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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Il segreto di Marie-Belle

Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (II parte)

10 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

(Continua da I parte)

Il romanzo, ben costruito (l’Autore è uno specialista nel trattare le suspanses) è interamente imperniato su una forma di devozione possessiva – e in alcuni momenti fomite di angoscia – ma casta. Solo un romanzo? La sua forma diaristica, sia pure prodotta da una folle, dice qualcosa di più di un’anamnesi richiesta dallo psicanalista per scopi terapeutici, perché il «servizio d’amore» di Aurelia, benché riguardi la cura dei malati (il proprio padre, l’avvocato, la depressa Madame e Belle) tradisce una derivazione trobadorica, assimilandosi a quello dei cavalieri medioevali per la loro dama. Il riferimento ai castelli e le figure stilizzate del romanzo potrebbero, in fondo, suggerirlo. La differenza sta nel fatto che qui a servire sia una donna. Siccome Aurelia desidera avvincere Marie-Belle secondo la nota formula del “per sempre” e deve perciò aggirare le insidie, sia pure immaginarie, che gli altri le preparano, la sua posizione si trova agli antipodi di quella esposta nell’Axël di Auguste de Villier de L’Isle-Adam. Qua, il margravio Axël d’Auërsperg convince la principessa Ève Sara Emmanuèle de Maupers a vivere il loro amore una sola volta, per poi bere il veleno (non a caso nei sotterranei del castello colmi di tombe) quindi senza il rischio di corroderlo con la durata. Del resto, le vicende di Piramo e Tisbe, Romeo e Giulietta e tante altre, a ben vedere sembrano fatte apposta per escludere l’aspetto “amministrativo” della vita a due: certi innamorati, romanticamente assolutisti, muoiono prima di vivere “felici e contenti” forse perché, come Axël con Sara e tant’altri, non reggerebbero al futuro e inevitabile defalco della felicità o la ritengono troppo misurata per accettarla. Certe coppie di Flaubert, Fromentin, o anche i due amanti di Le diable au corps di Radiguet, spenta la fiamma d’amore, non sono neanche “felici e contenti”.

Malgrado il timore di perderla, Aurelia – come abbiamo visto – favorisce la sua pupilla, trovandole la possibilità di entrare nel mondo del cinema attraverso il produttore Max Cherubino che disperatamente se ne invaghirà, iniziandola all’uso della cocaina. Da questo punto in poi, cioè fra le prove sul set in Francia (fissandosi sulla Butte, in cui più tardi troveremo la villa dell’infelice Dalida) e nel Regno Unito, la governante torna a seguire a ogni passo la sua “bambina” come persevera a definirla (sarà la sua sarta e truccatrice) che da parte sua – dopo un drammatico scontro – finisce però col respingerla…

“Max è un povero infelice anche lui, come me, ma dice di amarmi, dice che l’amore potrebbe salvare lui e me… Patetico, vero?”

“Da cosa potresti essere salvata, Belle?”

“Dai fantasmi dei ricordi… Da me stessa… Da me stessa, e da te”.

“Quello che stai dicendo è assurdo”.

“Oh certo, assurdo e vergognoso. Non sono più irreprensibile, vero?… Ma nemmeno tu lo sei”.

