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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Emilio Capaccio

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Giustizia india” di Ricardo Jaimes Freyre

23 giovedì Giu 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Giustizia india, Racconti, Ricardo Jaimes Freyre, traduzioni

B O L I V I A

 GIUSTIZIA INDIA

(1906)

Ricardo Jaimes Freyre (1868-1933)

Traduzione di Emilio Capaccio

Soprannominato “principe dei poeti boliviani”, è uno dei rappresentanti più autorevoli del Modernismo, insieme a Rubén Darío, con il quale fondò nel 1893, a Buenos Aires, la “Revista de América”, considerata un manifesto della nuova corrente artistica e principale canale di propaganda. È stato poeta, scrittore, saggista e storico. Ricordato per essere stato uno dei primi artisti ad introdurre definitivamente il verso libero. Degna di interesse è anche la sua carriera politica. Figlio di un diplomatico di Potosí, città a sud della Bolivia, situata a un’altezza di oltre 4000 metri, è stato ambasciatore negli Stati Uniti e in Brasile, nonché rappresentante del suo paese, a Ginevra, all’interno delle Società delle Nazioni e, più tardi, Ministro degli Esteri.

I due forestieri stavano bevevano l’ultimo sorso di vino, stando in piedi accanto al fuoco. La brezza fredda del mattino faceva tremolare debolmente le tese dei loro larghi cappelli di feltro. La vampa scoloriva sotto la luce incerta e biancastra dell’aurora; si schiarivano indistintamente i recessi dell’ampio patio e si abbozzavano tra le ombre, sullo sfondo, le pesanti colonne di creta che reggevano la copertura fatta di canne e pagliuche.

Legati ad un anello di ferro fissato a una delle colonne, due cavalli imbrigliati aspettavano, a testa bassa, masticando con difficoltà lunghi fili d’erba. Accanto al muro, un giovane indio, accovacciato, con una scarsella piena di mais nella mano, faceva saltare in bocca i chicchi giallastri.

Quando i forestieri furono pronti per partire, altri due indios si accostarono davanti al grande cancello rustico. Sollevarono una delle grosse travi, incuneate nei muri per sbarrare il passaggio, e si addentrarono nel grande patio.

Il loro aspetto era umile e miserabile, e più umile e miserabile lo rendevano le giacchette strappate, le camicie grezze aperte sul petto e i lacci di cuoio pieni di nodi ai sandali.

Lentamente si accostarono ai forestieri che stavano montando sui loro cavalli, mentre la guida india sistemava alla cinta la scarsella di mais e annodava stretto alle gambe i lacci dei sandali. I forestieri erano giovani; alto uno, assai pallido, dallo sguardo freddo e duro; l’altro, piccolo, bruno, dalla fisionomia allegra.

— Signore… – mormorò uno degli indios.

Il forestiero pallido si voltò verso di lui.

— Che cosa vuoi, Tomás?

— Signore… lasciatemi il mio cavallo…

— Di nuovo, imbecille! Vuoi che mi metta in cammino a piedi? In cambio ti ho dato il mio, può bastare.

Ma il vostro cavallo è morto.

— Sicuro, che è morto! È morto perché l’ho fatto correre per quindici ore di fila. È stato un grande cavallo! Il tuo non vale niente. Pensi che farebbe le stesse ore di corsa?

— Ho venduto i miei lama per comprare quel cavallo alla festa di San Juan… Inoltre, signore, avete dato fuoco alla mia capanna.

— Giusto! È stato perché sei venuto a incomodarmi con i tuoi piagnistei. Io ti ho tirato un tizzone per farti andare via, tu hai spostato la faccia e il tizzone è caduto dentro un mucchietto di paglia. Non è colpa mia. Avresti dovuto ricevere con rispetto il mio tizzone. E tu cosa vuoi, Pedro? – domandò, rivolgendosi all’altro indio.

— Vengo a supplicarti, signore, di non portarmi via le mie terre. Sono mie. Io le ho seminate.

— Questo è affar tuo, Cordova – disse il cavaliere, rivolgendosi al suo accompagnatore.

— No, per certo, questo non è affar mio. Io ho fatto quello che mi è stato chiesto di fare. Tu, Pedro Quispe, non possiedi quelle terre. Dove sono i tuoi titoli? Voglio dire, dove sono i tuoi documenti?

— Io non ho documenti, signore. Mio padre non aveva documenti, né tanto meno il padre di mio padre. E nessuno ci ha portato via la terra. Voi volete darla a qualcun altro. Io non vi ho fatto alcun male.

— Hai da qualche parte una borsa di monete? Dammi la borsa e ti lascio la terra.

Pedro volse a Cordova uno sguardo d’angoscia.

— Non ho monete e non potrei mai racimolarne così tante,

— Allora non c’è altro da aggiungere. Lasciami in pace.

— Pagatemi ciò che mi dovete.

— Ma non finiremo mai! Pensi che sia tanto idiota da pagarti una pecora e qualche gallina che mi hai dato? Pensavi che saremmo morti di fame?

Il forestiero pallido, che cominciava a spazientirsi, esclamò:

— Se continuiamo ad ascoltare questi due imbecilli, restiamo qui per sempre…

La cima della montagna, sul fianco della quale poggiava l’ampia e rustica locanda, cominciava a brillare ferita dai primi raggi di sole. La desolata aridezza del paesaggio, tra le sierre nerastre, si illuminava lentamente e si distingueva sotto il blu del cielo, tagliuzzato a tratti da nubi plumbee che correvano veloci.

Cordova fece un segno alla guida, che si diresse verso il cancello. Dietro di lui uscirono i due cavalieri.

Pedro Quispe si precipitò verso di loro e afferrò le redini di uno dei cavalli. Un colpo di frusta sul volto lo fece indietreggiare. Allora i due indios uscirono dal patio, correndo velocemente verso una vicina altura, si arrampicarono con la rapidità e la destrezza di una vigogna, e quando giunsero alla sommità gettarono lo sguardo intorno.

Pedro Quispe avvicinò alle labbra la sua buccina che portava appesa sulla spalla e lanciò un suono grave e prolungato. Si fermò un istante, poi continuò con note rapidi e stridenti

I forestieri cominciarono a incamminarsi per il fianco della montagna; la guida, con passo sicuro e fermo, procedeva indifferente, divorando chicchi di mais. Quando risuonò la voce della buccina, l’indio si fermò, guardò i due cavalieri e cominciò a correre per una mulattiera aperta tra le colline. Pochi istanti dopo, scompariva nella lontananza.

Cordova, rivolgendosi al suo compagno, esclamò:

— Alvarez, quei furfanti ci portano via la nostra guida.

Alvarez fermò il suo cavallo e guardò con inquietudine in ogni direzione.

— La guida… E a che cosa ci serve, oramai? Temo qualcosa di peggio.

La buccina continuava a risuonare, sulla sommità della collina la figura di Pedro Quispe si disegnava sullo sfondo azzurro, sopra la rossastra nudità delle cime.

Sembrava che ai picchi e ai bivi passasse un sortilegio; dietro le grandi distese di pascoli, tra le impavide stoppie e le aspre erbacce, sotto le larghe strisce dei campi, alle porte delle capanne e in cima ai monti lontani, si vedevano comparire e scomparire rapidamente figure umane. Si fermavano un attimo, volgevano lo sguardo verso la collina dove Pedro Quispe strappava incessanti note dalla sua buccina, e poi si trascinavano su per le colline, arrampicandosi cautamente.

Alvarez e Cordova continuavano a discendere per la montagna; i loro cavalli ansimavano fra le asperità rocciose, per lo stretto sentiero, i due cavalieri, visibilmente inquieti, si lasciavano portare in silenzio.

Improvvisamente, un sasso enorme, staccato dalla cima della sierra, rotolò accanto a loro, con un lungo ruggito; poi un altro… poi un altro ancora…

Alvarez lanciò il suo cavallo alla fuga, costringendolo a fiancheggiare la montagna. Cordova seguì immediatamente il compagno; ma i massi rotolavano dietro di loro. Sembrava che la catena montuosa si stesse sgretolando. I cavalli, scagliati come una tempesta, balzarono sulle rocce, poggiando miracolosamente gli zoccoli sugli spuntoni, e vacillarono nello spazio, a un’altezza enorme. In breve tempo, le montagne furono coronate di indios. I cavalieri allora si precipitarono verso la stretta gola che serpeggiava ai loro piedi, attraverso la quale scorreva dolcemente un filo d’acqua sottile e cristallino.

Le profondità si popolarono di strane armonie; il suono roco e sgradevole dei corni spuntava dappertutto, e alla fine della gola, sopra la luce radiosa che si apriva tra due montagne, un gruppo di uomini si alzò all’improvviso.

In quel momento, un enorme macigno centrò il cavallo di Alvarez. Lo videro indugiare per un momento e poi cadere, rotolando giù per il fianco della montagna. Cordova balzò a terra e iniziò a strisciare verso il punto in cui si poteva vedere l’ammasso polveroso di cavallo e cavaliere.

Gli indios cominciarono a discendere le vette: dalle strettoie e da ogni recesso sbucavano ad uno ad uno, avanzando cauti e fermandosi in ogni momento con lo sguardo fisso sul fondo dello strapiombo. Quando raggiunsero la riva del torrente, avvistarono i due viaggiatori. Alvarez, steso a terra, era inerte. In piedi, accanto a lui, il suo compagno, con le braccia al petto, in preda alla disperazione per la sua impotenza, fissava la lenta e paurosa discesa degli indios.

In un piccolo pianoro ondulato, formato dalle depressioni dei monti che lo delimitavano alle quattro estremità con quattro larghi crinali, i vecchi e le donne attendevano l’esito della caccia all’uomo. Le donne indios, con le loro gonne corte e tonde, di stoffe ruvide, i mantelli attaccati sui seni, i cappelli scintillanti, le trecce ruvide che cadevano sulla schiena e i piedi nudi, si raggruppavano silenziose a un’estremità, e si vedeva tra le loro dita la danza vertiginosa del mandrino e dell’avvolgitore.

Quando gli inseguitori arrivarono, condussero con loro i viaggiatori legati sui loro cavalli. Furono portati al centro della spianata e gettati per terra, come due fagotti. Le donne allora si avvicinarono e li guardarono con curiosità, senza smettere di filare, parlando sottovoce. Gli indios rifletterono per un momento. Poi un gruppo si diressero verso i piedi della montagna. Tornarono portando due grandi orci e due grandi travi. E mentre alcuni scavavano la terra per fissare le travi, gli altri riempivano piccole brocche di terracotta con il liquore contenuto negli orci.

Bevvero finché il sole non cominciò a cadere all’orizzonte e non si udì altro che il mormorio delle conversazioni soffocate delle donne e il rumore del liquido che si riversava nelle brocche mentre esse venivano sollevate.

Pedro e Tomás presero i corpi dei cavalieri e li legarono ai pali. Alvarez, la cui spina dorsale era spezzata, emise un lungo gemito. I due indios li spogliarono, gettando a terra tutti i loro indumenti uno per uno. E le donne potettero guardare con ammirazione i loro corpi bianchi.

