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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Silvio Raffo

Incontro con il traduttore. Il mestiere del traduttore secondo Silvio Raffo.

18 venerdì Mar 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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EMILY DICKINSON, Natura la più dolce delle madri, Silvio Raffo

 

Vorremmo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo al poeta Silvio Raffo, traduttore dall’inglese in lingua italiana di poetesse anglo–americane, in particolare di Emily Dickinson di cui è il maggiore studioso.

  1. Silvio Raffo, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu, però, sei anche poeta, scrittore, saggista, collabori inoltre a riviste specialistiche di poesia e hai curato le opere di poetesse italiane dimenticate portando a nuova luce Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti, Ada Negri: ci illustri la tua formazione, il percorso, l’evoluzione, la scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua inglese, in particolare la poesia delle poetesse?

Ho iniziato a tradurre poesia per puro diletto, diciamo per amore. Sentivo il bisogno di ricreare in italiano i testi dei miei poeti preferiti per correggere i difetti delle traduzioni che conoscevo, in molti casi aridamente letterali o pomposamente enfatiche (specie per i grandi dell’Ottocento). L’inglese è sempre stata la mia lingua prediletta, una sorta di lingua interiore, come del resto il greco. Il colpo di fulmine si è verificato con Emily Dickinson, di cui a 14 anni lessi sull’antologia To make a prairie it takes a clover and one bee. Fra i 14 e i 17 anni tradussi circa un centinaio di liriche su un quadernetto. Era soprattutto un modo di rimediare alla solitudine. Le altre poetesse sono tutte sue sorelle minori. Sono state sempre delle ‘relazioni’ oltre che delle traduzioni. Amori ultraterreni con amate invisibili. Solo nella maturità, verso i cinquant’anni, ho accolto nel mio harem anche figure maschili: Philip Larkin, Branwell Bronte, Alfred Douglas. Si trattava sempre di soggetti solitari, sradicati, incompresi o, per usare un termine abusato, “diversi”.

  1. Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.

 

Sono convinto che per tradurre bene poesia occorra essere poeti. È proprio l’esprit de finesse che non può mancare, la sintonia profonda di due anime poetiche anche tecnicamente affini. Non potrei mai tradurre autori non melodici o perlomeno caratterizzati da una riconoscibile musicalità. Da Adelphi mi fu proposto Derek Walcott e rifiutai. Quando il traduttore è un poeta, il risultato è una ri-creazione vitale del modello di partenza, cui si mantiene fedele per metri, ritmi e spesso anche rime: traduzione e al tempo stesso opera autonoma, vivente di vita propria. E può talvolta accadere che una traduzione–miracolo, incredibile ma non impossibile, sia poeticamente più convincente dell’originale.

 

  1. Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?

 

È condizione a mio avviso necessaria.

 

  1. Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?

 

Raramente, direi quasi mai, mi sono confrontato con altri traduttori. Solo quando ho lavorato su testi in spagnolo e francese ho tenuto conto di versioni altrui, sempre discostandomene, alla dovuta distanza. Piuttosto ho chiesto consigli nel corso di un lavoro di traduzione a persone della cui autorità mi fidavo, come ad esempio per la Dickinson a Margherita Guidacci.

 

  1. È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?

 

Le parole, si, sono sempre nostre.

 

  1. Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?

 

Come ci insegna la psicolinguistica, disciplina che ho insegnato per anni ai traduttori e interpreti, ogni lingua ha una sua specifica struttura psichica (come un suo specifico effetto fonetico) che non consente calchi. Certo è compito del traduttore trovare combinazioni il più possibile simili a quelle del testo originale. Se Edgar Allan Poe usa fonemi dal suono e dall’effetto lugubri per rendere una determinata situazione psichica, il traduttore dovrà cercare di fare altrettanto nella sua lingua. Se Verlaine nella sua Chanson d’Automne usa i fonemi «sanglots longs», il traduttore preferirà in italiano il vocabolo ‘singulto’ a ‘singhiozzo’ per riprodurre l’effetto della liquidità strangolata.

 

  1. Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico– immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione)

 

Sì, certo, è un gioco di interazione osmotica. Non si può compiere senza una comunicazione intrapsichica.

 

  1. Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?

 

Il talento è qualità indispensabile, condicio sine qua non.

 

  1. Ritieni appropriata anche a te l’espressione del traduttore messicano Hiram Barrios «Costruiamo ponti» da cui si deduce che il traduttore si pone in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti?

 

Sottoscrivo alla lettera: il traduttore è mediatore culturale.

 

Silvio Raffo

 

Biobibliografia

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. Ultime opere: il romanzo Gli angeli della casa, Elliot Edizioni, 2021, la silloge poetica Il taccuino del recluso, Interno Poesia, 2021, la traduzione di una scelta dei “Bollettini dell’Immortalità” di E. Dickinson Natura la più dolce delle madri, Elliot Edizioni, 2021. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019

da  Natura la più dolce delle madri

12

The morns are meeker than they were –

The nuts are getting brown –

The berry’s cheek is plumper –

The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf –

The field a scarlet gown –

Lest I sh’ d be old fashioned

I’ll put a trinket on.

 

 

 

12

Si son fatte più miti le mattine –

son diventate più scure le noci –

e le bacche hanno un viso più rotondo –

la Rosa ha abbandonato la città.

L’Acero indossa una sciarpa più gaia,

e la campagna una gonna scarlatta.

Per non esser fuori moda

indosserò un gioiello.

 

 

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Silvio Raffo: Dieci poesie inedite

04 venerdì Feb 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Silvio Raffo

immagine di Akira Kusaka

 

I

Hanno colpi di fulmine violenti

le anime – ed i corpi fan fatica

a raggiunger le vette iridescenti

da cui lampeggia quella luce antica:

 

sole di un cosmo primigenio, raggi

di cui sentimmo l’intima ferita

quando dell’aspro cappio della vita

non eravamo ancora ignari ostaggi

 

 

II   ~  TWIN SPARKLING LONELINESS

Tu germoglio dall’anima fiorito

della mia notte oscura ardente stella

mio tesoro nel buio custodito

scaglia di solitudine gemella

 

Delle Scienze Celesti il libro arcano

una Coscienza illumina infinita

Pagine alate scorrono le dita

accarezza una stella la mia mano

 

immagine di Akira Kusaka

 

III

All’aura rarefatta dell’oblio

anelavo negli anni immoti e spenti

già dell’infanzia: solamente mio

sentivo il nulla, io non altrimenti

di quanto lo potesse assaporare

un vecchio sazio d’ansie e di tormenti

 

 

IV

Non è come si dice

Non è ignoto l’ignoto

Come non è l’Altrove inaccessibile

E non è vuoto il Vuoto –

Si esprime l’Indicibile

Si varca quel confine

Con lo scatto felice

Dell’acrobata in volo

Il Vero non ha suolo

Su cui devi atterrare

È vasto etereo mare

Ma a tratti lo possiedi

L’invisibile vedi

 

foto di Noell Oszvald

 

V

No, per la morte non siamo

ancora equipaggiati a sufficienza

Della vita fu scarsa l’esperienza

Troppo tardi, ed improvvidi, scopriamo

 

che nulla abbiamo amato di reale

questo è il nostro peccato capitale

 

 

VI

Qualche volta mi chiedo quante volte

sono già morto e poi rinato. Io sempre

sopravvivo a me stesso, alle dissolte

sembianze del mio io nella perenne

vicenda dell’arcana impermanenza

che insiste a permanere, muta assenza

che palpito instancabile divenne

di un cuore della vita innamorato

 

foto Silverwood Lake, California

 

VII

Comunque e dovunque ti chiama

a nuove avventure la vita

rigermina il fiore, ritrovi

la strada che spesso smarrita

credesti. Poiché in sempre nuovi

sembianti ritorna l’antico

amore ad illuderti amico

la stessa inesausta visione

di un’alba di risurrezione

 

 

L’INCONNU

Ignote metamorfosi divine

umane vegetali – transizioni

del mutante immutabile che fine

non conosce, né climi né stagioni

 

Cieche vicissitudini diuturne

che si evolvono – involvono a spirale

E il pensiero, per suo vizio ancestrale,

insiste a decifrarle per ridurne

l’arcana resilienza immemoriale

 

Caspar David Friedrich: The Evening Star 

 

OBLIVION POOL

Al di là della Gioia e del Dolore

s’apre uno spazio vasto, inaspettato

come un livido stagno addormentato

in cui s’annega ogni terrestre ardore

ogni ricordo lieve si discioglie

nell’abisso incantato che l’accoglie

 

 

I SONNAMBULI NOVIZI

Da quando ci accompagna l’infallibile

certezza che la morte ci riguarda,

dall’istante fatale in cui la gelida

carezza ci sfiorò delle sue dita

viviamo il tempo immoto dell’obliqua

stagione declinante al nulla eterno

che il suo volto impietoso ci disvela.

Il nostro passo è quello di un addio

perenne, ma indugiamo a salutare

ogni sguardo ogni nuvola ogni stelo

Stralunati novizi di un calvario

inaspettato, attori di un copione

senza parole sulla vuota scena

ci muoviamo, sonnambuli irretiti

dalla vaga promessa di un risveglio…

L’acqua lenta dilaga sulla piazza

della città deserta. E già fantasmi

ci sentiamo, silenti testimoni

del prodigio dell’Immortalità

 

 

Biobibliografia

 

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. Ultime opere: il romanzo Gli angeli della casa, Elliot Edizioni, 2021, la silloge poetica Il taccuino del recluso, Interno Poesia, 2021. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019.

 

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Silvio Raffo: In voce – 64 poesie lette dall’autore editrice petite plaisance, 2021. Sette poesie e un commento breve.

08 venerdì Ott 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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In voce, Silvio Raffo

 

Silvio Raffo: In voce – 64 poesie lette dall’autore

editrice petite plaisance , 2021

Sette poesie e un commento breve

 

È un florilegio, la scelta delicata e impressiva delle sessantaquattro poesie che formano il corpo di In voce: i due attributi che si riferiscono a ‘scelta’ sembrano contrapporsi, in verità costituiscono il forte intreccio di anima e pensiero che risolve nel verso la visione sapienziale di Silvio Raffo: il poeta, in questa raccolta antologica corredata di un cd in cui è incisa la lettura delle liriche estratte dalle raccolte che vanno dal 1967 al 2019, continua a testimoniare l’inimitabile parola che coniuga il tempo odierno secondo una personale misura metrica che accoglie la sonorità della lirica classica e la restituisce aderente a fini questioni esistenziali, ontologiche, attuali, risolte secondo la cifra dell’inattualità: il lessico non ama le seduzioni della parola inafferrabile, al tempo stesso rifugge dalla banalizzazione dei temi attuali lasciandosi cogliere in un’apparente semplicità versificatoria colma di grazia, un’aura di soavità prossima al mondo eterico, angelico che non allontana, anzi rimarca, le questioni umane, in particolare l’insondabile sorte. Nell’eleganza del verso, in quella sua dichiarazione di intenti che sorge dal sentimento profondo e arcano per la Bellezza inscalfibile  – Sto cercando la splendida parola – Silvio Raffo è aderente al tempo, inevitabilmente dentro il tempo, attraversato dal tempo, ma non travolto dal tempo; è immerso nell’accadere impietoso dell’evento, ma non scalfito dalla circostanza, come se una riza ne proteggesse l’intera figura fisica e simbolica, gli conferisse la lamina salvifica dell’ironia, del disincanto che pure rivela l’altra parte, luminosa, fragile e incorruttibile sul filo aurato dell’incanto.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da I GIORNI DELLE COSE MUTE (1967)

 

Le lacrime d’amore

 

Le lacrime d’amore. E ne farò uno stagno

laggiù sul ponte della nostra strada.

E vi berranno i cani di nessuno

e potrà qualche rondine specchiarvi

il suo volo serale.

Così almeno

serviranno a qualcosa

 

 

Da STANCHEZZA DI MNEMOSYNE  (1983)

 

L’angelo eremita

 

Fin quando mi sarà dato d’avere

quest’aria vaga d’angelo eremita?

Confesso d’aver complice una scaltra

quotidiana cosmesi, ma di certo

non si tratta soltanto dell’aspetto:

m’è naturale un fatuo ondeggiamento,

lo svolazzare aereo delle piume…

Anche quando l’uncino del dolore

mi scarnifica lento in ogni fibra

so che non può raggiungere le ali…

So che rivolerò sempre nel vuoto

vuota sostanza viva senza vita

 

 

Da LAMPI DELLA VISIONE  (1988)

 

Per troppa vastità

Per troppa vastità ci opprime il cielo –

sterminata la sua circonferenza

per il nostro geometrico compasso –

finché, deposti gli strumenti umani,

ci accorgiamo che è lui che ci misura

 

 

Da L’EQUILIBRIO TERRESTRE (1991)

 

Il rito

 

  1. (il corpo)

Questo tronco flessibile dell’anima

m’ha sempre attratto solo come forma

La luce di un riflesso al buio tende

se un lievito divino non l’accende

 

 

Da AL FANTASTICO ABISSO (2011)

 

III. Sto cercando la splendida parola

Sto cercando la splendida parola

la parola tremenda, l’assoluta

quella che l’ultimo giorno non muta,

che brilla sulla pagina da sola

 

 

Da CORPO SEGRETO  (2017)

 

La débacle prochaine

Prossima la catastrofe si annuncia.

Sì, devo prepararmi all’infallibile

débacle d’ogni ambizione, alla rinuncia,

a ciò che parve sempre incompatibile

col mio destino. La degradazione

della bellezza, l’annichilimento

d’ogni energia. Maestro di finzione,

quale maschera reggerà al cimento?

 

 

Da LA FERITA CELESTE  (2019)

 

Nel ricamo della mia vita

Nel ricamo della mia vita

ha gli orli dorati il dolore

Il pugnale che incide la ferita

è l’ala di un celeste Tessitore

 

 

Biobibliografia

Silvio Raffo, poeta, narratore, traduttore e saggista, è docente di Traduzione Letteraria all’Università dell’Insubria di Varese. Le sue ultime raccolte di poesia sono Corpo segreto, LietoColle, 2017; La ferita celeste, La Vita Felice, 2018; Il giovane dolore, Punto a Capo, 2021. È il più fecondo traduttore di poeti e poetesse americane (Emily Dickinson, in primis, nel Meridiano Mondadori). Dal suo romanzo La voce della pietra, Saggiatore, 1996 e Elliot, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. La sua antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto ospita anche autori generalmente dimenticati. Dirige a Varese il Centro di Cultura Creativa “La Piccola Fenice”, attivo dal 1986. Collabora con la RAI e con varie riviste letterarie, fra cui “Poesia” di Nicola Crocetti.

 

 

 

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Silvio Raffo: “Daily Visitor”. Due quartine inedite. Breve nota critica “La maliosa visitatrice quotidiana” di Adriana Gloria Marigo

18 venerdì Giu 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Daily Visitor, Silvio Raffo

The Spring House Hotel: Black Island, Rhode Island, USA

 

 

Silvio Raffo: Daily Visitor

Due quartine inedite

Breve nota critica La maliosa visitatrice quotidiana

 

 

DAILY VISITOR

 

Non sono più il fanciullo che alla Morte

ogni sguardo negava, ogni pensiero

né il giovane poeta cui una sorte

generosa spianava ogni sentiero.

 

Sono l’ospite ostile alle maliose

sue visite alla soglia della mente

ma la sua ombra insiste in insidiose

movenze ad annunciarsi onnipresente.

 

Fotografia anonima

 

In due quartine la visitatrice quotidiana con  «maliose sue visite», «la sua ombra [che] insiste in insidiose movenze» è scaturigine, dal tenebrore di ciò che genera spavento per l’annullamento della vita, della completezza dell’esistenza, dall’insinuarsi di figure fantasmatiche gravate dei segni della soglia estrema – paradossalmente da quello sgomento – della luce di poesia. Accade, in virtù delle immagini “maliose”, “insidiose”, di quel pensiero dominante che attrae e respinge a somiglianza del numinoso perturbante, l’accensione dell’immaginazione attiva il cui esito, nel poeta, è l’invenzione della parola poetica: nasce il verso, nasce la poesia. La poesia, come in ogni nascita, è un ‘venire alla luce’, un accadere della parola nel fine della luce, al fine della luce: si compie, nella radianza della luce che grazia o attribuisce la giusta postura agli elementi animati e inanimati, il riconoscimento della costanza dell’ineluttabile, la compresenza di vita e morte, la cognizione che la rimozione di quest’ultima è una torsione vitalmente dolorosa e, al contempo, si esplicita la metafora di quella dinamica vita – morte – vita che investe la creatività poetica. Sopraggiunge un’età in cui – annullata la negazione della presenza della morte nel duplice piano semantico del verso «Non sono più il fanciullo che alla Morte /ogni sguardo negava» (la negazione dello sguardo è rivolta tanto al soggetto, quanto all’oggetto dello sguardo rivelando in questo che la relazione con la Nera Signora è inevitabile seppure ricacciata, consegnata a intellettualistica impresenza) – si fa presente, salda, dichiarata l’avvertenza della condizione di “ospite ostile”: il solo rango che nel poeta Silvio Raffo può darsi nei confronti del flusso ineludibile, che non manca di mostrarsi sotto spoglie seduttive, onnipresente ombra persecutoria ne «lo gran mar dell’essere». Il sapere derivante è l’esistenza ubiqua dell’insidia, della soglia mentale quale accesso alla dissoluzione dell’essere fisico e spirituale, nonché della necessaria ostilità quale contrafforte dello stato di “ospite”: colui che gode dell’accoglienza per il tempo concesso del beneficio cui segue la separazione, la sospensione dell’idillio e, di nuovo, la mediazione regolata sul lume della circospezione inevitabile, ciclica.

Adriana Gloria Marigo

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Francesco Zevio: Suite dei mondi, Robin Edizioni, 2019. Prefazione di Silvio Raffo: Il mosto puro. Nota critica di Adriana Gloria Marigo.

12 venerdì Giu 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Francesco Zevio, Silvio Raffo

All’inizio dell’autunno 2019 il poeta Silvio Raffo mi fece notare che tra i libri di poesia pubblicati ve n’era uno che portava i tratti indiscutibili di quel carattere di Bellezza che si rintraccia non solo in poesia, ma in altro sapere: si tratta della Bellezza che risponde alla cifra della cultura, dell’Armonia, dell’equilibrio, delle forma, della proporzione, del valore etico e, nel caso della poesia, della misura  alta di versificazione, poiché sottesa e ordita è la qualità ontologica, l’adesione appassionata o totalizzante al pensiero immaginale che consente al dettato del “porto sepolto” la scrittura intensamente incisiva sia negli elementi formali che contenutistici. Non dovetti chiedere di poter leggere Suite dei mondi poiché il poeta di Varese, nell’entusiasmo tipico di quando si trova nell’orizzonte del Bello, mi offrì il libretto dalla copertina commotiva in cui non è difficile percepire l’alleanza tra immanenza e trascendenza: lo sposalizio di titolo e immagine, le parole che si coniugano con le figure e i colori inviano messaggi a livello di intuizione, di immaginazione attiva, così che sorge una sorta di impressiva visione di quanto e quale sarà il contenuto.

L’incipit della prefazione di Silvio Raffo «Sa quasi di miracolo…» è una dichiarazione vera e sacra in quanto Suite dei mondi ci porta al cospetto di una scrittura intramata di rimandi colti, che segue la strada maestra della parola che non piega ad alcuno spleen, ma anzi continua a munirsi di fuoco prometeico e ali provviste di forti remiganti per alzarsi nello spazio del simbolo, della metafora e, in vibrante misura, della rêverie, come in «Nel cielo che più nero/ dell’anima si stende,/ la luna non si vede – né risplende/ su di un futuro in cui non spero.» di Borghetto, poesia tutta percorsa dalla “brillanza luminosa” della fantasticheria. V’è nell’opera di Francesco Zevio posto per la venerazione, o meglio: i testi officiano la restituzione grata dei doni ricevuti (mondi fisici dei luoghi, e metafisici delle presenze aleggianti e misteriose, prossimità che collegano il visibile all’invisibile), il riconoscimento dei forti legami con i padri di pensiero e d’anima senza i quali l’identità autoriale potrebbe risultare diversa, consistere in altra misura: l’Autore ammette che in ogni poeta si celano una o più appartenenze non solo specifiche, relative alla parola della poesia, ma attinenti anche ad altre conoscenze, esprimendo in tal modo che le ascendenze, la disposizione personale ai temi confluiti nei testi, l’afflato con certi autori – compresi i compositori di cui Francesco Zevio dà ragione nel nome ineludibile di Bach della Cello Suite No. 2 in re minore BWV 1008 – discendono sì dalla sensibilità fine, ma si perfezionano mediante la cognizione che individuum est ineffabile: Suite dei mondi dimostra ampiamente che l’Autore realizza la propria ineffabilità mediante modi poetici personalissimi e di cui ha indubbia consapevolezza.

Tutto il corpo di Suite dei mondi – organizzato nelle sezioni Altrove, Suite mediterranea, Idilli e asfalto, Latium, Appendice . Frater Philippus – è percorso da una caleidoscopica immaginazione creativa che lascia il lettore ammirato al dettato del contenuto retto dalla forma che, vigilata da Armonia – come in Aliquis Nympha dove «Nostri gli armonici dell’alba, e nostro/ il tenero morire del meriggio/ alla sua sera», testimonia la strada di una poesia sopraelevata rispetto al canone in uso.

Sorprende, felicemente, in un giovane poeta la chiara consapevolezza del “comporre”, che le Note a piè di pagina di ogni testo esprimono: il talento innato dai bagliori luminescenti è sostenuto dall’affezione per lo studio, per la verità dei classici cui il poeta Zevio rivolge rispetto quale accoglienza e restituzione, poiché in essi egli ravvede la regalità delle matrici che Poesia include nel suo costante essere in fieri, nel concepire che «… miti insepolti/ torneranno a bussare/ alle porte del mondo.»

 

Adriana Gloria Marigo

 

PROVINCIA

 

Fioriscono le rose

dell’elettricità –

dal ferro delle notti

afose di città.

 

Percorro inconsolabile

prati d’asfalto nero –

al corso iroso, instabile

di un unico pensiero.

 

Pensiero dominante

tiranno del mio cuore…

nell’effluvio scostante

d’asfalto, delle spore

 

più in là di gimnosperma

che profumano i giardini

commisti a odore d’erba

rugiada e gelsomini,

 

la Luna non si vede.

La Notte non ha voce.

Trascorre, inconsolato

il fiume alla sua foce.

 

 

BORGHETTO

                                                         Rausche, Fluß, das Tal entlang…

 J. W. Goethe

 

Notte aulente di Giugno –

dal tiglio che ti piange

sino all’acqua, che in accordi si frange

d’inenarrabile notturno.

 

Ti vorrei, silenziosa

per me sola – tra le paghe

cetonie addormentate, e nelle vaghe

stelle dell’Orsa luminosa.

 

Un vento soffia lieve

su foglie lanceolate –

sospira l’alfabeto dell’estate

dolce, che giungerà a breve.

 

Partire… in queste notti

andarsene lontano.

Laggiù è la vera vita, forse il vano

sogno di spiriti incorrotti.

 

Nel cielo che più nero

dell’anima si stende,

la luna non si vede – né risplende

su di un futuro in cui non spero.

 

 

ALIQUIS NYMPHA

 

Nostri gli armonici dell’alba, e nostro

il tenero morire del meriggio

alla sua sera.

 

Nostro l’amore madido dei prati,

dei botton d’oro e i pisacàni a macchia

tra l’erba scura.

 

Non pronunciare il mio nome, se tu

vorrai serbare di me, del ricordo

la vita più vera – tu chiudi gli occhi

e baciami ancora.

 

da Idilli e asfalto

 

III

Tornano a suonare le campane della sera,

come ad annunciare, ancora

la tua morte – non restano che ceneri

ai miei piedi, che un vento da Est aveva disperse,

insepolte… mentre i soliti balocchi

dai colori artificiali

sfrecciano a intervalli più serrati,

fiondati in aria da ambulanti indiani…

e nella piazza che il freddo, a poco a poco

fa tacere, resta ancora leggibile:

                                                                  “A Bruno, il secolo

                                                                   da lui divinato…”

e del tuo simulacro

severo di dolore e di coraggio,

lo sguardo, il volto nascosto tra l’ombre

rimane incomprensibile.

 

da Appendice, Frater Philippus

 

 

Biobibliografia

 

Francesco Zevio è nato a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, nel 1992. Ha studiato a Padova (lettere moderne) e a Roma (Accademia Vivarium Novum), in Francia (Aix-Marseille Université) e in Germania (Universität Augsburg). Ha pubblicato la raccolta di versi Suite dei mondi (Robin Edizioni, 2019) e il libro Latino in cinque minuti (Gribaudo, 2019). Con il pianista e compositore Jozef F. Pjetri ha dato vita a Cultura in Atto, associazione culturale con sede a Padova [https://www.culturainatto.com/]. È inoltre cofondatore della compagnia di poesia, pantomima e musica Mime en Mi Mineur, attiva in tutta Europa [https://mimeenmimineur.webnode.com/]. Oltre che con Cultura in Atto, ha esordito con Ritorno a Capo, collabora con la rivista Pangea, con Parentesi storiche e con il giornale online Ilsoleitaliano di Monaco di Baviera. Cerca di vivere secondo l’omerico «di molti uomini vide le città e conobbe le menti»; trova che tutto sia magnificamente riassunto ed espresso nell’epitaffio che Stendhal immaginò per sé stesso, recitante: «visse, amò, scrisse.»

 

 

 

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Nota critica di Luciano Domenighini alle quartine inedite da “Il taccuino del recluso” di Silvio Raffo

15 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Tag

Il taccuino del recluso o La veglia del novizio, Luciano Domenighini, Silvio Raffo

Color Study, Squares with Concentric Circles, Vasilij Kandinskij,1913

 

Quindici quartine di endecasillabi a rime alternate o incrociate, epigrafiche e lapidarie, filosofiche e sentenziose, costituiscono questo breve poemetto in cui Silvio Raffo, in brevi strofe rimate, alla maniera dei cantastorie,  riassume, ricapitola e giudica la sua fabula di uomo e di poeta. Come l’autore stesso suggerisce nell’esergo della quartina di preludio, si tratta di una meditatio in limine vitae, se non proprio di un redde rationem in mortis examine. Ripetuti sono i riferimenti al trapasso (Fine, Eterno, Morte).

Ma è una “contemplazione della morte” inedita, sorprendente, disinnescata della sua carica tragica. Simili meditazioni intimistiche, ricapitolative e giudicanti, hanno d’abitudine un tono austero, sentenzioso, una vocazione oracolare e una forte valenza patetica, spesso angosciante quando non disperata.

Qui invece si respira un’aria serena, pacificata, eufemizzante, come redenta: il colore è chiaro e soffuso, il tono mansueto e pago. La saggezza del presente ammanta il passato di un velo assolutorio e in luogo degli angosciosi presagi di un’apocalisse incombente compaiono le rivelazioni e la grazia di un’epifania, i segnali di una rigenerazione.

 

XXI

Moltiplicare i giorni dell’attesa

nella certezza di un’estrema festa.

Eterno si fa il tempo, e l’ardua impresa

si fa leggera. Gioia pura è questa.

 

Emendato il presente dal giogo delle passioni e dalle lusinghe della speranza che avevano travagliato il passato, l’animo è pronto alla rinascita:

 

XXIV

Esaurito ogni palpito, ogni afflato

deposta ogni speranza che ci affanni,

non c’è minaccia di futuri inganni.

Ed è come se nulla fosse stato.

 

Anche il linguaggio poetico si conforma alla ritrovata serenità di questo clima interiore. É un linguaggio piano, ancorché qua e là ricercato nel lessico e nella sintassi (vedasi ad esempio l’iperbato «Del Minotauro immagino la stanza/di pareti fasciata ultrasonore-/…», o anche l’apertura della IX quartina: «Si congela il rigore dell’inverno/in vitrea sospensione adamantina./…», dal contenuto metaforico sobrio e accessibile; un linguaggio nitido ed efficace, ora pregiato ora contiguo al parlare corrente ed echeggiante talora quello di certi rimatori crepuscolari.

L’alternanza dei modi e dei tempi verbali rendono vivido e mobile questo diario interiore, per altro vario nell’eloquenza, frammentario nell’andamento (la progressione delle strofe, segnate in numeri romani, è lacunosa) e disorganico nella struttura e tuttavia calato in un solo colore poetico e reso omogeneo da un unico, intenso afflato ispirativo. Molte strofe sono all’indicativo presente singolare, in prima persona o in seconda retorica, e, in un’iperpercettività visionaria, registrano l’hic et nunc  del momento ispirativo.

Due, di taglio precettivo, sono in imperativo di seconda singolare.

 

XIX

Impara la sacralità del rito,

del ritmo che scandisce la giornata,

della luce deserta inanimata

nel fluire di un tempo ormai impietrito.

 

 

XXVII

Tu serbali preziosi nel ricordo

Questi giorni d’amianto e d’ametista

In cui fra Cielo e Terra un mutuo accordo

Fu stabilito-fulgida conquista.

 

La nona strofe, ode alla magia metafisica e trascendente dell’inverno, ragguardevole per la pregiata fattura e la forza icastica del secondo verso, ha un respiro corale, universale e all’ “io” subentra il “noi”:

 

IX

Si congela il rigore dell’inverno

In vitrea sospensione adamantina.

Nel silenzio incantato ci avvicina

Il costante contatto con l’Eterno.

 

 

Sentenziose e motteggianti sono le strofe XV e XVII

XV

Trasumanare è l’unica avventura-

Annullare del corpo ogni barriera-

Del tempo valicare la frontiera.

Questa è dell’infinito la misura.

 

XVII

“O tu uccidi l’insidia o lei t’uccide”

Ma con l’odioso invisibile tarlo

può saggia strategia sempre ignorarlo.

Il male annienta solo chi lo vide.

 

 

La scena della strofe tredicesima è una visione tutta mitologica.

 

XIII

Del Minotauro immagino la stanza

di pareti fasciata ultrasonore-

Arianna il filo tende, alla distanza

Teseo avanza nel fitto tenebrore.

 

 

Una sola quartina, la settima, in prima persona di imperfetto e gravida di metafore, è retrospettiva, e riassume una vita passata incostante, elusiva, dispersiva e fuggitiva:

 

VII

Ondivago e fedele ad ogni riva

sul capriccioso vortice eludevo

ogni approdo; gioiosa e fuggitiva

al largo la mia rotta disperdevo.

 

Nell’ordinamento metrico, dove comunque obbligata è la tonica in decima su parola piana, si riscontrano varie soluzioni ritmiche dell’endecasillabo e si ravvisa altresì qualche sporadico inciampo, specie in alcuni endecasillabi di fine strofa. Deroghe queste certamente volute, a mo’ di vezzo, forse, per dare un tocco informale, antiaccademico e “naif”, all’eloquio poetico oltre che, verosimilmente, per tutelare la comprensibilità del dettato. La strofe di congedo, virgiliana, richiama un memorabile passo del IV libro delle Georgiche:

 

XXIX

Così i morti non muoiono, e la vita

Non è quel soffio che si fa respiro.

In un vortice solo, in cieco giro,

Un flusso ininterrotto s’infinita.

 

“His quidam signis atque haec exempla secuti
esse apibus partem divinae mentis et haustus
aetherios dixere; deum namque ire per omnes
terrasque tractusque maris caelumque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum,
quemque sibi tenues nascentem arcessere vitas;
scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri
omnia nec morti esse locum, sed viva volare
sideris in numerum atque alto succedere caelo.

 

(Virgilio, Georgiche, IV 219-227)

 

“In base a questi segni e osservando il loro comportamento

qualcuno ritiene che nelle api vi sia una parte della mente divina

e un’origine celeste: perché il dio penetra in ogni cosa,

nelle terre, sopra le distese marine, dentro il cielo profondo;

e greggi, armenti, uomini e tutti gli animali, nascendo,

dal dio attingono la loro effimera vita;

poi, dissolti i corpi, al dio ritornano e a lui si rimettono,

né esiste per loro un luogo di morte,

ma vivi volano alle stelle ed entrano nell’immensità del cielo.”

 

Insieme ricapitolazione e confessione, profezia e sentenza, questa breve raccolta di strofe in rima, a un tempo testimonianza e lascito, è come percorsa da una fede tutelare, da uno spirito di speranza, benevolo e conciliante.

Leggere questi versi fa bene all’anima.

Luciano Domenighini

 

Biobibliografia di Luciano Domenighini

 

Luciano Domenighini è nato a Malegno (BS) nel 1952. Ottenuta la Maturità Classica si è laureato in Medicina e ha svolto la professione medica quale medico di Medicina Generale, attività che svolge tuttora. Negli anni universitari, a Parma, presso una radio locale ha condotto per quattro anni una rubrica radiofonica di musica operistica. Come poeta ha pubblicato tre raccolte di poesie: Liriche Esemplari (2004), Le belle lettere (2017), Il giardino dei semplici (2019); come critico letterario, l’antologia di profili critici di poeti emergenti La lampada di Aladino, (2014) e infine, in veste di traduttore, due raccolte di traduzioni dal francese: Petite Anthologie, (2015), Saggio di traduzione, (2016) e due dal latino Poemi didascalici latini, (2017) e Poeti satirici latini, (2019). Attualmente ha in preparazione una nuova silloge poetica e una raccolta di traduzioni dal greco.

 

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Studio di Silvio Aman su “Canti della clausura e del deserto” – poemetto in quindici stanze, inediti di Silvio Raffo

08 venerdì Mag 2020

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Canti della clausura e del deserto, Silvio Aman, Silvio Raffo

There is a strenght in proving that it can be borne

Although it tear –

What are the sinews of such cordage for

Except to bear

The ship might be of satin had it not to fight –

To walk on seas requires cedar Feet

 

Il senso della forza è nel provare

che a ciò che ti distrugge puoi resistere –

a che servono i nervi di una fune

come la tua, se non per sopportare –

Fosse la nave di raso, non occorrerebbe lottare –

Per camminar su mari ci vogliono piedi di cedro

 

(Emily Dickinson)

 

A me che al chiaro tendo

nuvola tenebrosa

insiste il firmamento

a consacrare sposa

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

*

cammino (solo in sogno)

per certe bianche strade

dove i passi non toccano il selciato

 

in verità dimoro

entro murate stanze

il cui ingresso da Gorgoni è vegliato

 

*

pietra di sogno

inarca il mio recinto

filtra da crepe

il canto del deserto

penso talvolta al mio chiuso dolore

come a un prisma di ghiaccio levigato

trasparente prigione –

dall’esterno

invisibile vedo mani tese

tastare la parete, puntellare

la rocca inespugnabile in eterno

*

Fende le nubi il mio pugnale azzurro

depredando le case ampie del cielo

 

ma sotto a quelle sfere, ad onde, a flussi

e riflussi di torbide correnti

che assalti di scirocchi e di libecci

che bufere d’oblio fosforescenti

 

le sere che placarsi sembra il vento

dal tumido furore che deborda,

mutarsi in carezzevole elemento

che fiamma o fumo tetro non ammorba

 

un gelo cala sulle buie rive

del mio orizzonte, livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

le notti sono inferni di tregenda

distillate da un’orrida fucina,

visceri d’astri aggrovigliate serpi

che dilania un falcone da rapina

 

e ho conosciuto un’alba di corallo

rossa come una lingua che lambiva

su un morto fiume, fulgido sciacallo,

brandelli del mio corpo alla deriva

 

*

è la Memoria un lungo corridoio

con le pareti foderate a specchi,

privo di pavimento –

ai due lati un abisso, lo strapiombo –

io cammino a ritroso sulla fune

tesa da un’inflessibile Distanza

per chissà quale orrendo esperimento

 

*

a volte un volto occhieggia nella notte,

una forma tra umana ed animale –

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo,

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benchè lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

*

ho la nebbia negli occhi

i nervi a pezzi

fiacche, piagate membra

si sfaldano le ossa –

nella buia visione

mi sorridono vermi da una fossa

 

 

*

m’è divenuto familiare il canto

che lieve ascolto a tratti risalire

dalla piatta distesa che circonda

le mura della torre – come voce

che dalle aggrovigliate ondose spire

della sabbia il tormento voglia dire

al condannato fisso alla sua croce

 

*

“prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena”

 

*

“anche se qualche inganno ti sedusse

di quando in quando, tu non distogliesti

lo sguardo mai dalle tue stelle fisse

 

a ciò non fosti il solo, altri patimmo

gli stessi inganni, e tutto il tuo martirio –

nella sabbia la pena seppellimmo

per attutire l’urla del delirio

 

accecati da un sole mercenario

abbiamo trascinato questa vita

di giorno in giorno, al vaglio della pena

a denti stretti. Meglio se desista

il tempo dal suo futile cimento,

meglio la sosta ai limiti d’Altrove

dove la luce sfumi nel riverbero

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto”

 

*

m’addestra il canto a sopportar la croce

poi che verrà – già il duro abbraccio sento

ed il suo antico peso riconosco –

in un vivido lampo mi rammento

che mi s’era promesso da bambino

nascosta agli occhi, con tarlata voce,

quando m’ero smarrito in quel giardino

*

crocifissione, palma del martirio –

la mano bianca dell’impalatore

consacra il corpo all’ultimo sigillo –

ma il suo volto è velato dal pudore

 

non lo vedrò: sarà come per l’angelo

che mi bendò quando mi benedisse

 

ma dai modi gentili fu tradito –

in lui mi riconobbi, e fui punito

 

*

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

(1989)

 

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,

l’Enfant déshérité s’enivre de soleil,

Et dans tout ce qu’il voit et dans tout ce qu’il mange

Retrouve l’ambroisie et le nectar vermeil.

 

Il Joue avec le vent, cause aver le nuage,

Et s’enivre en chantanto de chemin de la croix;

Et l’Esprit qui le suit dans son pèlerinage

Pleur de le voir gai comme un oiseau des bois.

 

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte,

Ou bien, s’enhardissant de sa tranquillité,

Cherchent à qui saura lui tirer une plainte,

Et font sur lui l’essai de leur férocité.

C. Baudelaire, Bénédiction

 

Il Poemetto (1989) cui presiede nel posto d’onore Emily Dickinson, si avvicina alla forma prosodica del discordo perché, sebbene vi prevalga la quartina, presenta una discreta eterostrofia. Questa forma, in un poeta conosciuto per il suo classicismo e la capacità di scrivere versi impeccabili, è tuttavia motivata dall’aspetto desultorio e spesso drammaticamente teso della composizione.

Per ciò che riguarda il titolo principale, esso assume un diverso valore riguardo al recente Il taccuino del recluso per il fatto di non dipendere da una costrizione oggettiva (il divieto di abbandonare la propria casa per non essere contaminato dal virus) bensì psicologica e, per estensione, esistenziale.

Il senso della forza, esemplato da Emily Dickinson, consiste nel provare che si può resistere agli effetti distruttivi, procurandosi «i nervi di una fune» e i «piedi di cedro» cioè lo scafo per camminare sull’onda marina, sennonché Silvio Raffo lascia trapelare una direzione opposta con evidenti caratteri platonico-cristiani per il riferimento al Calvario, alla passione, alla croce e, di conseguenza, al librarsi dell’anima dal sudario:

 

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

La passione, che qui non è intesa nei comuni termini affettivi, appare il compimento della salita al Golgota come preludio alla liberazione dal corpo: proprio per questo, l’uncino al suo servizio è definito «pietoso».

Calvario potrebbe essere inteso in termini metaforici, come quando si dice “che calvario!” ma alcuni riferimenti nei Canti e in poesie di altre raccolte, lo determinano come situazione permanente. Occorre, tuttavia, vedere come.

Ciò che qui si nota, è il contrasto fra tendenza alla luce (cui Raffo, anche per la sua figura e le sue esposizioni pubbliche, pare davvero votato) e la «nuvola tenebrosa» contrasto seguito dalle altre figure opposte dell’idrico e del gelidamente litico. Flusso, dunque, ma gocciolante da un cuore che si è trasformato in dolente alambicco:

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

La prima di queste quartine echeggia a rovescio e da lontano i distici iniziali che d’Annunzio dedicò alla celebre villa progettata da Pirro Ligorio per il cardinale Ippolito d’Este, non senza la suggestione da Jeux d’eau à Villa d’Este dell’abate Liszt (quante gocce si sentono in questa musica!) che il poeta aveva avuto modo di ascoltare da giovinetto proprio in quella villa in una notte di plenilunio, sennonché in Raffo il «pianto» come spirito canoro del Pescarese

 

(Quale tremor profondo la pace degli alberi, o Muse,

agita e alle richiuse urne apre il sen profondo?

 

Chi, dentro gli àlvei muti svegliando gli spirti del canto,

leva sì largo pianto d’organi e di liuti?)

 

assume i timbri della Musa dolente:

 

“… dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente del nostro canto”.

 

Così intonano i fantasmi, cioè i simili, dal deserto. A questo punto sorge la domanda: si tratta della ninfa o della sirena? Nella mitologia certe ninfe subiscono la metamorfosi salvifica che le trasforma in fonti e fiumi, elemento libero, inafferrabile e canoro, mentre qui essa parrebbe assimilarsi alla dolente sirena in cerca del contatto umano, e proprio per questo il suo canto è anche quello del pianto, con rima vagamente paronomastica, ma non antonimica, perché il primo può ben nascere dal secondo. Anche d’Annunzio nomina il pianto con una tonalità tuttavia diversa, perché quello delle fonti richiama ambivalenti sonorità: un continuo oscillare – nel suo chiocciolio – fra la dimenticanza e il melanconico ricordo di ciò che la ninfa era, ma sempre fluido e vitale. Non bisognerebbe inoltre escludere il carattere erotico della ninfa (assieme alla nomenclatura riferita agli orli della matrice: le ninfe) che Raffo sterilizza e addolora nel canto ostruito dal «germoglio di pietra» “vegetale” ma sterile, come lo sono le stalattiti formate nel buio dal lento “goccia a goccia”.

Silvio Raffo non soffre certo di aridità poetiche, anzi le sue composizioni sgorgano con sorprendente generosità e ricchezza d’immagini musicali spesso positive, mentre qui la sua incantevole voce, anziché scorrere abbeverando, s’intreccia e congela nella figura “litovegetale”. A questo proposito, mi sembra che anche nei versi onomatopeici «… dalla sete/ odo catene gemere» “sete” possa richiamare, per inconscia analogia, gli acquatici fruscii della seta-satin presenti nella poesia dickinsoniana in opposizione al gemere, cioè della pressione intimamente inibita. Certo al posto del flusso vitale abbiamo il doloroso gocciolio dai «meati» che in tal caso assume maggiore intensità, sebbene non lo accolga la preziosa coppa della poesia, come si legge in un altro libro, ma il graal del crocefisso.

Dopo la terza stanza, si presenta una cesura nel flusso ideativo, sia pure alleviata da una specie di assonanza con vaga funzione di coordinamento ritmico di pianto: selciato parzialmente assonanti, e da questo punto in poi il poemetto offre una serie di elementi che dilatano il motivo della quartina successiva alla poesia di Emily Dickinson: «A me che al chiaro tendo/ nuvola tenebrosa/ insiste il firmamento/ a consacrare sposa».

Raffo ha già nominato questo matrimonio in Annuncio di nozze: «Io/ e Madamigella Poesia/ ci siamo sposati/ stasera/ alla Casina Valadier». Ora però la fiabesca ironia di Annuncio scompare e il percorso assume un tono drammatico, sicché, dalla terzina spettrale in cui il poeta sogna di camminare «per certe bianche strade/ dove i passi non toccano il selciato» (bianco con una probabile connotazione funebre) segue un capovolgimento: «in verità dimoro/ entro murate stanze/ il cui ingresso da Gorgoni è vegliato».

Dalla «pietra di sogno» di cui la torre è formata, filtra però (non si sa se davvero consolatorio) il canto del deserto, il sabbioso “responsorio” affratellante e incitativo da parte degli altri condannati, i fantasmi ora sepolti laggiù, extra muros.

Il poemetto si muove insomma nei modi della rapsodia attorno ai centri gelo e condanna, tutti inquilini di una torre inespugnabile, i quali non presentano più i risarcimenti del prezioso elisir distillato dal dolore, tanto che al pugnale azzurro che fende le nubi «depredando le case ampie del cielo» (l’immagine potrebbe richiamare il Nimrod di Enigma Variations di Edward Elgar) segue la distillazione di «un’orrida fucina».

E la memoria? Essa è un corridoio di specchi fra due abissi in cui il funambolo, con rischio raddoppiato, cammina a ritroso su una fune significativamente «tesa da un’inflessibile Distanza» perciò senza produrre alcuna effettiva avanzata, e di questo c’è semmai da rallegrarsi, perché le poesie di Raffo, circolarmente musicali, non rovistano nella spazzatura della memoria volontaria. Come l’acqua che forma le stalattiti si congela nel calcare con cui forma una selva a rovescio – e nel tempo la sua omonima in crescita dalle stalagmiti – essa potrebbe attendere questa congiunzione… al fine di ricostruire una storia personale? Direi di no: semmai per cancellarla nelle acque materne.

La fune, presente nella poesia della Dickinson come immagine di forza, rappresenta dunque di nuovo un rovescio, trasformandosi in quella del «claustrato funambolo cantore» la cui polarità è astrale e lontanissima dalla tregua proposta dalla forma «tra umana e animale», e lo stesso moto contrario, per usare una figura presente in musica, è attivo nella lama che non fende più i cieli per sgominarne le case, ma l’«antartico splendore»:

 

… livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

Figura retrovolta? No, perché il funambolo, nel retrocedere, si allontana dal futuro senza nulla vedere del passato.

Nell’ottava stanza, il poeta nomina la lusinga proposta da «una forma tra umana ed animale» che

 

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benché lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

liberazione offerta invece dal Calvario, come evidenziano i tre versi finali dei Canti. Del resto, nella dodicesima stanza si trova (come voce dal deserto dei compagni di sventura): «“anche se qualche inganno ti sedusse/ di quando in quando, tu non distoglieresti/ lo sguardo mai dalla tue stelle fisse”».

Rileggendo le poesie di Raffo, non ci vorrebbe molto a identificare la forma dal doppio attributo: è quella della persona comune, lontana dalla poesia e dall’anelito che spinge il poeta platonico a vedersi rinchiuso nella torre come i contratti prigioni michelangioleschi lo erano nel marmo.

Riguardo alla luce cui il poeta tende, nella dodicesima stanza, appare la precisazione:

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto

 

Non si tratta, perciò, della luce in cui appare il mondo fenomenico, altrimenti il poeta non nominerebbe il «ragnatelo» ma di quella mirifica e stillante del canto-pianto. All’acqua come metafora del flusso poetico si associa insomma la luce «liquescente» per il fatto di presentarsi come portatrice del miraggio, cioè della stessa ispirazione del poeta rinchiuso nella torre e addestrato dal canto «a sopportar la croce». Da solo? No, perché, come ricordato sopra «dalla piatta distesa che circonda le mura della torre» il poeta ascolta risalire a tratti il canto-esortazione dei compagni di pena:

 

prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena

 

cioè con le miriadi dei simili «accecati da un sole mercenario» che offre «la tregua a basso prezzo» per cui, tornando all’acqua e al riverbero, lungi dalla fissità della luce naturale, i condannati agognano i sembianti, sebbene illusori («qui la luce è miraggio liquescente») qualcosa d’indiretto e sublimato nella poesia… e questa, almeno nel Nostro, è più lunare che solare. D’altra parte, la rivelazione di certe sfumature d’immagine e pensiero, avviene con l’ausilio delle penombre poetiche e i loro riflessi, non nella luce naturale.

Nella terzultima e penultima stanza, dove Raffo diventa enigmatico, è nominata la croce promessa al bambino smarrito «in quel giardino» che si suppone sia l’Eden per la presenza dell’angelo non sottoposto alla natura, e costui sa di non doversi far riconoscere, così come l’impalatore pudico (con un passaggio non meno cruento e impudico alla crux simplex) non sarà visto dal martire, perché il martirio, benché promesso, rimane incognito fino alla sua rivelazione (sarà stato, usando il futuro anteriore) ma anche duplice: intreccio di pianto e canto, senza soluzione di continuità.

La precoce condanna dipende dal fatto che il bambino riconosce se stesso nell’angelo, cioè – per riprendere la precisazione – in chi non ha «forma tra umana e animale». Quest’ultima, nell’Eden, è sottoposta alle lusinghe del Tentatore, secondo la plausibile interpretazione di Beverland (in Il peccato di Adamo ed Eva) mentre il poeta persegue il suo «gioco innaturale» al fine di ottenere dal proprio alambicco i profumi della poesia ai quali il corpo recluso si ribella con le sofferenze ben note a Santa Teresa d’Avila, che nella sua lotta contro il demonio, alias il sole mondano e «mercenario» confessa appunto le pene perpetrate dall’«orrida fucina» perché resistere alla natura comporta il raddoppio dello strazio.

 

Silvio Aman

 

Bibliografia 

 

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Quattordici quartine inedite da “Il taccuino del recluso o La veglia del novizio” di Silvio Raffo, 2020

17 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il taccuino del recluso o La veglia del novizio, Silvio Raffo

 

 

da un presente infinito con qualche scaglia di confuso passato

 

in limine

Il mio taccuino ha i bordi levigati

come il libello di Catullo netti.

Con cura annoto i versi appena nati

sulla pagina, belli e benedetti.

 

I

Come novizio nell’angusta cella

ogni gesto misuro, ogni respiro.

A tratti sogno, spasimo, deliro.

Scelgo in cielo la più remota stella.

 

II

Dell’inerzia la fredda disciplina

ottunde la memoria ma rinsalda

le sfibrate pareti della falda,

fa più acuta la vista, e i sensi affina.

 

III

Il tempo si è sospeso al suo confine

e più non si affatica a tormentarci.

La clessidra ha deposto. Ma la Fine

non vuole indifferenti sopraffarci.

 

VII

Ondivago e fedele ad ogni riva

sul capriccioso vortice eludevo

ogni approdo; gioiosa e fuggitiva

al largo la mia rotta disperdevo.

 

IX

Si congela il rigore dell’inverno

in vitrea sospensione adamantina.

Nel silenzio incantato ci avvicina

il costante contatto con l’Eterno.

 

XI

Ben chiuse e sigillate le tue porte

che alla speranza sbarrano ogni ingresso –

Reame ti sei fatto di te stesso.

La clausura del cuore è pura Morte.

 

XIII

Del Minotauro immagino la stanza

di pareti fasciata ultrasonore –

Arianna il filo tende, alla distanza

Tèseo avanza nel fitto tenebrore.

 

XV

Trasumanare è l’unica avventura –

annullare del corpo ogni barriera –

del tempo valicare la frontiera .

Questa è dell’Infinito la misura.

 

XVII

“O tu uccidi l’insidia o lei t’uccide”

Ma con l’odioso invisibile tarlo

più saggia strategia sempre ignorarlo.

Il male annienta solo chi lo vide.

 

XIX

Impara la sacralità del rito,

del ritmo che scandisce la giornata,

della luce deserta inanimata

nel fluire di un tempo ormai impietrito.

 

XXI

Moltiplicare i giorni dell’attesa

nella certezza di un’estrema festa.

Eterno si fa il tempo, e l’ardua impresa

si fa leggera. Gioia pura è questa.

 

XXIV

Esaurito ogni palpito, ogni afflato

deposta ogni speranza che ci affanni,

non c’è minaccia di futuri inganni.

Ed è come se nulla fosse stato.

 

XXVII

Tu serbali preziosi nel ricordo

Questi giorni d’amianto e d’ametista

In cui fra Cielo e Terra un mutuo accordo

Fu stabilito – fulgida conquista.

 

XXIX

Così i morti non muoiono, e la vita

Non è quel soffio che si fa respiro.

In un vortice solo, in cieco giro,

Un flusso ininterrotto s’infinita.

 

Bibliografia di Silvio Raffo

 

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di undici romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana.

Ultime opere: il romanzo Il segreto di Marie-Belle, Elliot Edizioni, 2019 e la silloge poetica La ferita celeste, La Vita Felice, 2019. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (II parte)

10 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

(Continua da I parte)

Il romanzo, ben costruito (l’Autore è uno specialista nel trattare le suspanses) è interamente imperniato su una forma di devozione possessiva – e in alcuni momenti fomite di angoscia – ma casta. Solo un romanzo? La sua forma diaristica, sia pure prodotta da una folle, dice qualcosa di più di un’anamnesi richiesta dallo psicanalista per scopi terapeutici, perché il «servizio d’amore» di Aurelia, benché riguardi la cura dei malati (il proprio padre, l’avvocato, la depressa Madame e Belle) tradisce una derivazione trobadorica, assimilandosi a quello dei cavalieri medioevali per la loro dama. Il riferimento ai castelli e le figure stilizzate del romanzo potrebbero, in fondo, suggerirlo. La differenza sta nel fatto che qui a servire sia una donna. Siccome Aurelia desidera avvincere Marie-Belle secondo la nota formula del “per sempre” e deve perciò aggirare le insidie, sia pure immaginarie, che gli altri le preparano, la sua posizione si trova agli antipodi di quella esposta nell’Axël di Auguste de Villier de L’Isle-Adam. Qua, il margravio Axël d’Auërsperg convince la principessa Ève Sara Emmanuèle de Maupers a vivere il loro amore una sola volta, per poi bere il veleno (non a caso nei sotterranei del castello colmi di tombe) quindi senza il rischio di corroderlo con la durata. Del resto, le vicende di Piramo e Tisbe, Romeo e Giulietta e tante altre, a ben vedere sembrano fatte apposta per escludere l’aspetto “amministrativo” della vita a due: certi innamorati, romanticamente assolutisti, muoiono prima di vivere “felici e contenti” forse perché, come Axël con Sara e tant’altri, non reggerebbero al futuro e inevitabile defalco della felicità o la ritengono troppo misurata per accettarla. Certe coppie di Flaubert, Fromentin, o anche i due amanti di Le diable au corps di Radiguet, spenta la fiamma d’amore, non sono neanche “felici e contenti”.

Malgrado il timore di perderla, Aurelia – come abbiamo visto – favorisce la sua pupilla, trovandole la possibilità di entrare nel mondo del cinema attraverso il produttore Max Cherubino che disperatamente se ne invaghirà, iniziandola all’uso della cocaina. Da questo punto in poi, cioè fra le prove sul set in Francia (fissandosi sulla Butte, in cui più tardi troveremo la villa dell’infelice Dalida) e nel Regno Unito, la governante torna a seguire a ogni passo la sua “bambina” come persevera a definirla (sarà la sua sarta e truccatrice) che da parte sua – dopo un drammatico scontro – finisce però col respingerla…

“Max è un povero infelice anche lui, come me, ma dice di amarmi, dice che l’amore potrebbe salvare lui e me… Patetico, vero?”

“Da cosa potresti essere salvata, Belle?”

“Dai fantasmi dei ricordi… Da me stessa… Da me stessa, e da te”.

“Quello che stai dicendo è assurdo”.

“Oh certo, assurdo e vergognoso. Non sono più irreprensibile, vero?… Ma nemmeno tu lo sei”.

Il motivo di un simile atteggiamento è possibile scoprirlo solo al termine del romanzo, e ad ogni modo noi possiamo essere eventualmente salvati da circostanze esterne, ma non da noi stessi. Tutto si svolge così (in un tragitto costellato di catastrofi: la morte di Cherubino, quella di Madame, del padre e del fratellastro di Marie-Belle) fino al giorno in cui le allucinazioni di Aurelia diventano insopportabili e subisce il ricovero in Villa Sorriso. Questi accadimenti psichici come figure del senso di colpa, iniziano da lontano tramite segni inquietanti e premonitori in rapporto al desiderio della donna di proteggere la sua pupilla dal male, per poi rafforzarsi dando luogo a sogni angosciosi. La ragione di simili angosce dipende dal fatto che Aurelia, col suo delirio, si vede costretta a compiere dei delitti, le cui scene tornano per via onirica, ad esempio quando a bordo della Morgan di Werner si sente precipitare nel lago, o vede nella persona che ha di fronte sul treno lo stesso chauffeur trasformato nell’orrenda figura del persecutore, cioè del sospettato amante di Belle, il quale, in un’altra visione allucinatoria, pronuncia la verità per lei inaccettabile, che la ragazza sa salvarsi da sola – e qui uno psicanalista avrebbe qualche motivo di cogliere in lei la gelosia dell’omosessuale. Ma le cose si complicano, perché allucinando in un’altra scena la sua pupilla morta nel disastro da lei causato all’autista, rivela il desiderio di desiderarne la fine. L’enunciato, se l’ipotesi regge, sarebbe dunque il seguente: “Tu non amerai nessuno al di fuori di me, noi moriremo assieme”… e questo accadrà alla fine del romanzo. Aurelia, assecondando il proprio delirio d’interpretazione, intende i segni che via via trova nella realtà come manifestazioni del fato, cioè in termini di annunci e corrispondenze secondo i meccanismi della magia studiati da Frazer e altri studiosi del fenomeno, anziché figure del proprio desiderio. Non per nulla Raffo introduce nel romanzo lo psicanalista (o di uno psichiatra?) dottor Boni. Ciò per dire che l’idea del fato su cui s’imperniano altri racconti dell’autore in base alla logica del romanzo di destino (tutto è già scritto, e la conoscenza ne rileva via via solo il processo) è qui in parte accolta e in parte relativamente modificata proprio per l’intervento del terapeuta… ma l’analisi deve farla il paziente, e se Aurelia riesce a ritessere il filo della sua truce avventura, le cose non vanno allo stesso modo per l’articolazione dei suoi fantasmi e il suo desiderio: a vincere è insomma il fato in cui crede. Possiamo asserire che la governante agisca in modo inconscio? Si e no. Probabilmente sì, laddove è vittima dei segni fatali, ma non di ciò che tenacemente persegue come parte del gioco, cioè la conquista del proprio idolo. Aurelia, ormai vecchia, reclusa e irriconoscibile, dopo aver eliminato quattro persone per creare il vuoto attorno a Marie-Belle, non rinuncia al progetto di legarla per sempre alla propria esistenza, e questo avviene tramite il mite Honoré, giardiniere vietnamita con il culto della medicina galenica. Prevedendo l’incontro con la “bambina” ormai invecchiata e che, pur a conoscenza del segreto, porta ancora il ciondolo del terzo occhio (a protezione di cosa, se non del malefico desiderio della “celeste” signorina, così definita dal regista del film?) la donna ha accantonato le cialde a base di Dathura Stramonium, una solanacea, e come tale tossica, che Honoré (vittima inconsapevole della catastrofe) le portava per fini curativi, e con queste prepara “la torta dell’immortalità” (così battezzata da Belle e Honoré) per consumarla con Marie-Belle. Il sigillo, la torta “al veleno” – ecco l’affascinante idea di Raffo! – era già fatalmente preordinato a unire per sempre le due vite. Come mai, dopo tanti anni, le due donne, incontrandosi, cadono l’una nelle braccia dell’altra come se nulla di grave fosse successo? Forse perché l’ex graziosa attrice, rassegnandosi al fato («non ero padrona del mio destino») riconosce di non essere poi così diversa dalla sua guida. In caso contrario, avrebbe reagito all’assassinio della madre, mentre così, nel tenerlo segreto, lascerebbe intendere di averlo anche lei desiderato. Se Belle tace, e lo farà per sempre (l’avverbio ombreggia tutto il romanzo) può suggerire che certi delitti hanno ricevuto la sua approvazione. Poiché, come accennavo, questo è il romanzo del destino, perciò colmo di corrispondenze secondo un criterio atavicamente animistico, mi pare che anche la Morgan di Werner (l’autista allucinato dalla gelosa Aurelia come il mostro di Fragonard) possa richiamare la morgue: ciò in base al fatto che la signorina lo farà incappato in un incidente mortale. In Il segreto, sono anche da rilevare certi aspetti ambientali, ad esempio la loro insularità, come il Castello dei Francesi, vagamente in stile gothic revival, sebbene dotato di una radiosa cupola vitrea, indice di un clima demodè aggiornato dall’epoca in cui si svolge la vicenda, e a questo proposito il lettore non mancherà di notare l’indiretto rifiuto dell’architettura funzionalista a favore dei manieri: Chenonceaux, Chateau d’Aubonne, Fontainbleu eccetera. Questo per specificare che il modus vivendi e le caratteristiche dei personaggi, assieme al «remoto» riserbo, all’«astrazione» all’«eleganza algida» di Marie-Belle, indicano, appunto, il rifiuto di trovarsi irreggimentati secondo ogni moderna e ingrigita funzione. Occorre però anche aggiungere questo: la «volontà ferrea» della fragile Marie-Belle, tale al punto da «sconfinare in un’ostinata quanto irragionevole pretesa di onnipotenza» anziché sostenere il talento rivela semmai una certa fissità del carattere… qualcosa di rigidamente mortifero, del resto fatalmente preannunciato dalla sua morte nel film Maison Dangereuse. È come se le personae di questo romanzo costruito come la sceneggiatura di un film, siano dominate da un impulso alla retraite (si tratti del castello, della villa lacustre o del manicomio) o, meglio ancora, dal fantasma di sparizione che si trova già nel mancato vitalismo della protagonista. La frase walseriana: «attorno a noi tutto era bellezza, calma e voluttà» parrebbe dunque suggerire l’idea di una trascorsa completezza da età dell’oro dopo la quale non resti che il declino. L’abbraccio, forse nostalgico, fra le ormai tarde Marie-Belle e l’istitutrice sigillerebbe bene quest’idea. Che da parte di Aurelia si tratti di vero amore, è naturalmente da escludere. Qua, richiamandoci al dipinto in copertina, si tratta di affinità elettive in termini letali (anche nel noto romanzo di Goethe hanno esito funesto) perché inventate dalla governante allo scopo di soddisfare la propria passione. Amare e voler bene sono due cose diverse, e Aurelia ama egoisticamente la sua pupilla senza giungere a un disinteressato sacrificio (i maestri del sospetto, fra i quali mettiamo Freud e Nietzsche, hanno fondati motivi per non credere, kantianamente, al disinteresse) anzi con una tenacia fuor del comune spinge la sua “protetta” – che per lei è in sostanza solo un idolo – alla completa rovina.

Silvio Aman

 

Bibliografia  di Silvio Aman

Cura del volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri)

Cura antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015.

Edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001.

Monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dip. di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte.

Partecipazione con un saggio al volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015.

Cura di vari libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle.

Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004;

Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005;

Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto) Bergamo, Moretti & Vitali, 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti.

L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (I parte)

03 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

Il segreto di Marie-Belle 2

     L’isola malinconica e remota in cui quella strana creatura

     dava l’impressione di essere arroccata

     non sembrava all’inizio concedere approdi.

 

Il breve ma intenso romanzo di Raffo, l’ultimo in ordine di tempo di una fortunata serie, fra gotico e noir, quando i due aspetti non s’intrecciano, è il diario del rapporto, poi trasformato in casto amore, dell’istitutrice Aurelia nella Villa La Protégée, per la piccola e anemica Marie-Belle, bisognosa di cure. Esso porta il seguente esergo tratto dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei:

Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola,

senza saperlo hanno accolto degli angeli.

È vero ma può anche darsi che gli angeli rivelino gli aspetti inquietanti del loro camuffato antagonista, ciò in base alla differenza fra l’indefettibile e pura volontà del Signore di cui è veicolo e le umane debolezze. La signorina Aurelia, istitutrice di Marie-Belle, è sicuramente un angelo, ma solo finché il suo attaccamento protettivo alla ragazza non trova ostacoli, e a questo riguardo romanzi e fatti di cronaca nera con tanto di delitti lo testimoniano, prima con la lotta al fine di guadagnare l’oggetto causa del desiderio, poi per conservarlo contro ogni genere di opposizioni e rivalità. Nel primo capitolo che funge da prefazione al suo diario, Aurelia – la splendente, come significa il nome – scrive:

Le nostre vite mi paiono così strettamente intrecciate da costituire un’unica vita. Tutto ciò che è accaduto a Marie-Belle ha toccato di riflesso anche me. O sarebbe più corretto dire che è stato determinato da me, come in un gioco di ineluttabili corrispondenze? […] Ma c’è un’ombra dietro Marie-Belle, che la segue a ogni passo, eppure sembra avere una consistenza propria, un suo spessore autonomo benché inscindibile da lei. Sono io quell’ombra. Forse la storia che sto scrivendo è proprio questo: il diario di un’ombra.