Il motivo di un simile atteggiamento è possibile scoprirlo solo al termine del romanzo, e ad ogni modo noi possiamo essere eventualmente salvati da circostanze esterne, ma non da noi stessi. Tutto si svolge così (in un tragitto costellato di catastrofi: la morte di Cherubino, quella di Madame, del padre e del fratellastro di Marie-Belle) fino al giorno in cui le allucinazioni di Aurelia diventano insopportabili e subisce il ricovero in Villa Sorriso. Questi accadimenti psichici come figure del senso di colpa, iniziano da lontano tramite segni inquietanti e premonitori in rapporto al desiderio della donna di proteggere la sua pupilla dal male, per poi rafforzarsi dando luogo a sogni angosciosi. La ragione di simili angosce dipende dal fatto che Aurelia, col suo delirio, si vede costretta a compiere dei delitti, le cui scene tornano per via onirica, ad esempio quando a bordo della Morgan di Werner si sente precipitare nel lago, o vede nella persona che ha di fronte sul treno lo stesso chauffeur trasformato nell’orrenda figura del persecutore, cioè del sospettato amante di Belle, il quale, in un’altra visione allucinatoria, pronuncia la verità per lei inaccettabile, che la ragazza sa salvarsi da sola – e qui uno psicanalista avrebbe qualche motivo di cogliere in lei la gelosia dell’omosessuale. Ma le cose si complicano, perché allucinando in un’altra scena la sua pupilla morta nel disastro da lei causato all’autista, rivela il desiderio di desiderarne la fine. L’enunciato, se l’ipotesi regge, sarebbe dunque il seguente: “Tu non amerai nessuno al di fuori di me, noi moriremo assieme”… e questo accadrà alla fine del romanzo. Aurelia, assecondando il proprio delirio d’interpretazione, intende i segni che via via trova nella realtà come manifestazioni del fato, cioè in termini di annunci e corrispondenze secondo i meccanismi della magia studiati da Frazer e altri studiosi del fenomeno, anziché figure del proprio desiderio. Non per nulla Raffo introduce nel romanzo lo psicanalista (o di uno psichiatra?) dottor Boni. Ciò per dire che l’idea del fato su cui s’imperniano altri racconti dell’autore in base alla logica del romanzo di destino (tutto è già scritto, e la conoscenza ne rileva via via solo il processo) è qui in parte accolta e in parte relativamente modificata proprio per l’intervento del terapeuta… ma l’analisi deve farla il paziente, e se Aurelia riesce a ritessere il filo della sua truce avventura, le cose non vanno allo stesso modo per l’articolazione dei suoi fantasmi e il suo desiderio: a vincere è insomma il fato in cui crede. Possiamo asserire che la governante agisca in modo inconscio? Si e no. Probabilmente sì, laddove è vittima dei segni fatali, ma non di ciò che tenacemente persegue come parte del gioco, cioè la conquista del proprio idolo. Aurelia, ormai vecchia, reclusa e irriconoscibile, dopo aver eliminato quattro persone per creare il vuoto attorno a Marie-Belle, non rinuncia al progetto di legarla per sempre alla propria esistenza, e questo avviene tramite il mite Honoré, giardiniere vietnamita con il culto della medicina galenica. Prevedendo l’incontro con la “bambina” ormai invecchiata e che, pur a conoscenza del segreto, porta ancora il ciondolo del terzo occhio (a protezione di cosa, se non del malefico desiderio della “celeste” signorina, così definita dal regista del film?) la donna ha accantonato le cialde a base di Dathura Stramonium, una solanacea, e come tale tossica, che Honoré (vittima inconsapevole della catastrofe) le portava per fini curativi, e con queste prepara “la torta dell’immortalità” (così battezzata da Belle e Honoré) per consumarla con Marie-Belle. Il sigillo, la torta “al veleno” – ecco l’affascinante idea di Raffo! – era già fatalmente preordinato a unire per sempre le due vite. Come mai, dopo tanti anni, le due donne, incontrandosi, cadono l’una nelle braccia dell’altra come se nulla di grave fosse successo? Forse perché l’ex graziosa attrice, rassegnandosi al fato («non ero padrona del mio destino») riconosce di non essere poi così diversa dalla sua guida. In caso contrario, avrebbe reagito all’assassinio della madre, mentre così, nel tenerlo segreto, lascerebbe intendere di averlo anche lei desiderato. Se Belle tace, e lo farà per sempre (l’avverbio ombreggia tutto il romanzo) può suggerire che certi delitti hanno ricevuto la sua approvazione. Poiché, come accennavo, questo è il romanzo del destino, perciò colmo di corrispondenze secondo un criterio atavicamente animistico, mi pare che anche la Morgan di Werner (l’autista allucinato dalla gelosa Aurelia come il mostro di Fragonard) possa richiamare la morgue: ciò in base al fatto che la signorina lo farà incappato in un incidente mortale. In Il segreto, sono anche da rilevare certi aspetti ambientali, ad esempio la loro insularità, come il Castello dei Francesi, vagamente in stile gothic revival, sebbene dotato di una radiosa cupola vitrea, indice di un clima demodè aggiornato dall’epoca in cui si svolge la vicenda, e a questo proposito il lettore non mancherà di notare l’indiretto rifiuto dell’architettura funzionalista a favore dei manieri: Chenonceaux, Chateau d’Aubonne, Fontainbleu eccetera. Questo per specificare che il modus vivendi e le caratteristiche dei personaggi, assieme al «remoto» riserbo, all’«astrazione» all’«eleganza algida» di Marie-Belle, indicano, appunto, il rifiuto di trovarsi irreggimentati secondo ogni moderna e ingrigita funzione. Occorre però anche aggiungere questo: la «volontà ferrea» della fragile Marie-Belle, tale al punto da «sconfinare in un’ostinata quanto irragionevole pretesa di onnipotenza» anziché sostenere il talento rivela semmai una certa fissità del carattere… qualcosa di rigidamente mortifero, del resto fatalmente preannunciato dalla sua morte nel film Maison Dangereuse. È come se le personae di questo romanzo costruito come la sceneggiatura di un film, siano dominate da un impulso alla retraite (si tratti del castello, della villa lacustre o del manicomio) o, meglio ancora, dal fantasma di sparizione che si trova già nel mancato vitalismo della protagonista. La frase walseriana: «attorno a noi tutto era bellezza, calma e voluttà» parrebbe dunque suggerire l’idea di una trascorsa completezza da età dell’oro dopo la quale non resti che il declino. L’abbraccio, forse nostalgico, fra le ormai tarde Marie-Belle e l’istitutrice sigillerebbe bene quest’idea. Che da parte di Aurelia si tratti di vero amore, è naturalmente da escludere. Qua, richiamandoci al dipinto in copertina, si tratta di affinità elettive in termini letali (anche nel noto romanzo di Goethe hanno esito funesto) perché inventate dalla governante allo scopo di soddisfare la propria passione. Amare e voler bene sono due cose diverse, e Aurelia ama egoisticamente la sua pupilla senza giungere a un disinteressato sacrificio (i maestri del sospetto, fra i quali mettiamo Freud e Nietzsche, hanno fondati motivi per non credere, kantianamente, al disinteresse) anzi con una tenacia fuor del comune spinge la sua “protetta” – che per lei è in sostanza solo un idolo – alla completa rovina.