Dopo, iniziò il supplizio. Pedro Quispe strappò la lingua a Cordova e gli bruciò gli occhi. Tomás coprì il corpo di Álvarez di piccole ferite con un coltello. Poi, fu il turno degli altri indios che strapparono i loro capelli, li lapidarono e gli conficcarono delle schegge di legno nelle ferite. Una giovane donna india, ridendo, versò una gran brocca di chicha (1) sulla testa di Alvarez. La sera moriva. I due viaggiatori avevano già da tempo consegnato la loro anima al Gran Giustiziere; e gli indios, sfiniti, abbuffati, indifferenti, continuavano a colpire e a lacerare i corpi.

In seguito, fu necessario giurare il silenzio. Pedro Quispe tracciò una croce sulla terra, e uomini e donne s’avvicinarono per baciare la croce. Poi sfilò dal collo il rosario, che non abbandonava mai, e gli altri vi giurarono sopra, e dopo sputò per terra, e tutti passarono sulla terra sputata.

Quando le spoglie insanguinate scomparvero alla vista e si cancellarono le ultime tracce della scena che si era appena svolta nelle asperità dell’altipiano, l’immensa notte cadeva sulla solitudine delle montagne.

(1) È il nome dato a diversi tipi di bevande leggermente alcoliche o analcoliche, originarie del Sudamerica, derivate dalla fermentazione di cereali, frutta o manioca.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il cane” di Rafael Barrett

09 giovedì Giu 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Il cane, Racconti, Rafael Barrett, traduzioni

P A R A G U A Y

 IL CANE

 (1911)

Rafael Barrett (1876-1910)

Traduzione di Emilio Capaccio

Scrittore, saggista e giornalista, nato in Spagna e morto in Francia, ma vissuto per il periodo più significativo della sua vita in Paraguay, tanto da essere considerato uno dei più influenti scrittori di questo paese e promotore della moderna letteratura paraguayana. Ebbe una vita estremamente avventurosa, e bohémienne, fatta di duelli, ristrettezze economiche, collaborazioni con riviste e giornali di vari paesi e continui viaggi per il mondo. In Paraguay arrivò nel 1904, come corrispondente del giornale “El Tiempo”, per documentare la rivolta politica del generale liberale Benigo Ferreira, futuro presidente del Paraguay, dal 1906 al 1908. Barrett riuscì a farsi portare all’accampamento dei ribelli e a restare con loro fino a quando, alla fine dell’anno, non entrò nella città di Asunción insieme a Benigo Ferreira, vittorioso contro le truppe del presidente in carica, Juan Antonio Escurra, che dovette fuggire in Argentina. Sotto il nuovo governo fu nominato direttore dell’Ufficio Generale di Statistica. Dal 1903 al 1910 fu inviato in Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay come corrispondente per vari giornali, coniando per sé il termine di “giornalista militante”. Quasi tutta la sua opera è stata pubblicata postuma. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta “Cuentos breves”.

Attraverso le ampie vetrate aperte della sala da pranzo dell’hotel, contemplavo, dal mio tavolo, l’orizzonte marino, sfumato nel lento crepuscolo. Vicino al molo riposavano le vele delle barche. Qualche silhouette elegante attraversava ad intervalli la sala, salendo la rampa; una cocotte che andava a rifarsi la toeletta per la cena, uno sportman pungolato dall’appetito. La sala si andava riempendo; il tintinnio di piatti e posate preludeva il pasto serale; i camerieri, di affettato e diplomatico aspetto, scorrevano in silenzio.
La luce elettrica, sopra la pila di tovaglie bianche come la neve, saltellava dal bordo di un calice alla convessità di un braccialetto d’oro per brillare all’angolo di una bocca sorridente. La brezza della notte smuoveva le piume dei ventagli, agitava i paralumi delle piccole lampade portatili, scopriva un braccio nudo sotto la flottante mussolina, e mescolava gli aromi del campo e del mare ai profumi delle donne. Si stava bene e non si pensava a niente.
All’improvviso un bel cane entrò nella sala da pranzo, e dietro di esso una giovane donna bionda e altezzosa che andò a sedersi assai lontano da me. Il suo accompagnatore si allontanò controllandoci. Era una specie di levriero, di razza incrociata. Il pelo, fine e dorato, brillava come quello di un pupazzo. La testa intelligente, degna di essere accarezzata da una di quelle mani che solo Van Dick ha compreso nelle sue tele, non si allungava in atteggiamento mendico. All’animale aristocratico non importava cosa succedesse sui tavoli. I suoi occhi alteri, gialli e trasparenti come due topazi, sembravano giudicarci sdegnosamente.
Giunto alla mia altezza, si fermò. Lusingato da questa preferenza, gli offrii un boccone di insaccato. Accettò e mi salutò con un discreto cenno della coda. Non ritenni corretto insistere e lo lasciai andare via. Istintivamente guardai verso la giovane bionda. Il blu intenso delle sue pupille sorrise benevolmente.
Dopo aver consumato la cena uscii sul terrazzo, dove c’era solitudine. Il faro proiettava un raggio di luce rotante, ora bianco, ora rosso, sulle acque nere dell’oceano. Il vento si era calmato. Un alito tiepido si levò dalla terra ancora calda.
Assorto davanti a quello spettacolo sentii, quando meno me lo sarei aspettato, le zampe nervose del mio nuovo amico che si posavano su di me. La giovane bionda mi era accanto.
— Che cane ammirevole, signorina…! o signora? – Domandai.
— Signora – disse la voce più dolce che abbia mai sentito.
Cominciammo così a vederci la sera, sulla terrazza solitaria, e durante alcuni pomeriggi facemmo lunghe passeggiate per i campi insieme a Tom, nostro unico testimone.
La signora di V. era russa. Mal sposata, ricca e malinconica, a volte riusciva a ottenere dal marito un periodo di libertà. Allora si abbandonava al fascino della natura e al sapore dei ricordi, e trascinava le sue delusioni per tutte le spiagge mondane.
— Non dovrei odiarlo – mormorava — ma lo odio; sì, lo odio, e Tom lo stesso; è arrogante, geloso, insopportabile; gli avrei perdonato le mie tristezze, se mi avesse dato un figlio. Neppure quello.
Il suo ombrello tracciava un leggero solco sul prato.
— Non posso permettermi un’amicizia, una simpatia. La sua intransigenza selvaggia mi tiene reclusa. Sarà qui fra quindici giorni.
Abbassò la testa dorata e continuò sottovoce:
— Amico mio; povera me se sospettasse questa innocente amicizia. Non potremo vederci più quando arriverà! Sarebbe troppo pericoloso, V. è uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Il suo braccio tremava sotto il mio, ma i suoi occhi umidi luccicavano teneramente. Tom saltava sulle farfalle e veniva a leccarci le mani. Lo accoglievamo con grandi risate e dopo lo consolavamo pieni di rammarico.
In altre occasioni la signora di V. mi riceveva nella sua camera. Tom si gettava sopra di me freneticamente. Lei, con gioia da bambina, mi mostrava i ritratti delle sue amiche, o mi raccontava storie della sua infanzia. Di quando in quando, si impossessava di noi un eccesso di sentimentalismo e con le dita intrecciate restavamo muti, lasciando parlare il nostro silenzio emozionato. Ma sempre prima di andarmene, io e Tom, giocavamo come due ragazzini.
Davanti alla gente facevamo finta di non conoscerci. Quando la signora di V. faceva il suo ingresso in sala da pranzo, a malapena inclinava la fronte. Tom faceva la sua solita passeggiata, e si fermava un attimo a ricevere qualche mia attenzione. Niente salti, niente feste! Il tatto di quell’animale era prodigioso! Un giorno in cui stavo pranzando con un conoscente, passò alla larga, come se non mi avesse mai visto. Ma il suo sguardo sembrava dire: “Non sono geloso; è quel signore che mi è antipatico”.
Venne il momento funesto. La signora di V. si presentò alle terme in compagnia del marito, la mia disperazione. L’uomo non lasciava la moglie un istante, come se si trattasse di una prigioniera. La donna portava Tom con loro, e io non riuscivo neppure ad accarezzare la testa del nostro fedele confidente.
Le settimane passavano e io cominciavo a scoraggiarmi, quando un giorno fui presentato al signor V. nel corso di una conversazione con i signori di H. Per una coincidenza uscimmo insieme, e insieme facemmo rientro nell’hotel.
Il signor V. era così come me lo avevano dipinto; il suo aspetto, aspro e sgradevole; la sua conversazione, autoritaria e asciutta. Scambiammo poche parole. Stringendomi la mano mi chiese con indifferenza:
— Volete conoscere mia moglie? Sarà ancora in piedi. È molto riservata, ma le piace discorrere in francese.
Che fare? Salimmo le scale, e ci fermammo davanti alla camera dove avevo trascorso tanti momenti deliziosi. All’improvviso mi assalì il terrore. Il cane! Avevo dimenticato il cane! Il cane mi avrebbe fatto le feste e leccato con tutta la sua anima! Che partito prendere? Povera amica mia! Povero me! Non mi piacque ricordare che il signor V. era uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Come chi va a suicidarsi, entrai nella stanza. La signora V., assalita dal mio stesso pensiero, divenne più pallida della morte. Tom, disteso con elegante indolenza, sollevò le orecchie al rumore dei nostri passi e aprì i suoi lucidi occhi giallastri…
Ma non si mosse neppure. Si accontentò di dimenare ironicamente la lunga coda impennacchiata.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La guercia” di Júlia Lopes de Almeida

26 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Júlia Lopes de Almeida, La Guercia, Racconti, traduzioni

B R A S I L E

LA GUERCIA

(1903)

Júlia Lopes de Almeida (1862-1934)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stata una delle ideatrici della “Accademia brasiliana delle lettere”. Avrebbe dovuto far parte dei 40 “immortali” che inizialmente la costituirono, ma fu scelto di mantenere l’Accademia completamente maschile, sull’esempio di quella francese, e al suo posto di dare la cattedra n. 3 al marito, il poeta Filinto de Almeida, che fu chiamato, per questo, “accademico consorte”. Solo nel 2017, è stato riconosciuto dall’Accademia il torto commesso ai danni della scrittrice e riconosciuta la stessa come cofondatrice dell’Accademia. È nota, oltre che per la sua considerevole opera letteraria, giornalistica e teatrale, di influenza prevalentemente naturalista, anche per essere stata una delle più tenaci abolizioniste della schiavitù e del commercio di persone africane nel suo paese, nonché sostenitrice della repubblica e dell’istruzione delle donne, del divorzio e dei diritti civili. Il racconto proposto è considerato un classico della letteratura brasiliana e inserito in molte antologie scolastiche.

Júlia Lopes de Almeida

La guercia era una donna alta, rinsecchita, macilenta, aveva il petto incavato, il busto ricurvo, le braccia lunghe e smilze, ma i gomiti e i polsi erano tozzi; le mani erano grandi, ossute, deformate da reumi e fatica; le unghie ispessite, opache e grigie, i capelli crespi, di un colore tra il bianco sporco e il biondo cinerino, che al tatto apparivano ruvidi e ispidi; la bocca cadente, in un’espressione di spregio, il collo lungo, raggrinzito, come quello degli avvoltoi; i denti, storti e marci.

Il suo aspetto infondeva terrore nei bambini e ribrezzo negli adulti; non tanto per la sua statura e per la straordinaria magrezza, quanto perché aveva un orribile difetto: le avevano cavato l’occhio sinistro; la palpebra scendeva avvizzita, lasciando, tuttavia, accanto al punto lacrimale, una fistola continuamente purulenta.

Era quella macchia giallastra nel fosco dell’occhiaia, quel distillare incessante di pus, che la rendeva ripugnante agli occhi degli altri.