Quest’ombra, incarnata dall’istitutrice, e dalla quale Marie-Belle Daumier tenterà a più riprese di sottrarsi, è la scia del fato che si annuncia appunto attraverso “ineluttabili corrispondenze” cioè con i segni interpretati da Aurelia come precognizioni degli ostacoli volti a intralciare la vita della ragazza. Uno di questi è rappresentato da Le Nain Bombard nel mazzo di carte divinatorie Bonne Aventure fornite di un Tableau résumé che definiremmo “roulette russa” cioè di un cerchio rotante, il quale si arresta su una determinata immagine, poi echeggiata, per analogia, nel mostro sogghignante in un dipinto di Fragonard e nello chauffeur. Il nano porta un sacco colmo di bastoni, simbolo numerico degli ostacoli nei quali potrebbe incappare Belle. Per cogliere meglio il tessuto delle perfide corrispondenze, occorre precisare che il mazzo, su cui Aurelia – prima di rubarlo – consulta il destino della sua protetta, si trova, assieme alla Bibbia, sul tavolino da notte della ragazza, cui appartiene, e questo indica già la fatale connessione fra le due. Siccome Il segreto è un romanzo del destino di cui non ci devono sfuggire segni, ricordiamo che Marie-Belle Daumier, nel film in cui ha la parte di una suora suicida, cantilena: «Non ero padrona del mio destino. Così doveva essere» e anche le sue recite allo specchio, lusinghiero paredro, quando sogna di fare l’attrice… E lì nel gelido riflusso, congelata, le mani al seno, i capelli lungosciolti, giace la mia bellezza, la bellezza di me. E intorno fiori… Oh Ofelia, Ofelia.

Ofelia, non per caso, è la folle suicida immersa nel ruscello tra i fiori, così ben rappresentata nel celebre dipinto di John Everett Millais. Questo mi lascia supporre che Marie-Belle, incontrata da Aurelia a Sanremo con la madre Madame Geneviève, abbia subito un magico innesto come accade in botanica, nel senso di innestare il ramo di una specie su un’altra al fine produrre certi frutti che con la prima non si potrebbe, in special modo se sterile. Di questa ragazza anemica, soggetta a narcolessia, sintomo di esigua vitalità, e in cura nella clinica di Ospedaletti, perciò bisognosa di una tutrice, dotata «di una discrezione, una riservatezza che aveva qualcosa di remoto, d’innaturale» (oggi la definiremmo tendenzialmente autistica) è evidente il disinteresse per gli altri: infatti, dalla panchina sulla Passeggiata Imperatrice, assorta nella lettura, non alza nemmeno la testa, fosse solo per dare un’occhiata alla donna che avrà tanto peso nella sua vita. L’aggettivo “remoto” che Raffo, poeta sensibilissimo ai suoni, penso abbia scelto per l’ombra lontanante delle due o, indica molto bene la riservatezza aristocratica e “innaturale” di Belle… ma quanto ordinarie sono alle volte le persone naturali! Narcolessia e astrazione dal mondo esterno, saranno poi favorite in segreto dall’uso degli alcolici, poi delle droghe nel periodo in cui, ormai trentenne, Belle farà l’attrice nel film Maison dangereuse (chiaramente opposto a La ville Protégée) per la Cherubino Film: nome angelico ma non per gli interessi di Aurelia, cui il bell’uomo appare minaccioso, come si vedrà. Assieme alla citazione della Bibbia (la ragazza ne ha una sul comodino) al benaugurante Protégée, a Paradiso, come suona il lusinghiero nome del battello, e alle radiose scritte sopra i due camini, tornano anche gli angeli, perché quando il padre di Marie-Belle, avvocato tedesco intento compilare la settimana enigmistica, chiede il significato in italiano di una parola, Aurelia risponde «angelo» o «arcangelo» secondo il numero delle lettere, e lui: Sie waren der Engel meines Leben “Voi siete stata l’angelo della mia vita” senza immaginarne anche quello della morte, perché pur devota al «servizio d’amore» costei non lo aiuterà di certo a vivere. Pur assecondando i propri esclusivi desideri, l’amorevole tutrice solleciterà la sua pupilla «ad aprirsi sui suoi rapporti coi compagni» ma tramite la doppia manovra di chi da una parte protegge e dall’altra isola. Protégée potrebbe appunto alludere alla cura fatale esercitata da Aurelia sulla ragazza, perché vittima lei stessa di una fantasticheria d’isolamento, le riesce spontaneo appoggiarsi all’altro per via narcisistica e prolungarvisi tramite una forma di empatia dominata dal sortilegio (produttore del senso di colpa ben indicato da Raffo) cioè dal timore preventivo di cosa il suo amore produrrà. Il dualismo – che nel romanzo è ora occultato, ora palese – si gioca fra i segni nefasti e gli oggetti dai caratteri apotropaici e morfinici donati alla ragazza: il ciondolo protettivo del terzo occhio e un pigiama col ricamo del fior di loto, portatore dell’oblio (se pensiamo ai lotofagi dell’Odissea anziché all’India) purché non si perda di vista l’ambivalenza che anche i simboli benevoli possono assumere laddove, improntati, a uno scopo, diventano strumentali.

Di questi affascinanti isolamenti, la letteratura è ricchissima: basti pensare ai racconti di Poe con Ligheia, Morella, Il ritratto ovale, Il tramonto della casa Usher e al celebre À rebours di Huysmans, tutti sottolineati da sfinitezza e idee di morte. Ciò perché certi esseri dotati di un’eccessiva sensibilità estetica (di cui Aurelia vive solo l’eco) e disgusto per la gente comune, non riescono a commerciare col mondo e avere compagni se non nella rarità dei propri oggetti, siano essi fiori, libri o persone. Qui, il cum panem, è solo quello vissuto con i propri simili impreziositi dal declino: tutto è già stato “nello splendore dell’antica luce” e il seguito è solo decadenza. Del resto l’«antica luce» si offre come tale – generalmente parlando – per effetto retroattivo, una volta distillata dalla memoria col solvente del principio di piacere… ma era proprio così radiosa? Nella clinica Villa Sorriso, dove è ricoverata, l’unica soddisfazione dell’ormai anziana Aurelia consiste nel puntare il cannocchiale, dono del giardiniere-animista Honoré, verso il maniero abbattuto e gli alberi di Villa Protégée, ora visibili (un tempo non li poteva scorgere dal promontorio della propria casa) perché è come se la forbice del lago si sia chiusa unendo le due parti dei rami, cioè la sua vita con quella della ragazza) e attendere che il destino si completi. Come? Con l’arrivo della sempre attesa Marie-Belle. Lo strumento ottico aiuta l’immemore (oggi, per certe dimenticanze in seguito a delitti, si userebbe l’inelegante termine di scotomizzazione) a ricostruite un vissuto di cui Marie-Belle detiene il segreto, cioè il romanzo come la sua stessa biografia. Proprio per questo il percorso di Raffo segue in parte la tecnica indiziaria dei romanzi gialli di cui è maestro: in parte perché Aurelia, criminale e detective nella stessa persona, deve ricostruire l’accaduto tramite l’anamnesi emersa con le sedute analitiche del dottor Boni. La nascita dell’amore a senso unico dell’istitutrice per la ragazza (lei, sfinge diafana dotata di un fascinoso riserbo, rimane costantemente enigmatica, e chissà se suo padre non si dedichi simbolicamente all’enigmistica per questo motivo?) è anche fondato sul suo desiderio di ragazza senza madre di poterlo essere per la “bambina” (vale però anche il rovescio, se si identifica con lei) che pur la possiede in Madame, come qui è generalmente chiamata, ma non per sentirsene figlia. Un tempo ebbe infatti modo di confessare alla signorina: «Maman non ama niente di ciò che io amo. Solo alla sua morte potrò essere felice». Del resto, l’automa di Madame (lei si diletta a costruire bambole anche parlanti) canticchiava:

Je te plumerai la tête

et les yeux et le bec

et le dos et les ailes,

Alouette, alouette!

Canzonetta rivolta alla figlia o alla tutrice? Dal diario si sa che in una poupée di Madame Aurelia allucina Marie-Belle stesa su una barella, poi di nuovo libera, mentre si sentono le note:

Now we are one

I’m not afraid

Di cosa si tratta in quest’opera (in cui, come già in La voce della pietra, non mancano i richiami a castelli, mobili, pianoforti, stoffe, abiti, fiori e profumi che rievocano una trascorsa eleganza) si arguisce dalla poetica dell’autore incentrata sul rilkiano e walseriano amore intransitivo o amour de lohn, come nell’occitano Joffré Rudel, principe di Blaia, perché Marie-Belle, pur presente, resta di fatto remota e inafferrabile. Da Il segreto, il lettore non deve quindi attendersi scene erotiche, non per la mancanza di eros (il quale, nel bene e nel mare circola ovunque) ma perché qui Raffo mette in luce il disinteresse di Aurelia e Marie-Belle nei riguardi degli uomini, senza precisare se siano delle gomorrite refoulée: ne allude solo il canzonatorio aiutante di Cherubino, avvinto ai pregiudizi, perché si può respingere la natura senza per forza abitare l’isola, come si diceva ai tempi di Liane de Pougy. La pallida e misteriosa Belle, teutonicamente ordinata, sterile come le eroine di Poe e cultrice della propria bellezza boreale, emana il fascino di una diversità difficilmente interpretabile: giunge da un serto di nubi o nasconde qualcosa di orrendo? I due aspetti sono probabilmente intrecciati. D’altra parte, se Marie-Belle fosse una suora tutta preci, non interesserebbe a Silvio Raffo.

Silvio Aman (continua)

 

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Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
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