Silvio Aman

 

Bibliografia  di Silvio Aman

Cura del volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri)

Cura antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015.

Edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001.

Monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dip. di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte.

Partecipazione con un saggio al volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015.

Cura di vari libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle.

Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004;

Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005;

Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto) Bergamo, Moretti & Vitali, 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti.

L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (I parte)

03 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

Il segreto di Marie-Belle 2

     L’isola malinconica e remota in cui quella strana creatura

     dava l’impressione di essere arroccata

     non sembrava all’inizio concedere approdi.

 

Il breve ma intenso romanzo di Raffo, l’ultimo in ordine di tempo di una fortunata serie, fra gotico e noir, quando i due aspetti non s’intrecciano, è il diario del rapporto, poi trasformato in casto amore, dell’istitutrice Aurelia nella Villa La Protégée, per la piccola e anemica Marie-Belle, bisognosa di cure. Esso porta il seguente esergo tratto dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei:

Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola,

senza saperlo hanno accolto degli angeli.

È vero ma può anche darsi che gli angeli rivelino gli aspetti inquietanti del loro camuffato antagonista, ciò in base alla differenza fra l’indefettibile e pura volontà del Signore di cui è veicolo e le umane debolezze. La signorina Aurelia, istitutrice di Marie-Belle, è sicuramente un angelo, ma solo finché il suo attaccamento protettivo alla ragazza non trova ostacoli, e a questo riguardo romanzi e fatti di cronaca nera con tanto di delitti lo testimoniano, prima con la lotta al fine di guadagnare l’oggetto causa del desiderio, poi per conservarlo contro ogni genere di opposizioni e rivalità. Nel primo capitolo che funge da prefazione al suo diario, Aurelia – la splendente, come significa il nome – scrive:

Le nostre vite mi paiono così strettamente intrecciate da costituire un’unica vita. Tutto ciò che è accaduto a Marie-Belle ha toccato di riflesso anche me. O sarebbe più corretto dire che è stato determinato da me, come in un gioco di ineluttabili corrispondenze? […] Ma c’è un’ombra dietro Marie-Belle, che la segue a ogni passo, eppure sembra avere una consistenza propria, un suo spessore autonomo benché inscindibile da lei. Sono io quell’ombra. Forse la storia che sto scrivendo è proprio questo: il diario di un’ombra.

Quest’ombra, incarnata dall’istitutrice, e dalla quale Marie-Belle Daumier tenterà a più riprese di sottrarsi, è la scia del fato che si annuncia appunto attraverso “ineluttabili corrispondenze” cioè con i segni interpretati da Aurelia come precognizioni degli ostacoli volti a intralciare la vita della ragazza. Uno di questi è rappresentato da Le Nain Bombard nel mazzo di carte divinatorie Bonne Aventure fornite di un Tableau résumé che definiremmo “roulette russa” cioè di un cerchio rotante, il quale si arresta su una determinata immagine, poi echeggiata, per analogia, nel mostro sogghignante in un dipinto di Fragonard e nello chauffeur. Il nano porta un sacco colmo di bastoni, simbolo numerico degli ostacoli nei quali potrebbe incappare Belle. Per cogliere meglio il tessuto delle perfide corrispondenze, occorre precisare che il mazzo, su cui Aurelia – prima di rubarlo – consulta il destino della sua protetta, si trova, assieme alla Bibbia, sul tavolino da notte della ragazza, cui appartiene, e questo indica già la fatale connessione fra le due. Siccome Il segreto è un romanzo del destino di cui non ci devono sfuggire segni, ricordiamo che Marie-Belle Daumier, nel film in cui ha la parte di una suora suicida, cantilena: «Non ero padrona del mio destino. Così doveva essere» e anche le sue recite allo specchio, lusinghiero paredro, quando sogna di fare l’attrice… E lì nel gelido riflusso, congelata, le mani al seno, i capelli lungosciolti, giace la mia bellezza, la bellezza di me. E intorno fiori… Oh Ofelia, Ofelia.

Ofelia, non per caso, è la folle suicida immersa nel ruscello tra i fiori, così ben rappresentata nel celebre dipinto di John Everett Millais. Questo mi lascia supporre che Marie-Belle, incontrata da Aurelia a Sanremo con la madre Madame Geneviève, abbia subito un magico innesto come accade in botanica, nel senso di innestare il ramo di una specie su un’altra al fine produrre certi frutti che con la prima non si potrebbe, in special modo se sterile. Di questa ragazza anemica, soggetta a narcolessia, sintomo di esigua vitalità, e in cura nella clinica di Ospedaletti, perciò bisognosa di una tutrice, dotata «di una discrezione, una riservatezza che aveva qualcosa di remoto, d’innaturale» (oggi la definiremmo tendenzialmente autistica) è evidente il disinteresse per gli altri: infatti, dalla panchina sulla Passeggiata Imperatrice, assorta nella lettura, non alza nemmeno la testa, fosse solo per dare un’occhiata alla donna che avrà tanto peso nella sua vita. L’aggettivo “remoto” che Raffo, poeta sensibilissimo ai suoni, penso abbia scelto per l’ombra lontanante delle due o, indica molto bene la riservatezza aristocratica e “innaturale” di Belle… ma quanto ordinarie sono alle volte le persone naturali! Narcolessia e astrazione dal mondo esterno, saranno poi favorite in segreto dall’uso degli alcolici, poi delle droghe nel periodo in cui, ormai trentenne, Belle farà l’attrice nel film Maison dangereuse (chiaramente opposto a La ville Protégée) per la Cherubino Film: nome angelico ma non per gli interessi di Aurelia, cui il bell’uomo appare minaccioso, come si vedrà. Assieme alla citazione della Bibbia (la ragazza ne ha una sul comodino) al benaugurante Protégée, a Paradiso, come suona il lusinghiero nome del battello, e alle radiose scritte sopra i due camini, tornano anche gli angeli, perché quando il padre di Marie-Belle, avvocato tedesco intento compilare la settimana enigmistica, chiede il significato in italiano di una parola, Aurelia risponde «angelo» o «arcangelo» secondo il numero delle lettere, e lui: Sie waren der Engel meines Leben “Voi siete stata l’angelo della mia vita” senza immaginarne anche quello della morte, perché pur devota al «servizio d’amore» costei non lo aiuterà di certo a vivere. Pur assecondando i propri esclusivi desideri, l’amorevole tutrice solleciterà la sua pupilla «ad aprirsi sui suoi rapporti coi compagni» ma tramite la doppia manovra di chi da una parte protegge e dall’altra isola. Protégée potrebbe appunto alludere alla cura fatale esercitata da Aurelia sulla ragazza, perché vittima lei stessa di una fantasticheria d’isolamento, le riesce spontaneo appoggiarsi all’altro per via narcisistica e prolungarvisi tramite una forma di empatia dominata dal sortilegio (produttore del senso di colpa ben indicato da Raffo) cioè dal timore preventivo di cosa il suo amore produrrà. Il dualismo – che nel romanzo è ora occultato, ora palese – si gioca fra i segni nefasti e gli oggetti dai caratteri apotropaici e morfinici donati alla ragazza: il ciondolo protettivo del terzo occhio e un pigiama col ricamo del fior di loto, portatore dell’oblio (se pensiamo ai lotofagi dell’Odissea anziché all’India) purché non si perda di vista l’ambivalenza che anche i simboli benevoli possono assumere laddove, improntati, a uno scopo, diventano strumentali.