Viveva in una vecchia casupola, il suo unico figlio, che faceva l’operaio in una sartoria, le pagava il fitto; lei si dava da fare lavando biancheria per gli ospedali e si arrabattava a fare qualunque faccenda domestica, compreso preparare da mangiare. Da bambino, il figlio trangugiava le misere pietanze fatte da lei, a volte anche nello stesso piatto sporco; poi crescendo, il disgusto per quel cibo si era manifestato pian piano sul suo viso; finché un giorno, con il pretesto di dover occuparsi di un ordine, aveva detto alla madre che, per comodità degli affari, di lì in avanti non avrebbe più mangiato a casa…

Lei finse di non capire la verità e si rassegnò.

Tutto il bene e tutto il male venivano da quel figlio.

Che importanza poteva avere che la gente la disprezzasse, se il suo amato figlio la ricompensava con un bacio per tutta l’amarezza dell’esistenza?

Un bacio del figlio era più bello di una giornata di sole, era la più dolce blandizia per il cuore triste di una madre. Ma anche i baci cominciarono a scarseggiare, con la crescita di Antonico. Da piccolo, la stringeva tra le braccia e la riempiva di baci; poi passò a baciarla solo sulla guancia destra, dove non c’era traccia della deformità della madre; ora si limitava a baciarle la mano.

Lei comprendeva tutto e taceva.

Il figlio non soffriva meno della madre.

Quando da bambino fece il suo ingresso nella scuola della parrocchia, i compagni di classe, che lo vedevano andare e venire con la madre, presto cominciarono a chiamarlo — il figlio della guercia.

Questo fatto lo indisponeva enormemente e ogni volta rispondeva:

— Io ho un nome!

Quelli ridevano e si prendevano gioco di lui; il bambino si lamentava con i maestri, i maestri rimproveravano gli alunni e qualche volta li punivano anche, ma il soprannome era rimasto, e presto non fu più soltanto a scuola a chiamarlo in quel modo.

Per strada, spesso, sentiva dire da questa o quella finestra: il figlio della guercia! Sta passando il figlio della guercia! Sta arrivando il figlio della guercia!

Erano le sorelle dei suoi compagni, più piccole e innocenti che, istruite dai loro fratelli, ferivano il cuore del povero Antonico ogni volta che lo adocchiavano.

Le fruttaiole, dove andavano a comprare le guava o le banane per la merenda, impararono rapidamente a chiamarlo allo stesso modo, e, molte volte, scostando gli altri bambini che si affollavano intorno a loro, dicevano con pietà e affetto, allungando una manciata di araçá (1):

— Queste sono per te, figlio della guercia!

Antonico avrebbe preferito non ricevere un bel nulla, al sentire tali parole; tanto più che gli altri bambini, con stizza, irrompevano ad alta voce, cantando in coro un motivo noto:

— Figlio della guercia, figlio della guercia!

Antonico chiese a sua madre che non andasse più a prenderlo a scuola; e rosso di vergogna, le raccontò la ragione; ogni volta che lo vedevano apparire sull’uscio della scuola i compagni bisbigliavano ingiurie, strizzavano l’occhio e gli facevano facce schifate.

La guercia sospirò e non andò più a prendere a scuola suo figlio.

All’età di undici anni, Antonico lasciò la scuola: era arrivato ormai ad azzuffarsi quotidianamente con i compagni che lo tormentavano e lo detestavano. Aveva chiesto di entrare nel laboratorio di un falegname. Ma nel laboratorio del falegname, ben presto impararono a chiamarlo — il figlio della guercia, e a umiliarlo, come quando andava a scuola.

Per di più, il lavoro era pesante e cominciò ad avere vertigini e malori. Trovò allora un impiego di addetto alle vendite, ma in breve tempo, i colleghi cominciarono a raggrupparsi davanti alla porta, per prenderlo in giro, e il venditore ritenne prudente mandarlo via, tanto più che arrivavano dalla strada dei teppistelli ad afferrare fagioli e riso nei sacchi davanti il negozio per gettarli addosso al ragazzo. Era una continua grandine di cereali sul povero Antonico.

Dopo questa esperienza si rintanò in casa, nauseato, smagrito, emaciato, disteso per terra alle mosche, sbadigliando di continuo e amareggiato da tutto. Evitava di uscire di giorno e non accompagnava mai la madre; lei lo risparmiava: aveva paura che in uno svenimento, il ragazzo gli morisse tra le braccia, e così non lo rimproverava mai. All’età di sedici anni, vedendolo più in salute, la guercia chiese e ottenne per lui un impiego in una sartoria. La povera donna raccontò al padrone tutta la storia di suo figlio e lo pregò di non lasciare che gli apprendisti lo umiliassero, ma che serbassero un po’ di carità per quel ragazzo.

Antonico incontrò un certo riserbo e una strana silenziosità da parte dei suoi compagni; quando il mastro diceva: — il signor Antonico – percepiva un malcelato risolino sulle labbra degli operai; ma a poco a poco questo sospetto, o questo risolino, cominciò a svanire, finché non iniziò a sentirsi bene nella sartoria.

Trascorse qualche anno e venne il momento che Antonico si prendesse una bella cotta per una ragazza. Fino ad allora, in questa o in quella inclinazione a infatuarsi, aveva trovato sempre una resistenza che lo aveva scoraggiato e lo aveva fatto indietreggiare senza troppe ferite. Ora, però, la cosa era diversa: si era innamorato veramente. Amava come un dissennato la bella morettina dell’isolato vicino, una ragazzetta adorabile dagli occhi neri come il velluto e la bocca fresca come un bocciolo. Antonico tornò un’altra volta a essere presente assiduamente in casa e si aprì alla madre con maggiore affetto; un giorno, quando ebbe scorso gli occhi della morettina fissarsi su di lui, entrò come un folle nella stanza della guercia e la baciò a lungo sul viso, anche sulla guancia sinistra, in un traboccare di scordata tenerezza.

Quel bacio fu per la donna un’inondazione di gioia. Aveva ritrovato il suo figlio caro. Si mise a canticchiare per tutto il pomeriggio, e quella notte, addormentandosi, confidò a sé stessa:

— Sono felice… mio figlio è un angelo!

Intanto Antonico scriveva, su carta fine, la sua dichiarazione d’amore. Il giorno seguente spedì la lettera di buonora. La risposta si fece attendere parecchio. Per molti giorni Antonico si perse in amare congetture.

All’inizio pensò: — È pudore.

Poi cominciò a sospettare qualcos’altro; alla fine ricevette una lettera in cui la bella morettina confessava di voler essere la sua innamorata, a patto che lui accettasse di separarsi da sua madre. Seguivano spiegazioni ingarbugliate, mal allineate: gli ricordava la necessità di cambiare quartiere; lì, era conosciuto come il figlio della guercia, e lei non voleva essere additata come la nuora della guercia, o qualcosa del genere.

Antonico si disperò. Non poteva credere che la sua casta e gentile morettina avesse pensieri così pratici.

Poi volse il suo rancore alla madre.

Lei era la causa di tutte le sue disgrazie. Aveva tormentato la sua infanzia, rovinato tutte le sue carriere, e ora il suo sogno più luminoso si sarebbe dissolto davanti a lui. Si sentì affliggersi per essere nato da una donna così brutta, e decise di cercare un modo per separarsi da lei; si sarebbe sentito umiliato se avesse continuato a vivere sotto lo stesso tetto; certo, avrebbe continuato ad accudire sua madre, ma lo avrebbe fatto da lontano, andando a trovarla qualche volta, di notte, furtivamente…

Salvava in questo modo la responsabilità di un figlio che deve prendersi cura della madre, e, al tempo stesso, poteva consacrare alla sua amata la felicità che le doveva in cambio del suo consenso e del suo amore…

Ebbe una giornata terribile; la sera, tornando a casa maturò il progetto e la decisione di riferirlo alla madre.

L’anziana donna, accovacciata davanti alla porticina del cortile, lavava alcune pentole con uno straccio unto. Antonico pensò: “Obbligherei veramente mia moglie a vivere con…una tale creatura?” Queste ultime parole furono strappate dal suo spirito con autentico dolore. La guercia sollevò il volto verso di lui, e Antonico, vedendo il pus che le colava sulla faccia, disse:

— Pulitevi la faccia, madre…

Lei affondò la testa nel grembiule e lui continuò:

— Alla fine, non mi avete mai spiegato a cosa è dovuto questo difetto!

— Fu una malattia – rispose la madre strozzando le parole — meglio non ricordarlo!

— Sempre la stessa risposta: meglio non ricordarlo! Perché?

— Perché non ne vale la pena; non c’è rimedio…

— Bene! Adesso ascoltate: ho da riferirvi una novità. Il padrone chiede che io vada a stare nelle vicinanze del negozio…ho già affittato una stanza; voi resterete qui, verrò tutti i giorni a trovarvi per sapere se avete bisogno di qualcosa… È per causa del lavoro; non abbiamo scelta, dobbiamo sottostare!…

Mingherlino, curvato per l’abitudine di cucire sulle ginocchia, asciutto e pallido come tutti i ragazzi cresciuti nell’ombra delle botteghe, dove il lavoro inizia presto e la sera finisce tardi, aveva gettato in quelle parole tutta la sua energia, e ora scrutava la madre con uno sguardo esitante e timoroso.

La guercia si alzò e, fissando il figlio con un’espressione tremenda, rispose con doloroso sdegno:

— Filibustiere! La verità e che ti vergogni di essere mio figlio! Vattene via! Che anch’io mi vergogno di essere la madre di un tale ingrato!

Il ragazzo se ne andò a testa bassa, dimesso e sorpreso dall’atteggiamento che aveva assunto la madre, fino ad allora sempre paziente e gentile, obbedendo meccanicamente a un ordine così ferocemente impartito.

Lei lo accompagnò fuori, serrò con un botto la porta, e vedendosi sola, si piegò contro il muro, scoppiando a piangere.

Antonico trascorse un pomeriggio e una notte di inquietudine.

La mattina seguente il suo primo pensiero fu quello di tornare a casa; ma non ebbe il coraggio di farlo; rivide il volto furioso della madre, le guance contratte, le labbra assottigliate dall’odio, le narici dilatate, il suo occhio destro sporgente, penetrante fino al fondo del suo cuore, il suo occhio sinistro formicolante, avvizzito e colmo di pus; rivide il suo atteggiamento altero, il suo dito ossuto, con le falangi sporgenti, che puntava energicamente verso la porta sulla strada.

Poteva sentire ancora il suono cavernoso della sua voce, il fiato che aveva preso per dire le vere e amare parole che gli aveva gettato in faccia; rivide tutta la scena del giorno prima e non osò affrontare un’altra volta il pericolo.

Si ricordò della madrina, l’unica amica della guercia, che, però, di rado andava a trovarla. Andò a chiederle di intercedere per lui, e le disse con franchezza tutto quello che era successo.

La madrina lo ascoltò commossa, poi disse:

— L’avevo previsto, quando consigliai a vostra madre di dirvi tutta la verità; lei non volle ascoltarmi, ed ecco!

— Quale verità, madrina?

Trovarono la guercia intenta a smacchiare il vestito elegante del figlio, voleva mandargli tutti gli indumenti lavati e puliti. La povera donna si era pentita delle parole che aveva pronunciato e aveva trascorso tutta la notte alla finestra, aspettando che Antonico tornasse o semplicemente passasse… Presagiva giorni avvenire vuoti e oscuri, e già si detestava. Quando l’amica e il figlio entrarono nella stanza, restò paralizzata: la sorpresa e la gioia le imbrigliarono ogni movimento.

