N I C A R A G U A
MORBO ET UMBRA
(1888)
Rubén Darío (1867-1916)
Traduzione di Emilio Capaccio
Poeta, narratore, giornalista e diplomatico, è considerato il massimo esponente della cultura del suo paese. L’opera “Azul”, pubblicata nel 1888, un misto di poesia e di prosa, da cui è tratto il racconto proposto, viene unanimemente considerata l’atto di nascita della corrente letteraria del modernismo che gradualmente sostituirà gli schemi metrici rigidi ereditati dalla tradizione castigliana e dal romanticismo, con cadenze di una più accentuata musicalità, introducendo il verso libero, anche se non sarà abbandonata del tutto la rima, e ampliando il patrimonio linguistico, introducendo soggetti lirici e lemmi derivanti da una equilibrata fusione tra avanguardia europea e parnassianesimo francese. Collabora con i più grandi poeti e letterati dell’America Latina e con le riviste e i quotidiani più prestigiosi. Viaggia in quasi tutti i paesi del Sudamerica. In Argentina, collabora con la “La Nación” che nel 1898 lo assume come corrispondente e lo invia in Spagna. Successivamente è chiamato a rivestire la carica di console del Nicaragua a Parigi. In questi anni conosce grandi poeti e intellettuali del suo tempo, come: Miguel de Unamuno, Juan Ramón Jiménez, Ramón María del Valle-Inclán, Antonio Machado. Oggi, in virtù della sua eredità letteraria, è universalmente considerato cittadino di tutta l’America Latina.

Un burlone vendeva bare nel magazzino all’angolo della strada. Ai clienti era solito fare battute di spirito che lo avevano reso popolare tra i commercianti di pompe funebri.
La rosolia [1] devastò in una quindicina di giorni un intero mondo di bambini in città. Fu terribile, come immaginare che la morte, dura e crudele, passi per focolai domestici strappando fiori.
Quel giorno la pioggia minacciava di cadere. Nubi plumbee si ammassavano nell’enorme forma di più vasti nembi tenebrosi. L’aria umida soffiava dannosa, portando tosse ovunque, e i colli della gente ricca e pulita erano avvolti da foulard di seta o di lana.
Il diavolo, invece, ha sempre un polmone grande e sano. Si interessa poco che una folata gelida possa colpirlo o che il cielo, con le sue grandini, prenda a sassate quelle spalle nude e cotte dal sole dell’estate. Spossato e indomito. Il suo busto è come roccia per il morso della brezza gelata, la sua zucca grossolana ha due occhi sempre aperti superbamente sul caso, e un naso che aspira miasma come vento marino che sa di sale e fortifica il petto.
Dove andava la vecchia Nicasia?
Eccola passare con la fronte bassa, avvolta nel suo manto nero di merino grezzo. Inciampava a volte e quasi cadeva, se ne andava leggera, quasi impalpabile.
Dove andava la vecchia Nicasia?
Camminava senza salutare i conoscenti che la vedevano passare, e sembrava che il suo mento raggrinzito, la sola cosa che si percepisse nel nero del mantello, tremasse.
Entrò nello spaccio dove faceva di solito la spesa e ne uscì con un pacchetto di candele nella mano, annodando la punta di un fazzoletto in cui aveva riposto il resto.
Giunse davanti all’ingresso del magazzino delle pompe funebri. Il tipo allegro la salutò con una facezia.
Allora, come se gli avessero detto una parola dolorosa, di quelle che arrivano profondamente a commuovere l’anima, sciolse il pianto e varcò la porta.
Il tipo allegro, con le mani dietro la schiena, camminava davanti a lei.
La donna finalmente riuscì a parlare. Gli spiegò che cosa era venuta a fare.
Il bambino, il figlio di sua figlia, si era ammalato pochi giorni prima di una febbre atroce.
Due levatrici aveva prescritto dei rimedi, ma senza alcun effetto. L’angioletto si era aggravato ora dopo ora, e quella mattina aveva esalato tra le braccia l’ultimo respiro.
Che dolore!
— Signor impresario, l’ultima cosa che vorrei fare per il mio nipotino è comprargli una bara come quelle; non tanto costosa; deve essere foderata di blu, con nastri rosa. Voglio anche un mazzo di fiori. Pagherò in contanti. Qui ci sono i soldi. Volete vedere?
Le lacrime si erano asciugate, e come presa da un’improvvisa risolutezza, si era diretta a scegliere la piccola bara. Il locale era stretto e lungo, come una grande tomba. C’erano qui e là, casse di tutte le dimensioni, rivestite in nero o in altri colori, da quelle con lastre argentate, per i fedeli ricchi del quartiere, a quelle più semplici e dozzinali, per i poveri.
L’anziana cercava, tra tutto quel triste raggruppamento di feretri, uno che fosse degno dell’amato corpicino del nipote che giaceva a casa, cereo e senza vita, adagiato su un tavolo con la testa circondata da rose e con il suo vestitino più bello, quello con un ricamo grezzo, ma vistoso, di uccelli viola che portavano nel becco una ghirlanda rossa.
Trovò una bara che le piaceva.
— Quanto viene a costare?
Il tipo allegro camminando sempre con la sua risata incantata:
— Sette pesos. Andiamo, non siate avara, nonnina.
— Sette pesos? … No, no, no, è impossibile. Ne ho cinque.
Cominciò a slegare la punta del fazzoletto, dove risuonavano con ingannevole tintinnio le poche chauche [2].
— Cinque, è fuori discussione, signora. Due pesos in più ed è vostra. Volevate bene a vostro nipote! Lo conoscevo. Era attivo, vivace, indiavolato. Non era il biondino?
— Sì, era il biondino, signor impresario. Era il biondino, e voi state spezzando il cuore a questa vecchia, rinsecchita e addolorata.
Era quello attivo, quello birbante, che lei adorava così tanto, che coccolava, che lavava e al quale cantava, facendolo saltellare sulle sue ginocchia, vecchie cantilene, melopee monotone che fanno addormentare i bambini.
— Era il biondino, signor impresario. Sei pesos…
— Sette, nonna.
— E sia!
Gli diede i cinque pesos che aveva portato con sé. In seguito avrebbe pagato il resto. Era una donna onorata. Anche se fosse stato necessario non mangiare, avrebbe saldato il suo debito. L’impresario la conosceva bene, perciò si portò via la bara.
A passi rapidi andava la vecchia con la cassa attaccata al fianco, sopraffatta, con il respiro pesante, il mantello stropicciato, la testa canuta al vento gelido. Così arrivò a casa. Tutti dissero che la bara era molto bella. La guardarono, la esaminarono, mentre l’anziana se ne andò a baciare il piccolo corpicino, rigido sui suoi fiori, con i capelli arruffati da una parte, e dall’altra incollati alla fronte, con un vago ed enigmatico rictus sulle labbra, come qualcosa della misteriosa eternità.
Non voleva vegliarlo. Avrebbe voluto il suo nipotino, ma non così, no, no, era meglio che lo portassero via, al più presto!
Camminava da un posto all’altro. La gente del vicinato che era venuta a far visita, parlottava sottovoce. La madre del bambino, con la testa avvolta in una pezzuola azzurra, faceva il caffè in cucina.
Intanto la pioggia cadeva a poco a poco, cernita, fine, molesta. L’aria entrava da porte e fessure e faceva smuovere il tessuto bianco del tavolo sul quale giaceva il bambino; i fiori tremavano a ogni folata.
La sepoltura doveva avvenire quella sera, e la sera già cadeva. O tristezza! Sera d’inverno, nebbiosa, bagnata, malinconica, quelle sere in cui i mendicanti distesi per terra si coprono i torsi giganteschi con quei cenci ruvidi e rigati, e le vecchie succhiano il mate dalla cannuccia, sorseggiando la bevanda cocente che gorgoglia insieme ai borborigmi.
Nella casa vicina cantavano con voce stridula un’aria di zamacuca [3]; accanto al piccolo cadavere, un cane scuoteva le orecchie per le mosche, chiudendo gli occhi pacificamente e il rumore dell’acqua che cadeva a getti sparsi e modulati, dalle tegole al suolo, si confondeva con un leggero schiocco di labbra della nonna, che parlava tra sé singhiozzando.
Dietro le nubi della sera opaca stava morendo il sole. Si approssimava l’ora della sepoltura.
Una carrozza veniva sotto la pioggia, una carrozza quasi inservibile, trainata da due cavalli barcollanti, pelle e ossa. Arrancando nel fango della strada, giunse alla porta della casa del morticino.
— È ora? – chiese la nonna.
Lei stessa andò a deporre il bambino nella piccola bara; prima sistemò un materassino bianco di stracci, come se volesse assicurarsi che stesse a suo agio e volesse dargli conforto nella nera tenebra della sepoltura. Dopo adagiò il corpo e per ultimo i fiori, in mezzo ai quali si intravedeva il volto del bambino, come una grande rosa pallida e svanita. Si chiuse la bara.
Signor impresario, il birbante, il biondino, sta andando al camposanto. Sette pesos è costato la bara; cinque pesos sono stati pagati: signor impresario, anche se dovrà digiunare, la vecchia nonna, pagherà i pesos che mancano!
La pioggia incalzava, dalla vernice del vecchio e scorticato veicolo cadeva in gocce nel fango denso, e i cavalli con i fianchi bagnati sbuffavano dalle narici e facevano suonare i morsi tra i denti.
In casa, la gente finiva di bere il caffè.
Tac, tac, tac, risuonò il martello mentre piantava i chiodi sul coperchio. Povera vecchia!
Solo la madre doveva andare al cimitero a deporre il morticino; la nonna le preparava il mantello.
— Quando lo caleranno nel fosso, da’ un bacio alla bara da parte mia.
Si incamminarono dopo aver sistemata la bara nella carrozza e dopo che vi fu salita anche la madre.
Sempre più forte infuriava la pioggia. Schioccò la sferza e si mossero i cavalli, trainando per strada il loro catafalco.
La vecchia, allora, rimasta sola, sporse la testa da una apertura nel muro sbrecciato e vedendo perdersi in lontananza la carrozza malconcia, che traballava di buca in buca, quasi formidabilmente nella sua profonda tristezza, tese al cielo oscuro le braccia sottili e raggrinzite, e serrando i pugni, con un gesto terribile, esclamò a voce alta, tra gemito e imprecazione:
— Potrei parlare con qualcuna di voi, o Morte, o Provvidenza? …Farabutte! Farabutte!
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[1] Il virus della rosolia fu isolato per la prima volta dal dott. Paul Douglas Parkman (1932-vivente). I primi vaccini furono autorizzati negli Stati Uniti, a partire dal 1969.
[2] Monete da 20 centavos che equivalgono a 1/5 di peso.
[3] Danza di corteggiamento molto allegra, di origine cilena, ma diffusa in tutta l’America Latina.
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