Di questi affascinanti isolamenti, la letteratura è ricchissima: basti pensare ai racconti di Poe con Ligheia, Morella, Il ritratto ovale, Il tramonto della casa Usher e al celebre À rebours di Huysmans, tutti sottolineati da sfinitezza e idee di morte. Ciò perché certi esseri dotati di un’eccessiva sensibilità estetica (di cui Aurelia vive solo l’eco) e disgusto per la gente comune, non riescono a commerciare col mondo e avere compagni se non nella rarità dei propri oggetti, siano essi fiori, libri o persone. Qui, il cum panem, è solo quello vissuto con i propri simili impreziositi dal declino: tutto è già stato “nello splendore dell’antica luce” e il seguito è solo decadenza. Del resto l’«antica luce» si offre come tale – generalmente parlando – per effetto retroattivo, una volta distillata dalla memoria col solvente del principio di piacere… ma era proprio così radiosa? Nella clinica Villa Sorriso, dove è ricoverata, l’unica soddisfazione dell’ormai anziana Aurelia consiste nel puntare il cannocchiale, dono del giardiniere-animista Honoré, verso il maniero abbattuto e gli alberi di Villa Protégée, ora visibili (un tempo non li poteva scorgere dal promontorio della propria casa) perché è come se la forbice del lago si sia chiusa unendo le due parti dei rami, cioè la sua vita con quella della ragazza) e attendere che il destino si completi. Come? Con l’arrivo della sempre attesa Marie-Belle. Lo strumento ottico aiuta l’immemore (oggi, per certe dimenticanze in seguito a delitti, si userebbe l’inelegante termine di scotomizzazione) a ricostruite un vissuto di cui Marie-Belle detiene il segreto, cioè il romanzo come la sua stessa biografia. Proprio per questo il percorso di Raffo segue in parte la tecnica indiziaria dei romanzi gialli di cui è maestro: in parte perché Aurelia, criminale e detective nella stessa persona, deve ricostruire l’accaduto tramite l’anamnesi emersa con le sedute analitiche del dottor Boni. La nascita dell’amore a senso unico dell’istitutrice per la ragazza (lei, sfinge diafana dotata di un fascinoso riserbo, rimane costantemente enigmatica, e chissà se suo padre non si dedichi simbolicamente all’enigmistica per questo motivo?) è anche fondato sul suo desiderio di ragazza senza madre di poterlo essere per la “bambina” (vale però anche il rovescio, se si identifica con lei) che pur la possiede in Madame, come qui è generalmente chiamata, ma non per sentirsene figlia. Un tempo ebbe infatti modo di confessare alla signorina: «Maman non ama niente di ciò che io amo. Solo alla sua morte potrò essere felice». Del resto, l’automa di Madame (lei si diletta a costruire bambole anche parlanti) canticchiava:

Je te plumerai la tête

et les yeux et le bec

et le dos et les ailes,

Alouette, alouette!

Canzonetta rivolta alla figlia o alla tutrice? Dal diario si sa che in una poupée di Madame Aurelia allucina Marie-Belle stesa su una barella, poi di nuovo libera, mentre si sentono le note:

Now we are one

I’m not afraid

Di cosa si tratta in quest’opera (in cui, come già in La voce della pietra, non mancano i richiami a castelli, mobili, pianoforti, stoffe, abiti, fiori e profumi che rievocano una trascorsa eleganza) si arguisce dalla poetica dell’autore incentrata sul rilkiano e walseriano amore intransitivo o amour de lohn, come nell’occitano Joffré Rudel, principe di Blaia, perché Marie-Belle, pur presente, resta di fatto remota e inafferrabile. Da Il segreto, il lettore non deve quindi attendersi scene erotiche, non per la mancanza di eros (il quale, nel bene e nel mare circola ovunque) ma perché qui Raffo mette in luce il disinteresse di Aurelia e Marie-Belle nei riguardi degli uomini, senza precisare se siano delle gomorrite refoulée: ne allude solo il canzonatorio aiutante di Cherubino, avvinto ai pregiudizi, perché si può respingere la natura senza per forza abitare l’isola, come si diceva ai tempi di Liane de Pougy. La pallida e misteriosa Belle, teutonicamente ordinata, sterile come le eroine di Poe e cultrice della propria bellezza boreale, emana il fascino di una diversità difficilmente interpretabile: giunge da un serto di nubi o nasconde qualcosa di orrendo? I due aspetti sono probabilmente intrecciati. D’altra parte, se Marie-Belle fosse una suora tutta preci, non interesserebbe a Silvio Raffo.

Silvio Aman (continua)

 

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