La madrina di Antonico esordì subito:

— Il vostro ragazzo mi ha pregata di venire a chiedervi perdono per quanto è accaduto ieri e colgo l’occasione per dirgli quello che avreste dovuto dirgli voi, molto tempo fa.

— Non dite niente! – mormorò con voce spenta la guercia.

— Invece parlo! È proprio questa mollezza che vi sta facendo soffrire! Ascoltate, ragazzo! Chi accecò vostra madre foste voi!

Il figlioccio divenne livido in volto; la madrina continuò:

— Ah, non fu colpa vostra! Eravate molto piccolo quando, un giorno, a tavola, alzaste una forchetta nella mano; lei era distratta, e prima che potesse evitare la catastrofe, gliela conficcaste nell’occhio sinistro. Riesco ancora a sentire il suo grido di dolore.

Antonico cadde pesantemente a faccia in giù, in preda a uno svenimento; sua madre gli si avvicinò prontamente, borbottando tremante:

— Povero figlio! Vedi? Ecco perché non volevo dirti niente!

(1) È un frutto spontaneo autoctono del Brasile. La sua bacca è sferica, prevalentemente di colore giallo o rosso, mentre la polpa biancastra è di consistenza carnosa, di sapore dolce e lievemente acidula.

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Fernando Pessoa. Traduzioni di Emilio Capaccio

19 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Fernando Pessoa, poesia, traduzioni

La vita è ciò che facciamo di essa.

I viaggi sono i viaggiatori.

Ciò che vediamo non è ciò che vediamo,

ma ciò che siamo.

F. P.

Fernando Pessoa (1888-1935), traduzioni di Emilio Capaccio 

QUANDO VERRÀ LA PRIMAVERA

Quando verrà la primavera
se sarò già morto,
i fiori fioriranno della stessa maniera.
E gli alberi non saranno meno verdi della primavera scorsa.
La realtà non ha bisogno di me.
Sento un’allegria enorme
nel pensare che la mia morte non abbia alcuna importanza.
Se sapessi che domani morirei
e la primavera venisse dopo domani
morirei contento perché essa verrebbe dopo domani.
Se la primavera è il suo tempo, quando dovrebbe arrivare se non nel suo tempo?
Mi piace che tutto sia reale e che tutto sia certo;
e mi piace perché così sarebbe, anche se non mi piacesse.
Per questo, se muoio adesso, muoio contento,
perché tutto è reale e tutto è certo.
Possono pregare in latino sulla mia bara, se lo vogliono.
Se lo vogliono, possono danzare e cantare a ruota di essa.
Non ho preferenze per quando non è più possibile avere preferenze.
Qualunque cosa, quando sarà, sarà per quello che è.
 
QUANDO VIER A PRIMAVERA

Quando vier a Primavera,
Se eu já estiver morto,
As flores florirão da mesma maneira
E as árvores não serão menos verdes que na Primavera passada.
A realidade não precisa de mim.
Sinto uma alegria enorme
Ao pensar que a minha morte não tem importância nenhuma
Se soubesse que amanhã morria
E a Primavera era depois de amanhã,
Morreria contente, porque ela era depois de amanhã.
Se esse é o seu tempo, quando havia ela de vir senão no seu tempo?
Gosto que tudo seja real e que tudo esteja certo;
E gosto porque assim seria, mesmo que eu não gostasse.
Por isso, se morrer agora, morro contente,
Porque tudo é real e tudo está certo.
Podem rezar latim sobre o meu caixão, se quiserem.
Se quiserem, podem dançar e cantar à roda dele.
Não tenho preferências para quando já não puder ter preferências.
O que for, quando for, é que será o que é.
 
HO COSÌ TANTO SENTIMENTO

Ho così tanto sentimento
che spesso mi convinco
di essere sentimentale,
ma riconosco nel valutarmi
che tutto questo è un pensiero
che alla fine non ho mai fatto.
Noi, tutti quelli che vivono,
abbiamo una vita che è vissuta
e un’altra che è pensata,
ma l’unica che abbiamo
in effetti, è quella che si divide
tra la vera e la falsa.
Quale tuttavia sia quella vera
e quale quella falsa,
nessuno potrà mai spiegarlo;
e viviamo di modo
che la vita che abbiamo
è quella che pensiamo.
 
TENHO TANTO SENTIMENTO

Tenho tanto sentimento
Que é frequente persuadir-me
De que sou sentimental,
Mas reconheço, ao medir-me,
Que tudo isso é pensamento,
Que não senti afinal.
Temos, todos que vivemos,
Uma vida que é vivida
E outra vida que é pensada,
E a única vida que temos
É essa que é dividida
Entre a verdadeira e a errada.
Qual porém é a verdadeira
E qual errada, ninguém
Nos saberá explicar;
E vivemos de maneira
Que a vida que a gente tem
É a que tem que pensar.
 

VEDO I PAESAGGI SOGNATI


Vedo i paesaggi sognati con la stessa chiarezza con cui fisso quelli reali. Se mi sporgo sui miei sogni è su qualcosa che mi sporgo.
Se vedo passare la vita, sogno qualcosa.

Qualcuno ha detto che le figure dei sogni hanno stesso rilievo e ritaglio delle figure della vita. Per me, anche se comprendessi che si usasse una simile frase, non la accetterei. Per me, le figure dei sogni non sono uguali a quelle della vita. Sono parallele.
 
VEJO AS PAISAGENS SONHADAS


Vejo as paisagens sonhadas com a mesma clareza com que fito as reais. Se me debruço sobre os meus sonhos é sobre qualquer coisa que me debruço.
Se vejo a vida passar, sonho qualquer coisa.

De alguém disse que para ele as figuras dos sonhos tinham o mesmo relevo e recorte que as figuras a vida. Para mim, embora compreendesse que se me aplicasse frase semelhante, não a aceitaria. As figuras dos sonhos não são para mim iguais às da vida. São paralelas.
 
NON VADO A TROVARE NESSUNO NON FREQUENTO ALCUNA SOCIETÀ


Non vado a trovare nessuno, non frequento alcuna società — né dentro i salotti, né dentro i caffè. Farlo sarebbe sacrificare la mia unità interiore, arrendersi a conversazioni inutili, rubare tempo quantomeno ai miei ragionamenti e ai miei progetti, se non altro ai miei sogni, che sono più belli delle chiacchiere altrui.
Mi devo all’umanità futura. Quanto di me sprecherei è il patrimonio divino possibile degli uomini di domani; ridurrei la felicità che potrei dargli e ridurrei me stesso, non solo ai miei occhi reali, ma agli occhi di Dio.
Può non essere così, ma sento il dovere di crederlo.
 
NÃO FAÇO VISITAS NEM ANDO EM SOCIEDADE ALGUMA


Não faço visitas, nem ando em sociedade alguma – nem de salas, nem de cafés. Fazê-lo seria sacrificar a minha unidade interior, entregar-me a conversas inúteis, furtar tempo senão aos meus raciocínios e aos meus projectos, pelo menos aos meus sonhos, que sempre são mais belos que a conversa alheia.
Devo-me a humanidade futura. Quanto me desperdiçar desperdiço do divino património possível dos homens de amanhã; diminuo-lhes a felicidade que lhes posso dar e diminuo-me a mim-próprio, não só aos meus olhos reais, mas aos olhos possíveis de Deus.
Isto pode não ser assim, mas sinto que é meu dever crê-lo.
 

 
NON HO MAI CUSTODITO GREGGI

Non ho mai custodito greggi
ma è come se li custodissi.
La mia anima come un pastore
conosce il vento e il sole
e va mano a mano con le stagioni
a seguire e a guardare.
Tutta la pace della natura senza gente
viene a sedersi accanto.
E io divento triste come un crepuscolo
per la nostra immaginazione
quando raffresca in fondo alla pianura
e si sente la notte entrare
dalla finestra come una farfalla.

Ma la mia tristezza è quieta
perché è naturale e giusta
ed è ciò che nell’anima deve esserci
quando essa pensa d’esistere
e le mani colgono fiori senza che se ne accorga.

Come uno scampanellio di sonagli
oltre la curva della strada,
i miei pensieri sono contenti.
Solo mi dispiace sapere che sono contenti,
perché se non lo sapessi
invece d’essere contenti e tristi,
sarebbero allegri e contenti.

Pensare è spiacevole come andare nella pioggia
quando il vento cresce e sembra piovere di più.

Non ho ambizioni né desideri
essere poeta non è una mia ambizione
è il mio modo di stare solo.

E se desidero a volte,
per divagare, essere un agnellino
(o tutto il gregge
a sparpagliarmi nella costa
ed essere al contempo tante cose felici)

è solo perché sento ciò che scrivo al crepuscolo
o quando una nuvola passa la mano sulla luce
e corre un silenzio attraverso l’erba.

Quando mi siedo a scrivere versi
o, passeggiando per sentieri e scorciatoie,
scrivo versi su un foglio che è nel mio pensiero,
sento un vincastro tra le mani
e vedo un ritaglio di me
in cima ad un’altura,
tenere d’occhio il mio gregge e vedere le mie idee
o tenere d’occhio le mie idee e vedere il mio gregge
e sorridere vagamente come chi non comprende
ciò di cui si parla e vuole fingere di comprendere.
Saluto tutti quelli che mi leggeranno,
togliendomi il largo cappello
quando mi vedono alla mia porta
non appena la diligenza s’eleva in cima alla collina.

Li saluto e gli auguro il sole,
e la pioggia, quando la pioggia è necessaria
e che le loro case abbiano
ai piedi d’una finestra aperta
una sedia prediletta
dove si seggano, leggendo i miei versi.
E leggendo i miei versi pensino
che io sia una cosa naturale ―
per esempio, un albero antico
all’ombra del quale da bambini
si sedevano con un tonfo, stanchi di giocare
e si pulivano il sudore dalla testa accaldata
con la manica del grembiulino a righe.
 
EU NUNCA GUARDEI REBANHOS

Eu nunca guardei rebanhos,
Mas é como se os guardasse.
Minha alma é como um pastor,
Conhece o vento e o sol
E anda pela mão das Estações
A seguir e a olhar.
Toda a paz da Natureza sem gente
Vem sentar-se a meu lado.
Mas eu fico triste como um pôr de sol
Para a nossa imaginação,
Quando esfria no fundo da planície
E se sente a noite entrada
Como uma borboleta pela janela.

Mas a minha tristeza é sossego
Porque é natural e justa
E é o que deve estar na alma
Quando já pensa que existe
E as mãos colhem flores sem ela dar por isso.

Como um ruído de chocalhos
Para além da curva da estrada,
Os meus pensamentos são contentes.
Só tenho pena de saber que eles são contentes,
Porque, se o não soubesse,
Em vez de serem contentes e tristes,
Seriam alegres e contentes.

Pensar incomoda como andar à chuva
Quando o vento cresce e parece que chove mais.

Não tenho ambições nem desejos
Ser poeta não é uma ambição minha
É a minha maneira de estar sozinho.

E se desejo às vezes
Por imaginar, ser cordeirinho
(Ou ser o rebanho todo
Para andar espalhado por toda a encosta
A ser muita cousa feliz ao mesmo tempo),

É só porque sinto o que escrevo ao pôr do sol,
Ou quando uma nuvem passa a mão por cima da luz
E corre um silêncio pela erva fora.

Quando me sento a escrever versos
Ou, passeando pelos caminhos ou pelos atalhos,
Escrevo versos num papel que está no meu pensamento,
Sinto um cajado nas mãos
E vejo um recorte de mim
No cimo dum outeiro,
Olhando para o meu rebanho e vendo as minhas ideias,
Ou olhando para as minhas ideias e vendo o meu rebanho,
E sorrindo vagamente como quem não compreende o que se diz
E quer fingir que compreende.
Saúdo todos os que me lerem,
Tirando-lhes o chapéu largo
Quando me vêem à minha porta
Mal a diligência levanta no cimo do outeiro.

Saúdo-os e desejo-lhes sol,
E chuva, quando a chuva é precisa,
E que as suas casas tenham
Ao pé duma janela aberta
Uma cadeira predileta
Onde se sentem, lendo os meus versos.
E ao lerem os meus versos pensem
Que sou qualquer cousa natural –
Por exemplo, a árvore antiga
À sombra da qual quando crianças
Se sentavam com um baque, cansados de brincar,
E limpavam o suor da testa quente
Com a manga do bibe riscado.
 
PREGHIERA

Signore, la notte viene e l’anima è vile.
Tanto fu lo sconquasso e la bramosia!
Ci rimane oggi nel silenzio ostile
il mare universale e la nostalgia.

Ma la fiamma, che la vita in noi creò,
se ancora ha vita, ancora non è spenta.
Il freddo morto in cenere la occultò:
la mano del vento può darle altra spinta.

Dia il soffio, la brezza – rovina o trepidanza –
affinché la fiamma dell’ardire venga in mostra,
e conquisteremo di nuovo la Distanza –
del mare o un’altra, ma che sia la nostra!
 
PRECE

Senhor, a noite veio e a alma é vil.
Tanta foi a tormenta e a vontade!
Restam-nos hoje, no silencio hostil,
o mar universal e a saudade.

Mas a chamma, que a vida em nós creou,
se ainda há vida ainda não é finda.
O frio morto em cinzas a ocultou:
a mão do vento pode erguel-a ainda.

Dá o sopro, a aragem – ou desgraça ou ancia –
com que a chamma do esforço se remoça,
e outra vez conquistemos a Distancia –
do mar ou outra, mas que seja nossa!
 
NON BASTA APRIRE LA FINESTRA

Non basta aprire la finestra
per vedere i campi e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere alberi e fiori.
È necessario anche non avere alcuna filosofia.
Con la filosofia non ci sono alberi: ci sono solo idee.
C’è soltanto ognuno di noi, come una caverna.
C’è soltanto una finestra chiusa e il mondo là fuori;
e un sogno di ciò che si potrebbe vedere se la finestra s’aprisse,
che mai è ciò che si vede quando la finestra s’apre.
 
NÃO BASTA ABRIR A JANELA

Não basta abrir a janela
para ver os campos e o rio.
Não é bastante não ser cego
para ver as árvores e as flores.
É preciso também não ter filosofia nenhuma.
Com filosofia não há árvores: há ideias apenas.
Há só cada um de nós, como uma cave.
Há só uma janela fechada, e todo o mundo lá fora;
e um sonho do que se poderia ver se a janela se abrisse,
que nunca é o que se vê quando se abre a janela.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “L’immagine” di José Pedro Bellán

12 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, José Pedro Bellán, L'immagine, Racconti, traduzioni

U R U G U A Y

L’IMMAGINE

(1914)

José Pedro Bellán (1889-1930)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato drammaturgo, per il quale è maggiormente conosciuto, insegnante in varie scuole e corsi serali, scrittore, politico, esponente del partito “Colorado”, uno dei partiti politici che ha governato per più anni il paese. È stato deputato dal 1926 al 1930. Ha fatto parte del movimento artistico e letterario che ha dato vita, nella città di Montevideo, alla rivista “Bohemia”, pubblicata dal 1908 al 1910, diretta da Louis Alberto Lista e, in seguito, da Edmundo Bianchi. Le sue opere teatrali e le sue raccolte di racconti rispecchiano in prevalenza la corrente del realismo con grande capacità di introspezione dei personaggi, affrontando tematiche attinenti il puritanesimo, il ruolo della donna, l’educazione cattolica, e la cultura borghese. In generale, i personaggi di Bellán, spesso, si fanno portatori di conflitti interiori che scaturiscono dal nuovo modello spaziale di aggregazione sociale, che è la grande città, degli inizi del ‘900 a scapito dell’ambiente rurale. Il racconto proposto è tratto da una delle prime raccolte: “Huerco”.

In una delle ultime casette del barrio dei pescatori, quasi sulla riva del mare, il vecchio Leopoldo, settantenne, fuma la pipa carica di virginia (1). Davanti a lui, la moglie del figlio, pungolata da un pensiero tenace, rammenda una calza grigia bucata sul tallone. Restano così per molto tempo: muti, senza guardarsi, come se fossero soli. Certamente hanno lo stesso pensiero.

La tempesta non si ferma. Per tre ore ha sconquassato il barrio e lo ha riempito di paura.

Il mare è una tempesta immensa che stordisce. I suoi promontori d’acqua durano per un istante, convulsi, inquieti, poi crollano nello stesso momento. Sembrano ribollire.

Tutte le barche sono tornate fuorché una.

— Maria ci mette troppo, dice Leopoldo, rompendo il silenzio.

Si riferisce alla nipote di dieci anni, una bella bambina con gli occhi azzurri, bianca e delicata. L’hanno mandata già tre volte a chiedere notizie e per tre volte ha cercato i compagni di suo padre, i pescatori salvi, implorandoli di riferire qualche informazione, anche la più semplice, la più insignificante.

Quando è tornata, ha risposto nello stesso modo delle volte precedenti.

— Nessuno sa niente… nessuno lo ha visto.

Si è seduta vicino al tavolo e vi si è appoggiata. Le sue piccole mani esangui si sono congiunte come in preghiera.

La scena si è ripetuta. L’immagine fredda del raccoglimento stretto alle cose ha permeato la stanza. È passato un po’ di tempo.

Leopoldo parla di nuovo. La sua voce si fa inquieta e spaventa.

— Questo vento!

Elena ascolta con ansia. Poi, spinta dai suoi pensieri, domanda:

— Quanti erano nella barca?

— I soliti. Lui e i due ragazzi.

Si ferma. Poi sbotta:

— Una volta sono quasi annegato.

Elena chiede con interesse:

— E come vi siete salvato?

— Ascolta tu stessa. Era notte. Il vento si infilava tra il velame in una maniera tale che ebbi paura avrebbe rovesciato la barca. Allora mi legai a essa, annodai le corde agli anelli e, non potendo sciogliere le vele, le squarciai con il coltello. In seguito, stemmo più di sette ore sulla barca, come su una boa alla deriva. Un vaporetto ci soccorse.

— Se solo Renato avesse quest’idea – dice Elena, con l’immaginazione che corre.

— Sì… lui sa di queste cose…

Elena non pensa che lui lo sappia; ha dato uno sguardo attento al suo passato e non ricorda che Renato abbia mai parlato di qualcosa di simile. Da ciò intuisce che non saprebbe salvarsi e un’angoscia più grande le preme sulla gola. In tutto questo, la bambina sembra addormentata sul tavolo.

Senza rendersene conto, Elena giunge a una crudele tenerezza. Esclama tristemente:

— Povero Renato… ricordate quando vi siete andato in collera con lui? Nessun figlio si sarebbe comportato così.

— È vero ragazza, avete ragione. Ricordo anche che in seguito ho pianto per la prima volta. Che cuore!…

Elena continua:

— Non se la prende mai per niente. Vedeste la guerra che gli fece mio padre. Tuttavia, dopo che ci siamo sposati, Renato non ha smesso di fargli favori. Se n’è preso cura e lo ha mantenuto. Si può dire che mio padre ha vissuto a sue spese.

Ora non riesce a trattenersi. Emette un singhiozzo.

— Andiamo ragazza; non c’è motivo di piangere…

Entrambi si fanno silenziosi per paura di farsi prendere troppo dall’inquietudine. Leopoldo afferra un palangaro e lo svolge quanto gli consente lo spazio intorno a lui. Dopo lo rimette a posto, controllando amo dopo amo, sughero dopo sughero. Qualcosa di strano passa attraverso il palangaro, tra le sue dita febbrili.

Elena mette da parte il rammendo senza rendersene conto. Guarda il vecchio e lo osserva a lungo con ansia, cercando una risposta alla sua muta domanda, insistendo su quel volto rinsecchito che resta tranquillo. È convinta che il vecchio lo sa, necessariamente. Trent’anni in mare, non gli danno il diritto di conoscerlo bene?…

Si alza e prendendolo per le spalle gli dice in una supplica disperata:

— Voi lo sapete… voi lo sapete…

Il vecchio spalanca gli occhi per lo stupore. In quel momento il suo Renato è un ragazzino che ha appena finito di gattonare, che ha disordinato tutto rompendo i ninnoli, che dice, mamma, papà, e che piange quando non lo baciano. Tarda solo pochi secondi per capire cosa vuole quella ragazza. Allora il rude scuotimento gli fa umidire gli occhi, e risponde in modo ottuso:

— Non lo so… come faccio a saperlo?…

Questa volta è lei a usare parole di conforto.

— Ora siete voi che vi ponete male — dice affettuosamente. — Aspettiamo. È possibile che non sia accaduto nulla di grave.

Ma, sentendo che Leopoldo respira violentemente, continua con maggiore tenerezza:

— Calmatevi… vi farà male. E poi… Maria è lì. Se si svegliasse e ci sorprendesse… La povera piccola è felice dormendo.

Leopoldo bacia la ragazza e lei si siede al suo fianco, sfiorandolo quasi con la gonna. Così, messi uno accanto all’altro, si sentono meglio.

Tornano a parlare di Renato. All’inizio lo fanno con animo sereno, con più fermezza. Tuttavia, nel momento in cui i dettagli dei ricordi emergono, un tono commosso sale dalle loro gole.

Parlano di lui come se non esistesse.

Maria li interrompe bruscamente. Dal suo sogno esclama a mezza voce:

— Sì, la barca… la barca… – Poi un grande grido, angoscioso, indefinito.

— Avete sentito? — Dice convulsivamente Elena — Sarà qualche incubo.

— Chi lo sa. Sogna… che cosa sognerà?…

— Dovrei svegliarla?

— No no, lasciatela dormire tranquilla. Sarà felice. Immagino che sogni suo padre!

I due si alzano per osservarla meglio. Elena arriva prima. Una sensazione di freddo le rende difficile la respirazione. Rimane immobile, insieme al vecchio, che patisce la stessa difficoltà. Entrambi sembrano trattenuti da una straordinaria visione.

Leopoldo, con la mano ad artiglio si preme una guancia. La pelle della fronte, in profondi solchi, si stende e la sua bocca resta aperta, anelante, pietosa, come un becco assetato.

A sua volta, Elena mostra una sorpresa lampante. Si regge la fronte e stringe le palpebre, muovendo la testa da un lato all’altro, come se volesse sfuggire ad un’immagine che la investe da ogni parte. Sente le gambe afflosciarsi e cade sulla panca, vicino al tavolo.

Mormora:

— È possibile… solo… solo…!

Regna il silenzio dell’emozione. I due fanno un gesto. Una moltitudine di espressioni appare sui loro volti, con sorprendente rapidità. Terrore, angoscia, veemenza, panico, contentezza, paura, delusione, impotenza, tutto accelerato, fuggente, tutto convulso. Pare che abbiano visto qualcosa di tremendo dalla finestra.

— Che onda formidabile — esclama Elena, come una dissennata. — Lo ucciderà, lo ucciderà! Oh!…

Sta per continuare ma Leopoldo le copre la bocca.

— Zitta… zitta… — e le afferra la testa con entrambe le mani. Il cuore dei due si sente battere con strepitio. Maria continua a dormire nella stessa posizione, con il viso nascosto tra le braccia acciambellate a forma di nido. La candela accesa poco prima da Elena illumina metà della stanza. Un’ombra spessa e irregolare ricade pesantemente sulla testa della bambina.

— La tempesta è più forte lì. Avete sentito?… È più forte lì.

Leopoldo cerca di frenarla per impedirle di dire ciò che vorrebbe dire.

— Ti inganni, ti inganni… – risponde con spontaneità. — Ne so più di te. La barca resiste perché…

Tace, chiude gli occhi, fa uno sforzo mentale e dice con implorante incoerenza.

— No, no; se avesse forza, se potesse ancora…se ha perso i sensi?

Elena abbraccia il vecchio.

— Papà – chiama il suocero — Papà… il mio Renato sta morendo… Guardate, guardate… che colpo di mare… lo ha trascinato dentro.

— Ah! Ah!… uscite fuori…uscite fuori…venite a vedere?

Elena… le sue gambe pendono dalla balaustra. Si regge. E i due, abbracciati più forte, guardandosi negli occhi, continuano fatalmente la narrazione di un fatto che si produce nello stesso istante, a qualche miglio in mezzo al mare.

— Oh… non reggerà…

— Sì… vi dico di sì…

— No, no… oh… come si solleva il mare…

— Cade, cade… si sgonfia…

— La barca è scomparsa, la barca è affondata… dov’è?…

— Appare… l’onda è passata sopra…

— E Renato è lì… ha gli occhi chiusi… è tutto livido.

Elena si scuote con violenza.

— Oh!… che orrore… che bestia grande… terribile… la bocca… la bocca… si avvicina a Renato… mio Dio!…

— Renato… tirati su, tirati su… – grida Leopoldo, come se l’altro potesse sentirlo.

— Se lo prende… se lo prende – esclama Elena — ha ingoiato una gamba… se lo porta… cade in mare… cade in mare…ormai… è caduto… è caduto… è caduto… non si vede più… è affondato… è affondato Renato! Renato… – conclude con voce strozzata e il suo corpo ondeggia come una colonna colpita alla base.

In quel momento, Maria si sveglia. Senza notare fuori sua madre e suo nonno, setaccia la stanza con un’occhiata. Poi, gira per tutta la casa, gridando dolorosamente, chiamando con angosciosa impazienza, come se l’essere che cerca volesse fuggirle con spietatezza.

— Papà… papà…

Un gatto nero sfreccia per la stanza.

(1) Indica per omonimia il tipo di tabacco che viene prodotto nello stato della Virginia negli Stati Uniti d’America.

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~A viva voce~

30 sabato Apr 2022

Posted by Francesco Palmieri in LETTERATURA E POESIA, ~A viva voce~

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Emilio Capaccio, Francesco Palmieri, Vivere insieme come le formiche

Con questa rubrica si vorrebbe dare ‘voce viva’ a testi di diverso genere e ad autori noti e meno noti che di solito vengono conosciuti tramite lettura personale e spesso silenziosa. Senza nulla togliere alla profondità dell’esperienza soggettiva di immersione nel testo, con questo tentativo si vuole porre l’accento sulla modalità dell’ascolto e della compartecipazione acustica dell’espressione letteraria, così come accade quando assistiamo ad uno spettacolo teatrale o, più semplicemente, quando dialoghiamo. La scelta di autori e testi sarà a cura della redazione, tuttavia non si esclude che potranno essere prese in considerazione proposte di testi poetici su iniziativa di esterni alla stessa redazione, che il curatore leggerà, avendo cura di inviare copia del testo proposto. Solo un’avvertenza: la voce narrante è quella di un lettore comune e non l’espressione professionale di un attore, così come l’ambiente operativo che non è uno studio di registrazione.

 

https://liminamundi.files.wordpress.com/2022/04/voce-045.m4a

 

VIVERE INSIEME COME LE FORMICHE

 

Vivere insieme come le formiche è una gran bella cosa

tutti possono dire di avere un barbecue sotto un fico

non sentirsi mai soli tra gli schiocchi di lingue

mettere su famiglia con il vicino di casa

ciondolare pettegolezzi come sfere armillari

spiare l’orco dalla finestra nell’ora di cena

aprire il frigo di chi spalma sul pane un segreto

sapere l’oroscopo di ogni bocca del formicaio

Ogni tanto qualcuno con un missile tra i denti

sceglie per te un destino di miseria

Ti dice:

“Arrenditi, hai troppi separatisti nella tua casa!”

Butta giù la porta e si mette a urlare:

“O la borsa o la vita!”

Ti ordina di sbrattare se non paghi la pigione per il letto

in cui ti dondoli con la luna

Ti assegna la morte di cui devi morire

senza che tu possa scegliere

se crepare nella buca di una via bombardata

o in un bel prato marzolino

Ma vivere insieme come le formiche è una gran bella cosa

anche se le formiche hanno

TUTTE

la stessa fame e giornate operose

non hanno tempo per fare esperimenti nucleari

Di farsi esplodere una bomba nelle mutande

 

Testo di Emilio Capaccio

Lettura di Francesco Palmieri

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Io non so se sono lei” di Roberto Arlt

28 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Io non so se sono lei, Racconti, Robert Arlt, traduzioni

A R G E N T I N A

IO NON SO SE SONO LEI

(1935)

Roberto Arlt (1900-1942)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di emigrati, padre prussiano e madre triestina, è stato uno scrittore, drammaturgo e giornalista di grande talento. I suoi reportage, come corrispondente della guerra civile spagnola, appaiono sul quotidiano “El Mundo”, di Buenos Aires, diretto da Alberto Gerchunoff. Su una colonna dello stesso, puntualmente, appaiono anche resoconti di viaggi all’interno dei confini del paese e in paesi come Brasile, Uruguay e Nordafrica. Molta popolarità assumono le sue “aguafuertes”, cronache, a volte, dalle tinte “costumbriste”, che trattano temi sociali e politici, con spirito critico e condanna delle condizioni dei più derelitti nei “barrios” miseri e popolosi. I suoi personaggi, spesso donne, sono permeati da atmosfere cupe e spietate della Buenos Aires dei primi anni del XX secolo. La sua scrittura rompe gli schemi della narrativa tradizionale modernista, mediante l’utilizzo di un linguaggio più duro e asciutto e di temi connessi con le problematiche del progresso tecnologico e dell’espansione caotica e allucinante dei centri di agglomerazione urbana. È considerato uno dei fondatori della moderna letteratura argentina e padre spirituale di un’intera generazione di scrittori sudamericani, come: Riccardo Piglia, Gabriel García Márquez, Isabel Allende e altri. Il racconto proposto è apparso sulla rivista “El Hogar” il 23 febbraio del 1935. Non è contemplato nelle due raccolte di racconti che Arlt ha pubblicato in vita. Solo nel 2018, il racconto è stato inserito nella raccolta completa: “El bandido en el bosque de ladrillo”, a cura di Gastón S. Gallo, edito da Simurg.

Fred, stupito, piantò lo sguardo su un’immagine della rivista, scritta in una lingua che non comprendeva. Greta Garbo, guardandosi allo specchio, con la mano destra immortalava lo spazzolino con cui si lavava i denti. Ai lati della fotografia, una boccetta di stagno versava un lago color rosa di pasta dentifricia: Crystaldent.

La diva, avvolta in una vestaglia da camera di velluto, ruotava la testa sorridendo con le sue labbra simili ai petali di un’orchidea. Per un attimo, Fred rimase curvo sulla rivista americana, poi, seduto sul ciglio del letto, rifletté:

“È assurdo che Greta Garbo si presti a fare la pubblicità di un dentifricio, nessuna attrice che si rispetti arriverebbe a tanto. A meno che non abbia grane finanziarie. Ma in che cosa spende ciò che guadagna? Ad ogni modo, chi si salva dal fare cose stupidi? Se io, tre anni fa, come avevo pensato, mi fossi messo a studiare inglese, la mia situazione sarebbe un po’ diversa.”

Avvicinò la testa all’immagine. Indubbiamente, la ragazza della pasta dentifricia era Greta Garbo. Sollevò gli occhi per confrontare l’immagine della rivista con una fotografia che aveva attaccato al muro molto tempo prima. Era lei, con i suoi capelli di vetro biondo, le palpebre socchiuse, gli occhi rivolti al cielo, le labbra simili ai petali di un’orchidea, con la molla dei baci rotta per sempre, come se pretendesse in un desiderio inestinguibile risucchiare tutti i piaceri che soffiano le brezze da ogni direzione del mondo.

Ripeté tra sé:

“Soffrirebbe di ristrettezze economiche. Ma è assurdo. Forse, al momento opportuno, una mattina è arrivato un agente pubblicitario, uno di quei promotori dall’aria gioviale che, offrendo grossi sigari, avrà snocciolato un motivo di facile comprensione. Le avrà detto:

— Vi occorre qualcosa, miss Greta? Posi per Crystaldent. Centomila dollari, all right?”

Staccandosi dal tavolo, Fred si sistemò su una sedia accanto allo spigolo del letto. Nonostante l’ordine, la sua camera dava l’impressione di essere stata smantellata. Osservò con la coda dell’occhio il ritratto dell’attrice, appeso al muro, ombreggiato nelle parti scure, e in cui l’iposolfito del bagno, che cominciava a decomporsi, ingialliva le zone chiare. Si chiese per la centesima volta, parlando a voce alta:

— Che uomo potrebbe mai essere l’amante di una donna così? In lei tutto è commedia.

All’improvviso accade qualcosa di straordinario.

— Commedia in me! – ripeté una voce.

Fred alzò precipitosamente le palpebre.

La rivista era caduta per terra. Dalle pagine spiegazzate, la scia di un vestito saliva verticalmente nell’aria, come falpalà di fumo di un abito astrale. Sulla gorgiera bianca del vestito di raso nero fioriva un’adorabile testa.

La riconobbe all’istante. Era lei, con un copricapo di castoro che lasciava spuntare qualche ricciolo inanellato dietro i lobi delle orecchie. Tra le fioriture delle sue ciglia, osservava l’uomo dentro la stanza con una leggera ruga a forma di forcina sulla fronte, mentre Fred, con le mani appoggiate sul bordo del tavolo, si immobilizzava nel proprio stupore. Greta Garbo sorrideva scoprendo la fila dei denti, con gli occhi grigio-verdi illuminati come dagli ultimi bagliori del sole di un luogo esotico.

Fred rispose, senza sapere ciò che diceva:

— Non parlate così forte. La padrona di casa dorme nella stanza accanto. È una vecchia perversa.

Lei ancora non aveva ripreso a parlare.

Lo fissava gravemente. Sembrava di ritrovarsi in una steppa nevosa. A Fred, involontariamente, affiorò alla mente Anna Karenina (1). La donna si voltò bruscamente su sé stessa e si fermò davanti alla sua fotografia, attaccata alla buona sulla parete. Fred indovinò il suo pensiero e cercò di discolparsi.

— Non ho mai avuto abbastanza denaro per comprargli una cornice adeguata.

L’attrice sollevò il cuscino. Fred, sorridendo, continuò, guardando come lo lasciava cadere.

— È un buon metodo per capire se i letti siano puliti. Gli insetti hanno un debole per i cuscini.

Finalmente lei disse:

— Quindi, voi vivete qui?

— È più tetro di una galera, vero?

— Sì.

Ora apriva l’anta dell’armadio. Curiosava all’interno, mentre il suo corpo ondulava leggermente, come se sorreggesse il ricordo ancora recente di una piacevole danza.

— Tutti questi abiti sono invernali – commentò Fred. — Per di più, sono pieni di tarme.

Greta Garbo buttava l’occhio qua e là.

— Cercate una sedia? – Fece segno di cederle la sua. — È l’unica che c’è… La padrona di casa è una donna meschina.

Subito, la sua voce si arrochì nel fondo della gola. Le sue parole sembrarono sgorgare da più in profondità, pensò:

“Possibile che non abbia niente da dirle? Ora che lei è qui!”

Quando parlò nuovamente, il suo timbro rivelò una tale sofferenza che la diva nordica rimase immobile davanti all’armadio, con la schiena riflessa nello specchio.

— È meraviglioso e assai triste – proseguì Fred. — Voi, la donna che suscita soggezione nella moltitudine delle platee, siete qui, ora. Qui, realmente con il vostro corpo, con il vostro volto impossibile da concepire accanto al nostro.

Poi, si alzò dalla sedia e, afferratala per un braccio, la fece sedere sul bordo del letto. Come dal ciglio di un sogno, si domandò:

— È mai possibile tutto questo?

Greta Garbo contemplava le punte delle sue scarpe di raso.

— Siete qui, umile e triste come Susan Lenox, come Anna Christie, come la dolorosa amante de “La modella”(2). E io non so concepire altro da dirvi che silenzio. Riverserei nelle vostre orecchie parole meravigliose, ma mi accorgo solo ora che le parole sono meravigliose quando si rivolgono a un fantasma, non a una donna in carne e ossa. Mi ascoltate?

Con le gambe accavallate, poggiata sul sostegno del letto, la donna dai capelli di cristallo restava fredda e distante.

Fred proseguì:

— Mi guardate come un gatto che ha rubato il pesce, è così? Non mi importa. Perché siete venuta? Il vostro ambiente non è questo, e non comprendo la vostra lingua. Vi detesto. Questa è la verità. Vi detesto. Non conosco uno solo dei vostri ammiratori che non sia affamato del vostro amore. Non per godere di esso, siete così magra, ossuta e isterica, ma per avere la rifusione di umiliarvi, il piacere di piegarvi. Così con quell’unica moneta potremmo riscattare l’amara ammirazione che avete seminato nel cuore di tutte le donne.

Greta Garbo lo ascoltava come affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido.

Il pensiero rimestava in Fred grandi folate di odio.

— Oh, lo so! Se qualcuno potesse vedervi in questa misera stanza in affitto, davanti a queste fotografie macchiate dalle mosche, con il vostro aspetto di viaggiatrice stanca, vi compatirebbe.

Camminava lentamente da un punto all’altro della stanza.

— Lo so. Vi compatirebbero. Correrebbero a offrirvi un bicchiere di limonata, a cambiare le lenzuola. Ma perché ve ne state con la testa china? È per umiltà? No, non lo è. È perché conoscete la semplice meccanica dell’odio, e sperate che la sua raffica si disperda nell’aria. Quando avrò riversato ai vostri piedi tutto il risentimento che fa ribollire la mia indignazione, e la mia ira si sarà esaurita, solleverete il viso, e le vostre braccia fresche e indolenti ricadranno sulle mie spalle. Così avete fatto anche con gli altri, ed è per questo che vi odio, perché i nostri rancori si sciolgono come neve sul fiore delle vostre labbra.

L’attrice non sollevò le palpebre. Fissava la punta delle sue scarpe. Restò così, intristita, come sull’orlo di un precipizio, nelle cui profondità correva un nero torrente.

Fred si avvicinò e le disse sottovoce come se stesse rilevando un segreto:

— Ipocrita… la più ipocrita e perfida di tutte le donne! Provocatrice! Ora comprendete perché le donne corrono, come quando si va al mercato, ad esaltare per qualche moneta le peripezie della vostra esistenza di celluloide? Perché in ognuno di quei torbidi episodi, che voi siate meretrice, spia o demi-mondaine, riscoprono al sole le arterie della loro vita. Per questo vi amano e vi esaltano. Non potrebbe che essere così. Alla fine di ogni avventura, corre incontro a voi un disperato che, con il viso rivolto alla luce, trasforma in estasi la sua infamia, esclamando:

Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!

Ve ne rendete conto? Avete la virtù di trasformare in bellezza il sudiciume del mondo! Non volete rispondermi!? È chiaro! Risulta molto più comodo.

Fred accese una sigaretta e contemplò, per brevi istanti, come si spegneva nello specchio la fiamma del cerino.

— Eppure ci sono degli illusi che credono veramente in questo, nel vostro amore!… senza rendersi conto che non potrete mai amare nessuno, se non il vostro successo. Siete sempre stata così rabbiosamente egoista, che il vostro petto è rimasto senza sentimenti. Non mi meraviglia che finiate per mettere in bella mostra un dentifricio. Non c’è da stupirsi Oh! È ridicolo. Ridicolo e spaventoso.

Siete egoista e dura come la mala pietra contro cui si ferisce il piede lungo la strada. La vostra ingordigia e la violenza dei gesti, la falsa febbre dei vostri occhi, con ciglia ugualmente false, e le labbra spudorate che sono rimaste fiacche e inerti nel baciare così tante bocche senza baci, si traducono in pellicce, in collane, in viaggi lunghi come sogni e nello stritolare cuori semplici. Siete diventata un simbolo del secolo. Per questo meritereste di morire lapidata sulla riva del mare, affinché le acque vi purifichino. No… Sarebbe una morte fin troppo dolce. Dovrebbero legarvi a un palo, sopra un mucchio di legna secca, e come le streghe di un tempo, bruciarvi viva. E così le vostre ceneri sarebbero ripulite.

Fred si accasciò e, seduto accanto al tavolo, pose la fronte sulle dita di una mano.

La diva scostò un ricciolo dalle tempie, avanzò verso di lui, e in piedi, curva sulla sua spalla sinistra, gli parlò come a un vecchio amico:

— Tutti quegli uomini che caddero ai miei piedi e dissero: “Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!”. Tutti quegli uomini che ho incatenato per il collo e che ho accostato amorosamente al mio collo, tutti gli uomini le cui fronti febbrili si sono raffreddate al tocco delle mie labbra, mi hanno già detto anche queste parole che avete pronunciato voi: che meritavo di essere lapidata o che meritavo di essere bruciata viva. Ora capite? E in questo odio inestinguibile verso di me, sta la mia grandezza. Questo odio è la mia schiva bellezza. Non ho conosciuto uno solo di quegli uomini che hanno bevuto dalla mia bocca, come in un calice di seta, baci che fanno svaporare il cervello, che non abbia voluto lacerarmi sotto le sue unghie, incenerirmi con un bacio maledetto. Vi rendete conto di quanto è grande il vostro amore, tesoro mio?

Fred protestò furiosamente.

— Non chiamatemi tesoro… – Poi, senza poter trattenere un sorriso, borbottò: — Questa è bella.

La donna nordica ugualmente sorrise:

— D’altra parte, io non sono Greta Garbo.

— Non siete Greta Garbo? Ma come?

— Sono la ragazza della rivista.

— Ma siete uguale a lei.

— Così somigliante, sì, che a volte credo che io non sia io ma lei.

— Questa è davvero buona per una bella storia.

— Vi crea disturbo?

— Oh no! Nel modo più assoluto. Come potrei sentirmi a disagio dentro questo sortilegio?

A sua volta, la ragazza si mise a camminare per la stanza, lanciando in aria volute di fumo dalla sigaretta che aveva tra le mani.

— Un commerciante si accorse della mia somiglianza con la diva. Mi assunse per promuovere il suo banco. Un mese dopo i proventi erano cresciuti del trenta per cento. Quando si decise di prolungarmi il contratto, una casa di moda mi aveva già offerto venti volte di più. Viaggi, interviste con manager… La mia carriera è stata rapida, prodigiosa. Ho contratti con aziende di prodotti chimici, catene di grandi alberghi. Un impianto termale che era quasi sul lastrico mi assunse per una stagione e la pubblicità, abilmente orchestrata, riversò frotte di visitatori verso il lido deserto.

— Non avete girato qualche film?

— Mai!… Alcuni produttori cinematografici hanno chiesto di incontrarmi. Ho sempre rifiutato di fare cinema. A cosa servirebbe? Il mio successo dipende da quello della vera Greta Garbo.

— La vanità non vi ha tentata?

— Perché la vanità? Sono arrivata a non sapere se io sono io o sono lei. Nel mio guardaroba ho tutta la collezione dei costumi che Greta Garbo ha usato per girare i suoi film. Adrian, il sarto di Hollywood, mi manda sempre una copia dei modelli destinati a lei. Come Greta, mi hanno fotografato tra bambine bionde con mazzi di fiori, come Greta, mi hanno fotografato in mezzo a truffatori, marinai, trafficanti di gomma, avventurieri; come Greta, mi hanno fotografata a pesca, giocando sulla neve, guardando, desolata, dal parapetto di una nave, la costa che si dissolve nell’orizzonte… Ho finito per confondermi…io non so se sono lei. A volte mi sembra di sì…che sono Greta Garbo in uno dei suoi attacchi di nevrastenia, i quali, come nebbiolina, velano i contorni dei suoi successi.

E di lei, quella vera, che mi dite?…

— Non lo so… Non voglio vederla, non voglio sapere niente di lei come donna. Dicono che le sue ciglia siano finte, che i suoi piedi siano grandi, e che la sua mancanza di intelligenza sia molta. Niente di tutto questo mi riguarda e non mi interessa. Io sono Greta, la Greta perfezionata e filtrata attraverso l’arte degli stilisti, degli esperti dei laboratori fotografici e dei produttori di pasta dentifricia. E questo mi basta.

— Sì, credo che basti.

Fred osservava il profilo della ragazza, la linea del naso, il sopracciglio energico, le labbra come sfiorate da una folata di etere.

Lei continuò:

— Che cosa mi importa di tutto! Mi hanno adorata tanto! Lo sapete, uomo della stanza di questa pensione? Tutti! Come se fossi lei. E poi, io lo sono. Mi hanno amata per tanto tempo. Impiegati che hanno una moglie sgradevole, solitari che percorrono il mare in fuga da un fallimento fraudolento, lestofanti, fantasiosi. Nessuno ha voluto vedere in me la donna che fa la pubblicità di un modello di Gaster o dei profumi di Nieber. Io e l’altra ci siamo mescolate in un solo, indissolubile sogno. E tutti ci hanno dato il loro amore, anche le donne!

Parlava sempre come se fosse affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido venuto da lontano.

— Essere amata! Sapete perché mi sono staccata dalla pagina della rivista, uomo della stanza di questa pensione? Perché il vostro amore mi ha chiamata. Sì, mio caro! Il vostro grande amore! Avete passato ore e ore seduto ai piedi di questo letto a guardarmi negli occhi. E quando dicevate: “Io non potrei mai amarla”, era perché sapevate che io, o lei, o noi due, non saremmo mai venute qui, al vostro fianco. E ora lasciate che vi baci.

Poggiata come stava sul bordo del tavolo, corse al centro. Fred sollevò il viso e avvicinò la bocca. I petali di carne aderirono lentamente ai suoi, la sua anima veniva risucchiata in un sospiro che restava sospeso all’infervorarsi del cuore. L’odore salato del mare copriva le loro teste, i grandi occhi erano così vicini ai suoi che sentì perdersi dentro di loro. All’improvviso uno strepito terribile risuonò accanto, poté vedere come la figura della donna si rimpiccioliva, fino a che una piccola sagoma di bambola penetrò tra i fogli della rivista, e allora rialzò il viso con sonno e sofferenza. Un piacere era morto.


[1] Greta Garbo fu la protagonista di due versioni tratte dal romanzo di Lev Tolstoj: una versione senza sonoro diretta, nel 1927, da Edmund Goulding, dal titolo “Love”, e un rifacimento sonoro diretto, nel 1935, da Clarence Brown, dal titolo: “Anna Karenina”.

[2] Greta Garbo interpretò Susan Lenox nel film “Cortigiana” del 1931, diretto da Robert Zigler Leonard. Interpretò Anna Christie nell’omonimo film del 1930, diretto da Clarence Brown; di questo film, l’anno successivo venne girato una versione tedesca, diretta da Jacques Feyder, con protagonista la stessa Garbo, ma con un cast di attori diverso. Il film “La modella” fu girato nel 1930, diretto ancora da Clarence Brown.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La perquisizione” di Baldomero Lillo

14 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Baldomero Lillo, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, la perquisizione, Racconti, traduzioni

C I L E

LA PERQUISIZIONE

(1917)

Baldomero Lillo (1867-1923)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato il principale esponente del naturalismo sociale nella letteratura cilena. Il suo stile preciso ed espressivo, dai chiari echi modernisti, con descrizioni minuziose dei paesaggi, risente dell’influenza dei grandi naturalisti europei, quali: Honoré de Balzac, Émile Zola, Lev Tolstoj. Collaborò con varie riviste e giornali, tra i quali la rivista “Zig-Zag” e i quotidiani “El Mercurio” e “Las Últimas Noticias”. I suoi personaggi appartengono ai ceti sociali più poveri e sfruttati, irretiti nel loro destino, in una squallida miseria. Al lavoro nelle miniere e all’aspra vita delle comunità minerarie dedica una raccolta di racconti, intitolata “Sub Terra”, pubblicata nel 1904. L’opera è il frutto della conoscenza delle dure condizioni di vita dei minatori di carbone del suo villaggio, fatta attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, e dell’esperienza che Lillo stesso fece in uno spaccio di una miniera negli anni giovanili. Il racconto proposto è tratto dalla seconda edizione della raccolta, pubblicata nel 1917, con l’aggiunta di cinque racconti, tra cui “El registro”, ovvero “La perquisizione”.

La mattina era fredda e nebbiosa, una sottile pioggerella bagnava i grossi cespugli di vecchi boldi (1) e di litracee (2) rachitiche. L’anziana donna, con la gonna arrotolata e i piedi scalzi, andava a passo svelto per l’angusto sentiero, evitando per quanto possibile l’unghiata dei rami, dai quali scorrevano grossi goccioloni, che foravano il terreno molle e spugnoso della scorciatoia. Era un sentiero solitario e poco battuto che, deviando dalla strada scura, conduceva a un piccolo insediamento distante una lega e mezza dall’imponente stabilimento carbonifero, le cui costruzioni apparivano, di tanto in tanto, fra le radure della boscaglia, nella distanza sfocata dell’orizzonte.

Nonostante il freddo e la pioggia, il viso della donna era intriso di sudore e il suo respiro, rotto e affannoso. Stretto al petto, portava un fagotto avviluppato tra le pieghe del logoro scialle di lana.

Piccola, esile, rinsecchita. Il suo volto, pieno di rughe con occhi scuri e tristi, aveva un’espressione umile, rassegnata. Si mostrava molto inquieta e sospettosa, e man mano che gli alberi diventavano più radi, si faceva più visibile la paura e l’agitazione.

Quando sboccò sul margine del bosco, si fermò un istante a guardare con attenzione lo spazio scoperto che si estendeva davanti a lei, come un immenso lenzuolo grigio, sotto il cielo d’ardesia, quasi nero in direzione del nordest.

La pianura sabbiosa e sterile era deserta. A diritta, interrompendo la loro monotona uniformità, si alzavano i muri bianchi dei capannoni coronati dalle lisce soffittature di zinco, che scintillavano sotto la pioggia. E più in là, toccando quasi le pesanti nubi, saliva dall’enorme ciminiera della miniera il nero ciuffo di fumo, contorto, sbrindellato dalle raffiche furibonde del settentrione. L’anziana donna, sempre timorosa e irrequieta, dopo un istante di osservazione fece passare il suo corpo sottile tra i fili di ferro della recinzione che delimitava da quel lato i terreni della struttura, e si incamminò in linea retta verso le abitazioni. Di tanto in tanto si chinava a raccogliere il biodo umido, stecchi di legno, rametti, radici secche disseminate nella sabbia, con cui realizzò un piccolo fastello che fissò con uno spago e adagiò sulla testa.

Con questo trofeo fece il suo ingresso lungo i corridoi degli alloggi, ma gli sguardi ironici, i sorrisetti e le parole a doppio senso indirizzate al suo passaggio, le fecero capire che lo stratagemma era noto e non ingannava gli occhi penetranti delle vicine.

Sicura del riserbo di quella brava gente, non diede importanza a quelle frecciatine e si fermò solo quando si trovò davanti la porta del suo alloggio. Infilò la chiave nella serratura, fece girare i cardini e una volta dentro passò il catenaccio.

Dopo aver sistemato in un angolo il fastello e adagiato accuratamente il fagotto sul letto, si tolse lo scialle e lo appese a una cordicella che attraversava la stanza all’altezza della testa.

Più tardi, diede fuoco a un mucchietto di sterpi e di carbone che era pronto nel camino e sedendosi su una piccola panca davanti al focolare, attese. Una fiamma scintillante si alzò e illuminò la stanza sui cui muri nudi e freddi si disegnò l’ombra surreale e spigolosa dell’anziana. Quando credette che il calore fosse sufficiente, mise sui ferri la teiera con l’acqua per il mate, afferrò il pacco sul letto, lo slegò e collocò il suo contenuto, una libbra di erba e una libbra di zucchero, sull’estremità della panca, dove si trovavano già la tazza di maiolica sbreccata e la cannuccia di latta.

Mentre il fuoco scoppiettava, la donna accarezzò con le dita secche l’erba sottile e lucida di un bel colore verde, pregustandosi la squisita bevanda che il suo palato goloso era impaziente di provare.

Era da molto tempo che il desiderio di assaporare un mate di quell’erba odorosa e fragrante era diventato un’ossessione, un chiodo fisso nel suo cervello di sessagenaria. Ma quanto le era stato difficile soddisfare quel “vizio”, come lo chiamava lei; perché suo nipote José, che faceva il custode della miniera, guadagnava appena quel poco per non morire di fame, ed era l’unico a lavorare.

L’erba dello spaccio era scadente e aveva un cattivo gusto, mentre nel villaggio, ce n’era una finissima, con foglioline così pure e aromatiche che solo a ricordarla veniva l’acquolina in bocca. Ma costava quaranta centavos (3) alla libbra! È vero che per l’erba dello spaccio pagava il doppio, ma il pagamento lo poteva fare con fiche o buoni che poteva trarre dallo stipendio del nipote, mentre per acquistare l’altra erba era necessario moneta sonante.

Ma questo non era l’unico problema. C’era anche il severo divieto per tutti i lavoratori della miniera di comprare anche un solo spillo, al di fuori dallo spaccio della Compagnia. Ogni articolo che proveniva da un’altra fonte veniva immediatamente dichiarato di contrabbando e confiscato, e il contrabbandiere punito con l’immediata espulsione dalle residenze.

Per lunghi mesi aveva accumulato centavo dopo centavo, in un angolo del letto, sotto il materasso, la somma che le occorreva. Aveva badato che a suo nipote non fosse mancato l’essenziale, privandosi lei stessa del necessario e, a poco a poco, la quantità di monete era aumentata fino a quando finalmente la somma raccolta fu sufficiente non solo a comprare un chilo d’erba, ma anche un po’ di zucchero, di quello bianco e cristallino che nello spaccio non si vedeva mai.

Dopo, però, sarebbe venuta la parte più difficile. Andare fino al villaggio, fare la spesa senza destare sospetti nei guardiani, che come degli Argo sorvegliavano con cento occhi il viavai della gente.
Al pensiero, la donna si impauriva. Perdeva tutto il coraggio. Che ne sarebbe stato di lei e del ragazzo in quell’inverno che si presentava così crudo se li avessero buttati fuori dalla stanza, lasciandoli senza pane e senza un tetto dove ripararsi?

Ma il denaro era lì, che la tentava, come a sussurrarle:

— Andiamo, prendimi, non aver paura.

Scelse un giorno di pioggia, in cui la sorveglianza era meno attenta, e alle prime luci del mattino. Non appena il ragazzo se ne fu andato alla miniera, prese le monete, diede un giro di chiavi alla porta, e si addentrò nella pianura, portando il rotolo di cordicelle che le serviva per legare i fastelli di legna, quando andava a raccoglierla di tanto in tanto nel bosco.

Ma una volta che si fu allontanata abbastanza, scavalcò la recinzione di fili di ferro e prese lo stretto sentiero che, evitando il lungo giro della strada, conduceva in linea retta verso il villaggio. La distanza era lunga, molto lunga per le sue povere gambe; ma la percorse senza troppa fatica grazie al clima gradevole e all’eccitazione nervosa che la possedeva.

Non fu così al ritorno. La via le sembrò aspra, interminabile, e dovette fermarsi più volte per riprendere fiato. Poi sperimentò una grande angoscia per il compimento di quel reato a cui la coscienza colpevole dava proporzioni inquietanti.

La presa in giro del temuto divieto di fare acquisti fuori dallo spaccio, la terrorizzava come se avesse commesso un latrocinio mostruoso. E a ogni istante le sembrava di vedere dietro un albero la sagoma minacciosa di qualche sorvegliante che improvvisamente si gettava su di lei e le strappava il pacchetto.

Più volte fu tentata di gettare l’involucro compromettente a un lato della strada per liberarsi di quell’angoscia, ma la fragranza aromatica dell’erba che attraverso la carta solleticava il suo olfatto, la faceva desistere dal prendere una decisione così dolorosa. Perciò, quando si trovò da sola dentro la stanza, al sicuro da qualunque sguardo indiscreto, la colse un attacco d’infantile allegria.

E mentre l’acqua pronta per bollire diffondeva il gorgoglio che precede l’ebollizione, con le mani incrociate sulle ginocchia seguiva con gli occhi le tenui volute del vapore che cominciavano a uscire dal becco curvo della teiera.

Nonostante l’atroce stanchezza della lunga camminata, provava una dolce sensazione di contentezza. