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Archivi tag: La tristezza di Paolo

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La tristezza di Paolo” di Enrique Gómez Carrillo

20 giovedì Apr 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Tag

Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Enrique Gómez Carrillo, La tristezza di Paolo, Racconti, TRADUZIONI

G U A T E M A L A 

LA TRISTEZZA DI PAOLO

(1899)

Enrique Gómez Carrillo (1873-1927)

Traduzione di Emilio Capaccio

Critico letterario, scrittore, cronista e diplomatico. Conosciuto anche per la sua vita mondana, frenetica e avventuriera, e per i suoi matrimoni chiacchierati con le scrittrici Aurora Cáceres, Raquel Meller e Consuelo Suncín. Trascorse gran parte della sua vita a Parigi. Molti aneddoti si raccontano sulla sua vita, il più importante dei quali lo vede coinvolto nel tradimento della spia Mata Hari, catturata di rientro a Parigi, nella sua camera dell’albergo Elysée Palace, dalla polizia francese e giustiziata il 15 ottobre del 1917. La sua fama letteraria deriva soprattutto dal lavoro di cronista e corrispondente di guerra durante la Prima Guetta Mondiale, guadagnandosi l’appellativo di “Principe dei croinisti” e l’ammirazione di molti intellettuali europei, tra i quali: Leopoldo Alas, Maurice Maeterlinck, Jean Moreas, Vicente Blasco Ibáñez.

Stremato e triste, Paolo lasciò il salone in cui si ballava e andò a cercare una nicchia profumata sotto le immense palme del parco, dove le note dell’orchestra arrivavano raddolcite e deterse dalla calda atmosfera della notte.

— Qui – pensò sistemandosi su una panca rustica — le mie instancabili cugine non mi troveranno.

Il ragazzo aveva 18 anni. Era biondo come un paggio del rinascimento veneziano; grave come un abitante della leggendaria Tebaide; malinconico come una castellana di una fiaba medioevale. I suoi occhi dal taglio allungato, di velluto chiaro e indolenti, attiravano senza cercare di dominare. Le sue guance pallide e lisce, quasi cristalline, sembravano illuminate dall’interno da una luce rosata.

Era giovane e molto bello e per di più nobile e ricco.

Ma non era felice.

Mosso da straordinarie fantasticherie, era arrivato a perdere la nozione di vita reale e soffriva la monotona volgarità di possibili piaceri, come gli altri soffrono i dolori materiali.

Si chiamava Paolo del Monte.

Le sue cugine lo chiamavano “Il selvaggio” per via del suo carattere restio e per tirarlo su di morale lo obbligavano ad accompagnarle ai festini nei palazzi degli amici.

— Ti portiamo a civilizzarti – mormoravano sorridendo.

In realtà, lo portavano per ballare con lui, per stringerlo nelle loro braccia sensuali e stordirlo con il profumo dei loro seni scollati, e anche sfiorarlo furtivamente, qualche volta, con la bocca, nel vortice propizio della danza.

La cugina più grande, in particolare, sembrava avere un interesse speciale nel far vibrare la carne statuaria del ragazzo. Quando ballava lo afferrava freneticamente e spesso cercava di immobilizzarlo in un abbraccio, accanto a un muro discreto, nel buio dei corridoi, appannandogli il viso con il soffio di fuoco della sua bocca socchiusa e palpitante.

— Penso che tu sia innamorata di me — le diceva lui ironicamente in quei momenti.

E lei, i cui occhi aveva improvvisamente serrati con profonde occhiate bluastre, non poteva rispondere che per mezzo di scuse incoerenti e balbettanti, fatte di suoni più che di parole, intervallate da rapidi sospiri, vezzeggiativi incomprensibili, gemiti ansimanti.

Quella notte sua cugina non era riuscita a condurlo in un luogo appartato.

— Qui non mi troverà – mormorò Paolo, accarezzando meccanicamente i petali flosci e freddi di un’iride gigantesca. — Qui non mi troverà.

Il suo sguardo si perdeva nell’infinito dell’orizzonte, alla ricerca della torre che un leggero e lontano suono di campana faceva percepire, oltre i confini del parco, nelle profondità della grande città sonnolenta.

Il cielo, di una tonalità quasi verde, un misto di intenso chiaro di luna e azzurro glauco, il cielo basso e pesante di quella notte d’estate, somigliava a una pianura aurorale popolata di nubi dalle forme voluttuose, tonde e bianche come ninfe discinte. Tutto, sotto le palme, respirava un’ardente mollizia. La stella che dà consigli amorosi luceva ancora solitaria e augusta nel firmamento.

Paolo pensò ad un altro cielo meno bello ma più amato, visto qualche anno prima dal giardino del collegio, nel momento in cui la campanella del dormitorio gli faceva alzare gli occhi a contemplare, per l’ultima volta nella giornata, qualcosa di libero, lontano e splendido, come le nuvole stesse, e le stelle.

— Il collegio!… L’alcova comune!… L’orrore dei letti vicini!

Paolo ricordava tristemente le sue notti di insonnia solitaria, ormai lontane. Improvvisamente, come spinto da una molla, ritrasse la mano che aveva accarezzato il fiore e cominciò a pulirla nervosamente con il fazzoletto. Gli sembrava che la carne del fiore si fosse tramutata in carne umana, marcita, gelata, quasi morta… E un’infinita ripugnanza per la materia molle dei corpi invecchiati gli ispirava idee di castità.

— Cugino! – si sentì chiamare.
Un passo leggero calpestava la sabbia finissima dei sentieri. Tra le fronde di palma scivolava un’ombra biancastra, curvandosi su ogni panca, scrutando nella boscaglia, ondulandosi leggermente con movenze feline.
— Cuginetto! – L’ombra si fermò ai piedi di un’acacia in fiore, sotto un arco di lanterne giapponesi. Immobile. Paolo la esaminò incuriosito.
Alla luce delle lanterne rosate, il suo petto nudo si tingeva di un soave carminio che accentuava le mirabili curve dei suoi seni. I capelli neri brillavano come un casco d’oro rossastro. I grandi occhi scuri brillavano, nel biancore del viso, come due scintille fisse. La linea del corpo, così perfetta.
— È una tentazione — si disse mentalmente Paolo. Poi si rivolse a lei:
— Cugina!
La chiamò senza sapere perché, senza rendersi conto che la stava chiamando, senza pensarci, senza volerlo e senza sentirlo.
La chiamò nonostante il desiderio di non vederla, di non farsi accarezzare da lei, di fuggire da tutto quello che potesse macchiare la sua anima.
La chiamò e non capì di aver sbagliato a chiamarla finché lei non fu al suo fianco.
— Cugina!…
Seduto sullo stesso scanno accogliente, sotto le palme coprenti, nello sfondo silenzioso del parco, i due cugini si guardavano sorridendo.
Lui, con bontà quasi ironica, tra rassegnato e contento, in attesa.
Lei, con labbra tirate e palpitanti.
— Sai a cosa stavo pensando? – disse Paolo.
— Se non era a me, preferisco non saperlo.
— Ero a me stesso.
Aveva appena finito di pronunciare quella frase inopportuna, quando già la cugina prendeva la sua testa tra le braccia e gli mordeva le labbra con superbia rabbia amorosa, in un bacio che era allo stesso tempo una ferita.
Le foglie sparse cantarono la loro canzone epitalamica, scricchiolando ritmicamente, con allegrie pagane e con giovani malizie, come duemila anni prima nell’Arcadia, quando le ninfe e i satiri facevano dei boschi sacri un vasto letto di amori.
Un’ora dopo, seduti entrambi su un sofà del salone, apparivano gravi e silenziosi, senza osare parlare, né avere voglia di sorridere.
E mentre nell’anima di lei tutto era luce, gioia e apoteosi, nell’anima di lui, era caligine e grigiore.

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