha sugli animali.  Si indaga anche sul fatto se la ragazza avesse mai avuto in casa un familio, cioè un animale a servizio  del suo padrone e che ha poteri magici malvagi.

Violet

Durante la seconda guerra mondiale la sedicenne Violet vive in una isolata e grande magione assieme al severo padre e al fratello. Orfana di una madre che non ha mai conosciuto e della quale non sa nulla o quasi, ne sente la mancanza. Di lei ha solo un medaglione misterioso con incisa la lettera W. Della  madre sa solo che è strana, forse parlava come Violet con gli animali e le piante. Il padre insiste a farle conoscere il cugino  Frederick soldato in licenza che gode della stima e dell’ammirazione del padre, al punto da preferirlo al figlio. Il cugino sarà fonte di guai e sofferenze per Violet e  le farà dimenticare la sua vera natura.

Kate

Infine la terza donna, Kate, vive nel 2019 assieme al marito violento  che la costringe in casa, sorvegliata e  controllata, la donna assoggettata al marito vive come fosse in schiavitù, non si riconosce più nella bambina e nella ragazza che era un tempo, in attesa di un bambino progetta la fuga  e si rifugia nel cottage ereditato dalla sua vecchia prozia Violet. Un luogo particolare intriso di mistero.

La lettura

Si ha l’impressione che si tratti di un libro di magia e stregoneria, ma non lo è. Piuttosto tratta la violenza maschile e la forza delle donne che hanno trovato il coraggio di opporsi a essa, che hanno trovato la forza di superare ogni ostacolo all’apparenza insormontabile.  Le storie delle tre protagoniste possono sembrare molto diverse tra loro ma in realtà sono accomunate dalla ricerca della libertà, dal bisogno di essere se stesse, di sopravvivere e ribellarsi al potere maschile, del marito, del padre, del giudice indagatore, della società, di un intero villaggio,  e non è magia ma resilienza e potere che alle protagoniste proviene dal loro essere parte della natura, e la forza che proviene dalla conoscenza di essa.

Libro coinvolgente con una forte tematica ma che viene trattata con leggerezza, la stessa leggerezza della damigella, l’insetto dalle ali trasparenti che spesso appare tra le pagine del libro, la stessa forza degli animali quando fanno la carica e che poi si fermano a pascolare,  della natura selvaggia che dopo la furia si placa.  Weyward è un libro dinamico e fantastico,  insegna ad avere rispetto della natura e a credere in se stesse, si può rinascere come gli alberi e i fiori se ben coltivati e curati. Una bella lettura senza alcun dubbio.

Dalla quarta di copertina

Hanno fatto di tutto per metterci in gabbia, ma una donna Weyward sarà sempre libera e selvaggia.

2019 -Con il favore del buio della sera, la trentenne Kate fugge da Londra alla volta del Weyward Cottage, una vecchia casa di campagna ereditata da una prozia che ricorda appena. Avvolta da un giardino incolto su cui torreggia un acero secolare, la dimora la proteggerà da un uomo pericoloso. Presto, però, Kate inizierà a capire che le sue mura custodiscono un segreto molto antico.

1942 -Mentre la guerra infuria, la sedicenne Violet è ostaggio della grande e lugubre tenuta di famiglia. Vorrebbe soltanto arrampicarsi sugli alberi e poter studiare come suo fratello, ma da lei ci si aspetta tutt’altro. Un pensiero inquietante, poi, la tormenta: molti anni fa, poco dopo la sua nascita, la madre è scomparsa in circostanze mai chiarite. L’unica traccia di sé che ha lasciato è un medaglione con incisa la lettera W.

1619- La solitaria Altha, cresciuta da una madre che le ha trasmesso il suo amore per il mondo naturale, viene accusata di stregoneria; rinchiusa nelle segrete di un castello, presto sarà processata. Un contadino del villaggio è morto dopo essere stato attaccato dalla propria mandria, e la comunità locale, coesa, ha puntato il dito contro di lei: una donna insolita. E le donne insolite fanno paura.

Ma le Weyward appartengono alla natura. E non possono essere addomesticate. Intrecciando con maestria tre storie che attraversano cinque secoli, Emilia Hart ha dato vita a un potente romanzo sulla resilienza femminile e sulla forza salvifica della solidarietà tra donne in un mondo dominato dagli uomini.

Antonella Pizzo

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Virdimura di Simona Lo Iacono, una lettura di Antonella Pizzo

04 mercoledì Set 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, simona lo iacono, virdimura

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Virdimura – Guanda pag. 224

Simona Lo Iacono 

“Ero diavola, dicevano i cristiani. Ero impura, dicevano gli ebrei. Ero perduta, dicevano gli arabi.”

Virdimura non è un personaggio di fantasia ma una donna realmente vissuta, un medico di origine ebrea figlia di medico e moglie di Pasquale de Medico di Catania. Fu la prima donna che, in assoluto, venne autorizzata a esercitare la professione medica. Così si legge in wikipedia:
“La dottoressa Virdimura, che si occupava di “medicina fisica” e specializzata nella cura delle malattie interne, chiese alle autorità di esercitare la professione medica, in un eccezionale periodo nella storia mondiale di pace fra cultura cristiana, islamica ed ebraica, per aiutare i malati indigenti che non avrebbero avuto la possibilità economica di sostenere le spese sanitarie, dal momento che le cure e le assistenze dei medici cristiani erano molto costose. Al tempo recarsi dal medico rappresentava un privilegio per pochi; sicché Virdimura volle rendere il suo mestiere una missione.
Era molto stimata per la sua bravura e conoscenza della pratica medica, ma anche per aver alleggerito il lavoro dei medici cristiani che non riuscivano a gestire tutte le richieste che pervenivano. Il suo operato fu rivolto anche alle donne, in un periodo in cui la maggioranza di esse ricorreva alla chirurgia plastica per nascondere la perdita della verginità, la cui scoperta avrebbe comportato onta e stigma sociale. La presenza di donne medico si rese necessaria allorquando le donne si rifiutarono di essere sottoposte a visite mediche da parte di uomini.”
Simona Lo Iacono ha tratto ispirazione da un documento conservato nell’archivio storico di Palermo, da questo è nata questa biografia storica romanzata. Non si sa molto della vita di Virdimura se non a grandi linee. La scrittrice ha saputo tramite la sua scrittura in siciliano antico riportare in vita Virdimura, una donna fiera e coraggiosa vissuta nel 1300, che non teme la Commissione di giudici, presieduta dal Dienchelele, riunita per decidere se concederle la licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum.
Virdi-mura, verde come il muschio che affiora dalle mura di Catania che il padre Uria usava raschiare per farne delle medicine. Virdimura fu il nome che le diede il padre. La madre era morta mettendola alla luce e Uria era solito portare la bimba, ancora neonata con sé. Fino a che la bimba cominciò a camminare, allora le fu concesso di camminare fra i letti dei malati, avvicinarsi a loro, imparare a curarli così come faceva il padre Uria, che del suo mestiere aveva fatto una missione.
“Pur essendo esule, mio padre non volle mai sentirsi straniero e imparò ad abitare ogni parte del mondo. Casa non era un luogo, per lui era una relazione. E ovunque potesse svilupparla, con Dio, con gli uomini, con la natura, con gli animali, edificava camere invisibili. Stanze dove soffermarsi. Edifici che non avevano mura ma nomi da pronunciare, corpi da soccorrere, da curare”.
Catania era una città popolosa, multietnica, abitata da cristiani, arabi, ebrei, ma quando fu colpita da epidemie di tifo e pestilenza qualcosa cambiò. Uria, che non era un uomo venale e che aveva un approccio diverso, più legato alla natura, alle piante, ai minerali, che guarisce i corpi e le anime, un approccio più moderno verso i malati, che era portato all’ascolto, in qualche modo ne restò coinvolto. Rimasta sola Virdimura, supportata dalle provviste e altri materiali necessari alla professioni che il padre, che sapeva che sarebbe stato allontanato, aveva provveduto a occultare in una grotta. Virdimura, senza famiglia, sola al mondo, Ebrea, donna, vittima di pregiudizi razziali e di genere, quando le donne che usavano le erbe venivano considerate streghe e quindi perseguitate, a Catania di nascosto inizia a curare i malati. Sono le donne le sue principali clienti, specie quelle che avendo subito violenza da piccole in vista del matrimonio vogliono nascondere al marito la perdita della verginità. Virdimura deve superare pregiudizi e angherie assieme a Pasquale, figlio di medico, che diventa il suo compagno di vita e di mestiere. Organizzano un laboratorio, ospedale, biblioteca, un asilo, curano gratuitamente chi ha bisogno.
Il romanzo è piacevole e interessante perchè in prima persona questa donna si racconta. Una donna vissuta nel 1300 ma moderna per carattere, determinazione, senso etico e di responsabilità, generosa e per certi versi e amorevole e ammirabile. Un’eroina. La scrittura è elevata e intessuta di siciliano antico, è ben equilibrata. Il romanzo è interessante anche perché fa luce in modo molto dettagliato nell’antica medicina, ricostruendo interventi,  e nella cultura ebraica.
Antonella Pizzo

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Mattino e sera di Jon Fosse lettura di Antonella Pizzo

18 giovedì Gen 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Racconti

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Antonella Pizzo, Jon Fosse, La nave di Teseo, Mattino e sera

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La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.

Mattino di Cesare Pavese

Mattino e sera di Jon Fosse La nave di Teseo, 2019
Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, «Per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» è stato il vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2023. Per meriti letterari ha avuto l’onore di essere ospitato, per un certo periodo di tempo, a Oslo nella residenza reale di Grotten. Vincitore di moltissimi premi, tra i quali il prestigioso Premio Internazionale Ibsenil Nynorsk Literature Prize, lo Swedish Academy’s Nordista Pris, il Premio Ubu, l’European Prize for Literature, il premio Willy Brandt, è stato tradotto in numerose lingue. Oltre a testi riguardanti il teatro ha pubblicato in Italia i romanzi Melancholia; Insonni; Mattino e sera (tradotto da Margherita Podestà Heir); L’altro nome. Settologia. Vol. 1-2; Io è un altro. Settologia. Vol. 3-5.
Matino e lasera è uscito nel 2019 ed è edito dalla Nave di Teseo. Il mattino e la sera sono il principio e la fine di ogni giorno, anche la sera non rappresenta la fine del tutto poiché dopo il buio torna a splendere la luce, così ciclicamente a ripetere.

La storia è semplice ed è la storia di tutti, si nasce e si muore. Nasce un bambino che si chiama Johannes, farà il pescatore, muore un uomo che ha lo stesso nome ed è stato un pescatore. Non è chiaro se si tratta dello stesso uomo o sono due uomini qualsiasi che per mera combinazione hanno vissuto negli stessi luoghi, che portano lo stesso nome, che hanno fatto l’antico e identico mestiere di pescatore. Un mestiere che si tramanda di padre in figlio.
Marta la moglie del pescatore Olai, un mattino partorisce un bambino che chiameranno Johannes, come il nonno, anche lui sarà un pescatore come suo padre. In quel mattino particolare le energie sono forti, le tensioni straordinarie. Olai si prende la testa fra le mani, è preoccupato, teso. Marta grida, la levatrice richiede l’intervento del padre, vuole che porti dell’acqua calda. Sarà una nascita travagliata, come una lotta immane, grida di dolore squarciano l’aria nell’isoletta immersa nel freddo, gelo, ghiaccio, stridore, urla, angoscia, ansia, spinte verso la luce che si intravede ma tarda ad arrivare. Il male e il bene sembrano scontrarsi, il buio e la luce si affrontano in una lotta immane. Poi tutto si compie, Il bimbo nasce, fa iI suo rimo respiro e il suo primo vagito, gli si aprono i polmoni che si riempiono di aria e tutto si quieta e placa.
Tutto scorre come un fiume, bisogna abbandonarsi alla corrente, lasciarsi andare senza opporre resistenze, solo allora si potrà giungere alla destinazione finale. Fino al grande mare dove tutto si placa, dove non esiste più il tempo e lo spazio: «Adesso noi due saliremo sulla barca e partiremo. Dove andremo? Adesso fai domande come se tu fossi ancora vivo. Da nessuna parte? Dove andremo, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome». «Adesso spariranno le parole», dice nel finale Peter, il migliore amico di Johannes. Non esiste più la materia, i corpi come li conosciamo, non esiste più il dolore, non più il mare, jam in ebraico, le grandi acque, il diluvio, l’oceano, simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla, del male, spazio popolato da mostri. Cantava Fabrizio De André nel Testamento “Questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli.” Diversamente qui si nasce soli ma quando si muore, nella sera della vita, si è accompagnati da chi hai conosciuto, da chi hai voluto e ti ha voluto bene, da chi ti è stato accanto durante il tuo percorso terreno. Quando il vecchio pescatore si sveglia sembra un giorno come un altro eppure fa un incontro inaspettato e strano. Si imbatte in Peter, l’amico fraterno morto da tempo, venuto a prenderlo e accompagnarlo nel regno dei morti. Johannes non realizza che il suo amico è morto, anche se è scheletrico e ha i capelli lunghi. Johannes è confuso, si trova in una dimensione borderline, fra la vita e la morte non c’è quello stacco netto come fra la non nascita e la nascita, quando l’ossigeno penetra nei polmoni e brucia. Non vi è uno stacco netto come al mattino della vita, la sera è dolce e quieta. Non ci sono urla e travagli, non ci sono compressioni e spinte. Il pescatore è ormai anziano e si muove con lentezza eppure si sente leggero. La temperatura fuori è gelida ma a lui l’aria sembra calda. Tutto è come sempre eppure sembra tutto cambiato. Johannes vorrebbe andare a pescare ma si ricorda che stranamente non può più farlo da quando si è accorto che, contravvenendo a tutte le leggi della fisica, l’esca non affonda ma resta sospesa a metà. Tutte le leggi sono sovvertite, il sassolino buttato a Peter lo attraversa. La signorina Pettersen di cui lui era innamorato è tornata a essere giovane come un tempo. Anna che Johannes avrebbe voluto sposare è ancora incinta. Erna, su moglie, madre dei suoi sette figli è viva anche se morta ormai da tanto tempo. Lui vede e parla con sua figlia Signe ma lei sembra non sentirlo, vede il suo sguardo impaurito. La scrittura è potente e poetica, come un flusso di coscienza, fra la nebbia e la luce, i contorni sono sfumati o abbaglianti come i raggi di sole sulla neve. Mattino e sera è una lunga novella scritta con uno stile fluido, nessun punto, solo virgole. Non puoi fermarti, nessuno può fermare lo scorrere del tempo e il ciclo della vita. Ma nessuno può impedire la morte. Nessun vivo può trattenere un morto. Alla fine il punto arriva a fermare il tutto, anche se Fosse quel punto non lo mette neppure alla fine del romanzo, quando resta lo spazio bianco e sono finite le parole. Tutto scorre ma tutto resta impresso, tutto è vero ma tutto nel contempo esiste solo nei ricordi, nel ciò che è stato e che non sarà più. Resta un pugno di terra sulla bara, dei granchi rimasti invenduti, il buio, ma anche l’amore che vola in cielo sotto forma di nuvole bianche, resta il mare dei pescatori, il mare azzurro e calmo, senza un punto finale.

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Tornare dal bosco di Maddalena Vaglio Tanet

08 giovedì Giu 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, Maddalena Vaglio Tanet, Premio strega, romanzo, Tornare dal bosco

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In Attenti al lupo scriveva Ron nel 1990 e cantava Lucio Dalla: Questa vita è una catena/Qualche volta fa un po’ male/Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo. Il bosco è nell’immaginario collettivo un luogo pauroso e oscuro dove ci si può perdere facilmente ed è abitato da animali pericolosi come il lupo o l’orso. Occorre stare in guardia, non perdere la strada e lasciare traccia del nostro passaggio, facendo cadere i sassolini come fece Pollicino. Oppure può essere un luogo accogliente dove rifugiarsi, come fece Biancaneve che trovò ospitalità e riparo nella casa dei sette nani. Un luogo dove perdersi e dove ritrovarsi. Il bosco è metafora della vita, è attraversamento e rifugio. Quando la maestra Silvia legge la notizia sul giornale invece di andare a scuola entra nel bosco. La vicenda si svolge negli anni ‘70 in un piccolo paese vicino a Torino, fra le montagne e al limitare del bosco, dove lentamente stanno arrivando i primi segnali della modernità. La notizia che sconvolge Silvia è il suicidio di Giovanna una sua scolara di undici anni. La bambina si è lasciata andare giù nel fiume saltando dalla finestra di casa sua, si è levata le scarpe e si è buttata. Silvia seguiva questa sua alunna con molta attenzione perché la ragazzina, appartenente a una famiglia modesta, aveva problemi a scuola, problemi forse non troppo dissimili a quelli che aveva lei da bambina. La maestra Silvia aveva chiamato il giorno prima la madre per lamentarsi del suo rendimento scolastico. Silvia non è una donna qualunque ma ha una funzione sociale precisa e determinata, un ruolo definito. Silvia è la maestra. Non è una donna qualunque, non è una madre, non è una moglie, non è una fidanzata, non è una figlia, Silvia è la maestra e basta. Alla maestra si chiede un’unica cosa, quella e nessun’altra cosa se non quella di fare la maestra e di saperla far bene. Silvia è cresciuta dalle suore e ha ricevuto un’educazione rigida, della sua infanzia ricorda il bosco nel quale si avventurava con il cugino e con il quale andava con gioia a raccogliere funghi. Il bosco è il luogo dell’infanzia, è in grembo materno che la ri-accoglie. Il senso di colpa e di inadeguatezza a svolgere il suo ruolo di insegnante la porta a rifugiarsi nel bosco e a sparire nel nulla. In paese tutti la cercano e temono una disgrazia. Rifugiatasi in un capanno che conosceva sin da piccola, ormai coperto dalla vegetazione, Silvia passa a ritroso tutta la sua vita, acquista consapevolezza del suo fallimento, si rende conto di non essere mai stata una donna ma un frutto ammuffito prima ancora di avere raggiunto la maturità. Silvia si lascia morire, non mangia e non beve, si vergogna di se stessa. Viene trovata da un bambino asmatico e sofferente, Martino, un alunno proveniente dalla vicina Torino che si è trasferito in paese per quei suoi motivi di salute. Martino non sa nulla della maestra, impara a conoscerla negli incontri segreti che avvengono al capanno. Martino è di parola e non rivelerà a nessuno che ha trovato Silvia. La maestra muta, infreddolita, sporca, disidratata, diventerà parte integrante e viva del bosco, perché il bosco è vivo nelle muffe, nei parassiti, nei vermi, non muore ma si trasforma. Sarà Martino a portarle da bere e da mangiare e la maestra Silvia si fa convincere a mangiare e a bere fino a che Silvia si è trasformata in qualcos’altro. Alla fine qualcosa accade ma resta sempre aperto un interrogativo. C’è qualcosa che nel romanzo non si conclude, il cerchio resta incompleto. Sembra una fiaba all’incontrario, in genere nelle fiabe si perdono i bambini, qui invece è l’adulto che si perde e il bambino è il salvatore che la ritrova. Un adulto la cui esistenza, nel bene e nel male, dipende dalle azioni di due bambini ha qualcosa di inquietante. Nelle fiabe c’è sempre una morale, qui mi sembra ci sia una morale all’incontrario. È un romanzo cupo. Allora in questa atmosfera cupa attraversando il bosco canterò: Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo.
Il romanzo è ispirato a storia vera occorsa a un lontano parente dell’autrice, Maddalena Vaglio Tanet, a Bioglio, un paesino di montagna in provincia di Biella, dove ha trascorso dai nonni tutte le sue vacanze estive. Nata nel 1985, ha studiato letteratura all’Università di Pisa e vive a Maastricht dove svolge la professione di scout letteraria. È stata finalista del premio Strega Ragazzi nel 2021 con il libro Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati.

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I fratelli Ashkenazi di Israel Joshua Singer

24 mercoledì Mag 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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I fratelli Ashkenazi, Israel Joshua Singer

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Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale e delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento, viene pubblicato nel 1936 negli stati uniti  il romanzo I fratelli Ashkenazi. L’autore è Lo scrittore polacco in lingua yiddish Israel Joshua Singer (1893-1944),  figlio del rabbino Pinchas Mendl Zinger e fratello dello scrittore Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. Il libro ha più di 700 pagine ma  ciò non mi ha fermata perché avendo già fatto esperienza della scrittura di Singer con il suo bellissimo La Famiglia Karnowski, ero certa che ne sarebbe valsa la pena. Singer ebreo ashkenazita ci racconta il suo mondo, per molti un mondo lontano, estraneo e complicato, multiforme, multiculturale e caotico, un mondo pieno di contraddizioni. Il romanzo narra le vicende immaginarie di due  fratelli inserititi in un contesto di verità storica, fra la metà del XIX secolo fino agli anni trenta del secolo successivo, fra la polonia e la Russia zarista.

Poiché la Polonia era ricca di  filati di lana e di cotone ma mancava di tessitori vennero fatti entrare nel territorio polacco, con la promessa di non pagare le tasse e altri benefici, tessitori provenienti dalla Germania, tedeschi e ebrei ortodossi. Così, dopo la fine delle guerre napoleoniche, una lunga processione di tedeschi ed ebrei percorse le strade polverose della Sassonia e della Slesia fra villaggi già devastati dalle guerre di Napoleone, diretti verso  la cittadina polacca di Lodz, chi nei carri o nei barocci, chi a piedi.  Molti erano individui cenciosi, altri erano ricchi ebrei carichi di masserizie, ma tutti, ricchi e poveri, erano muniti di telai a mano.

La comunità ebraica riesce a inserirsi nel territorio di Lodz e addirittura ad allargarsi costruendo nuove case o ingrandendo le case già esistenti. Alcuni ebrei si mettono in proprio e aprono le loro attività autonome di tessitori.

Uno di questi ebrei, che si era fatto da sé riuscendo a diventare un imprenditore, era Reb Abraham Hirsh Ashkenazi,  ebreo devoto e rispettoso delle tradizioni. La moglie era sul punto di partorire e si era a ridosso della Pasqua, ma lui volle ugualmente recarsi dal rabbino chassidico di Vorka per chiedere una benedizione per il figlio che gli stava per nascere, nonostante le strade  fossero infestate dai ribelli e dai cosacchi. Il rabbino gli aveva predetto che i suoi figli sarebbero diventati ricchi ma non sarebbero mai stati devoti.  Al suo ritorno trova che la moglie ha partorito due gemelli,  Simcha Mayer e Jacob Bunim.

bambini di Lodz primi anni del 1900
bambini di Lodz primi anni del 1900

I due fratelli sono dissimili fra di loro, sia nell’aspetto che caratterialmente, erano come il giorno e la notte. Il più grande è Simcha Mayer, minuto ma sempre triste benché dotato di intelligenza viva, l’altro Jacob Bunim all’apparenza meno intelligente ma più robusto e allegro. Il romanzo narra della rivalità di questi due gemelli, che si manifesta sin dai primi anni di vita. Il minore ama la bella vita, le belle donne e il buon cibo, finge col padre di essere devoto per non creare problemi, si è innamorato sin da piccolo delle bella Dinah, una bambina che gioca spesso con lui mentre il fratello minore, roso dall’invidia, sta  a guardare.  Da adulti si contendono il potere nella città di Łódz. Il  maggiore sposa Dinah la donna  amata dal minore. È furbo e sa operare inganni e astuzie, diventa ricco e si fa chiamare Max, accumula ricchezze su ricchezze, sgobba dalla mattina alla sera senza mai un attimo di riposo, sfrutta i lavoratori della fabbrica come un vero negriero. Odia il fratello minore perché nonostante lui non si dia da fare è come se fosse stato baciato dalla fortuna perché diventa più ricco di lui. Ha sposato, infatti, una donna ricchissima anche se il suo è un matrimonio infelice perché lui ama Dinah la moglie del fratello maggiore. Quasi tutta la seconda parte del romanzo racconta la lotta fra operai e imprenditori, i conflitti fra gli ebrei devoti e i gentili, fra polacchi e russi, fra i nobili e nuovi ricchi, lo sfruttamento dei tessitori considerati alla stregua di schiavi,  la ribellione dei lavoratori, la lotta di classe e la rivoluzione russa. Simcha Mayer che ormai si fa chiamare Max Ashkenazi aveva trasferito molti dei suoi macchinari dalla polonia in Russia, ma a causa  dell’abolizione della proprietà privata, perde tutti i suoi averi e viene  rinchiuso in una prigione della nuova Unione Sovietica. Pentito del male che aveva causato agli altri in nome della ricchezza e della sua avidità, ormai vecchio e malato, comprende di aver sbagliato tutto costruendo il suo mondo nella sabbia e viene tratto in salvo proprio da quel fratello che lui aveva sempre odiato e invidiato. Così come in quel periodo storico erano gli  ebrei, invidiati e odiati, tant’è che il malcontento e la rabbia della popolazione venivano spesso indirizzati dal governo russo attraverso i pogrom contro di loro, facendone un capro espiatorio. Questo romanzo, così come gli altri dello stesso autore, per chi è lontano dalla cultura del popolo ebreo, può rappresentare un’ottima occasione per comprendere meglio l’animo di questo popolo e le loro tradizioni, in quanto le vicende sono narrate da un vero  scrittore ebreo ashkenazita  di lingua yiddish vissuto a ridosso del periodo storico narrato, quasi fosse un testimone diretto.weavingmill

fonte

In nessuna pagina del romanzo  si può leggere la gioia di vivere o la serenità dei protagonisti. Nessuno dei  personaggi presente nel romanzo sembra riuscire a essere felice, eppure la felicità è contemplata nella loro visione e nella loro tradizione religiosa, ma nel romanzo c’è sempre nelle vite dei personaggi un sottofondo di malinconia.  Tutti, ciascuno per i propri particolari motivi dati dai problemi derivati dalla classe di appartenenza, sia per l’avidità, sia per la povertà, sia per la troppa ricchezza, per non sapersi accontentare mai, sia perché si combatte per la lotta di classe, o per i dettami della religione di appartenenza che a volte pesano come un macigno,  ognuno per il suo ma tutti sono infelici. Molti sono i personaggi presenti nel romanzo e molte le loro vicende personali.  Donne, uomini, figli, mogli, mariti, politici, ministri, nobili, imprenditori, filatori, venditori di scarti, agenti di commercio operai, ricchi, accattoni e straccioni,  tutti vivono la loro infelicità in un mondo dominato dal caos e dalla confusione.  Gli unici che sembrano porsi al di sopra di questo mondo mai felice sono i rabbini, depositari della saggezza e dell’ordine, come se lo studio e l’insegnamento della legge fossero un porto sicuro, un luogo preciso,  e i rabbini, detentori di quella terra promessa, già insediati nella terra dove scorre latte  e miele. Nel  giudaismo  la felicità è un comando, il Talmud dice che rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Sia nel Levitico che nel Deuteronomio si ordina di essere gioiosi, molte delle loro feste sono nel segno della gioia, la gioia della  festa delle capanne, la gioia della Pasqua.  È chiaro così che quasi nessuno dei personaggi del romanzo è un devoto e ciò causa infelicità.  Il romanzo già nel titolo parrebbe avere  come tema principale  la storia di due fratelli e il dualismo esistente fra essi, ma è solo l’occasione per rappresentare i conflitti esistenti nell’animo umano e nei gruppi contrapposti: fra  le diverse etnie, fra gentili ed ebrei, fra chassidin devoti e non osservanti, fra il socialismo e il capitalismo. Ciascuno portatore di  malcontenti e dicotomie,  dove i personaggi cambiano abito di volta in volta, a seconda delle circostanze, una volta sono le vittime e un’altra sono i carnefici assumendo ruoli intercambiabili adattandosi ai padroni e alla situazione storica ai confini territoriali del momento. Il libro appassiona e si legge facilmente  nonostante le sue tante pagine e gli argomenti non molto leggeri perché la scrittura  è fluida e la storia interessante, specialmente per chi ama questo tipo di scritture, cioè le saghe familiari e i romanzi storici in cui le vicende dei protagonisti sono inseriti nella realtà  storica, anche se ho trovato un po’ lunghe la parte delle descrizioni delle lotte di classe e della rivoluzione popolare. Il romanzo mi è piaciuto meno de La famiglia Karnowski  perché un po’ ripetitivo in certe parti e meno dinamico.

Antonella Pizzo

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Navi nel deserto di Luigi Weber

11 giovedì Mag 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Luigi Weber, Navi nel deserto

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Navi nel deserto
di Luigi Weber
Il ramo e la foglia edizioni, gennaio 2023
pp. 376

Se c’era un detto autentico in bocca a quello sputasentenze di Schomberg, era “la mia strada la segnano i fuochi nella notte”.
In un deserto punteggiato di piccole oasi, di rocche fortificate alte su speroni di pietra, tra piste di terra battuta per navi a ruote e città abbandonate che emergono dalle sabbie come relitti, giocano a scacchi con il destino e la morte un giovane capitano inesperto, un traditore, un naufrago, un uomo ossessionato dal desiderio di vendetta, una ragazza inquieta e la sua nutrice.
Naviganti, Pirati, Isolane e Cittadini dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni.
Attorno a loro, da ogni parte, si innalzano lenti nel cielo i sette pilastri della distruzione.
I grandi romanzi e i personaggi di Joseph Conrad, affondati, sbriciolati e dispersi in un mare solido, tornano a incontrarsi e scontrarsi lungo le piste di una storia tutta nuova.
*

«Sulla Kairos dormivano, tutti. Nessuno ancora sapeva dell’arrivo dei Pirati in quelle terre, e la sorveglianza semplicemente non esisteva.
Io non dormivo, invece. Il deserto è piatto, l’aria notturna tersa, e l’incendio dell’infelice vittima ardeva molto sopra le dune, come la porta dell’inferno spalancata. Perfino da terra lo vidi distintamente, e mi si agghiacciò il sangue.»
Luigi Weber è un insegnante di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna. Il Romanzo distopico Navi nel deserto è la sua opera prima. Nato dopo lunga gestazione, come dichiarato dall’autore in interviste apparse sul web, “Navi nel deserto è uno strano indefinibile oggetto, persino per me che ci convivo da un tempo lunghissimo. Un esordio romanzesco attempato, a cinquant’anni, e insieme paradossalmente giovanile, perché mi accompagna da quando ne avevo venti. A prima vista sembrerebbe un prodotto sospeso tra narrativa d’avventura per ragazzi, fantascienza e fantasy, mentre non è niente di tutto ciò. “

***

Non importa come sia potuto accadere e perché, non si sa quando sia accaduto, non si conosce quale sia la catastrofe occorsa, se guerra atomica o spostamento dell’asse terrestre, o la caduta di un meteorite, ma la terra di un tempo non esiste più, i fiumi, i mari, le montagne, le città, tutto è coperto da una spessa coltre di sabbia. Affiora solo qui e là qualche spuntone metallico facente parte di qualche alta costruzione. Il mondo è sotto, è il Downtown, un mondo sommerso, “Indica la parte nevralgica delle antiche città, dove si alzavano tutti i grattacieli. Oh Dio, sapevo che c’era una in questa regione, ma come si fa a crederci…“ I personaggi portano i nomi dei protagonisti dei romanzi di Conrad, a partire dal protagonista principale, il capitano, che porta addirittura il nome dello scrittore Joseph Conrad. Ci sono molte citazioni che riguardano Conrad, ad esempio quando Freya, promessa a Julian Sands il naufrago che abita in una delle oasi, dice di sé che il suo è un cuore di tenebra. A differenza delle atmosfere di Conrad di Cuore di tenebra, che sono volontariamente ombrose e cupe; a differenza  del romanzo la strada di McCartey, dove era accaduto qualcosa di terribile alla terra, dove il paesaggio scena dopo scena, dall’inizio e fino alla fine del romanzo, è sempre grigio, dove tutto è coperto di cenere e anche l’atmosfera e satura di cenere, in questo romanzo c’è sempre un sole abbagliante, potente, infuocato , che brucia “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”

Le navi solcano i deserti su grandi ruote che seguono delle strade numerate su dei binari prestabili come una sorta di ferrovia dotata di scambi, come quelle dei treni, per passare da una strada numerata all’altra. Per quanto riguarda la struttura il libro è diviso in dieci interludi  e vari capitoli,  e coesistono diverse voci narranti. Alternando il punto di vista si vorrebbe accrescere il ritmo della narrazione. Notevoli le descrizioni dei paesaggi sabbiosi e dei colori, nonché degli stati d’animo complessi dei protagonisti. Benché l’ambientazione è futurista e post atomica,  a volte si ha l’impressione che i personaggi siano regrediti nel passato e vivano le atmosfere dei regni greco-romano, o egiziano, o minoico.
Questa terra di oggi è abitata da uomini uguali a quelli che abitavano la terra di prima. Gli uomini hanno sempre le stesse emozioni e gli stessi sentimenti, l’uomo è sempre uguale a se stesso, simile nei difetti e nei pregi. Sotto la cenere della città di Pompei sono state trovati oggetti e suppellettili che anche noi, uomini moderni, avremmo trovato comodi da usare. Sono state trovate iscrizioni nei muri contro certi personaggi politici e pubblicità varie, fontane dove bere e piazze dove incontrarsi e passeggiare. I bisogni dell’uomo saranno sempre uguali, il bisogno di stare in gruppo, di condividere, di amare, di classificare, di odiare e di disprezzare il diverso e di aggregarsi a chi si ritiene sia più simile a noi. I pregiudizi e le discriminazioni accompagneranno sempre gli uomini qualunque sia il mondo abitato. L’umanità abitante questa terra sabbiosa e infuocata è riuscita a trovare una sua organizzazione. La società del romanzo è divisa in due gruppi, stanziali e nomadi. Gli stanziali sono i cittadini cioè gli uomini che hanno preferito arroccarsi nelle fortificazioni, e gli isolani che abitano le oasi in mezzo al deserto dove attraccano le navi. I nomadi sono i naviganti, cioè quelli che in giovane età sono usciti dalle rocche e hanno costruito delle navi nelle quali hanno trascorso insieme tutta la loro vita, e i feroci pirati che in genere sono i fuoriusciti dalle rocche il cui scopo è quello di inseguire i naviganti. Non conta chi sei, da solo non hai identità e dignità, conta solo a quale gruppo appartieni, ed è un’anomalia che il capitano Conrad sia un cittadino diventato navigante.

Si tratta di un romanzo distopico, d’avventura, avveniristico, fantascientifico, ma non solo, questo romanzo parla principalmente di uomini, delle loro paure e dei loro sentimenti. Dello sforzo giornaliero di sopravvivere in un ambiente che è diventato ostile e pieno di pericoli o che ti costringe a vivere murato vivo pur di non perdere la vita. A cambiare faccia e a fingerti altro per non perire. A perire per non cambiare. Un romanzo molto particolare, adatto e consigliato a chi ama il genere distopico e apocalittico.

mpluchi@yahoo.it

Antonella Pizzo 

bio Luigi Weber
Nato nel 1972 a Rimini, ma dall’incontro tra un trentino di Rovereto e una toscana di Marradi, quindi sospeso tra il mare, le Alpi e gli Appennini, Luigi Weber da lungo tempo ormai si è risolto per la pianura, e vive e lavora nella città che più gli è congeniale, Bologna, con la sua famiglia. Qui ha studiato e si è laureato in Lettere Classiche, nel 1998; qui, dopo una pausa di alcuni anni trascorsa come giornalista in Romagna, è tornato definitivamente ad abitare, iniziando una collaborazione ormai più che ventennale con l’Ateneo in cui adesso insegna Letteratura Italiana Contemporanea. Nel frattempo ha vissuto anche nel magico mondo del teatro di ricerca, partecipando a nove indimenticabili edizioni del Festival di Santarcangelo come caporedattore del Quaderno del Festival. Per alcuni anni ha insegnato a scuola, a bambini delle medie di Imola e adulti nelle serali di Vergato, e anche quelli sono stati anni e incontri impossibili da scordare. Dal 2012 è diventato Ricercatore e poi dal 2014 Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica di Bologna. Ha scritti libri e curato edizioni e pubblicato saggi su molti autori e fenomeni letterari dell’Otto e del Novecento, da Manzoni al Gruppo 63, occupandosi di letteratura fantastica, poesia e romanzo sperimentale, letteratura di guerra e di viaggio. Dal 2021 fa parte del Comitato Direttivo della MOD, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria.

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Nostalgia di Ermanno Rea

27 giovedì Apr 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Cinema, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Ermanno Rea, Favino, Mario Martone, Nostalgia, romanzo

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Dal greco: nostos ritorno a casa e algos dolore. Il dolore del ritorno. Nostalgia, dolore del ritorno, quel malessere che ti prende quando ripensi alle cose del passato, ai luoghi in cui hai abitato, alle persone che hai conosciuto e amato. Il libro racconta la Sanità e le sue bellezze nascoste, visibili solo a chi ama il quartiere, un quartiere ricco di storia e di umanità. Racconta anche della nostalgia provata per Napoli di Felice Lasco, un sessantenne nato e cresciuto al Rione sanità e che ha vissuto per altri quaranta anni all’estero. Il rione della sanità viene descritto in modo particolareggiato e poetico da Ermanno Rea, sono luoghi che amava perché i suoi nonni abitavano nel cuore del rione in quella lunga strada che è Via Cristallini. Frequentando quei luoghi era venuto a conoscenza della vera storia da cui ha tratto il romanzo. Il libro racconta la storia di due ragazzi, Oreste Spasiano, detto Malommo, e Felice Lasco. Sono nati negli anni 50 in quel quartiere che è come fosse un mondo a sé stante, ai piedi di Capodimonte, un quartiere che aveva visto passare principi e re, costruito sulle catacombe, su grotte, su strapiombi di tufo, piena di orti e giardini misteriosi, la chiamavano la valle dei morti per via del cimitero delle Fontanelle e per le spoglie mortali di San Gaudioso e San Severo in quei luoghi custodite. Continua a leggere →

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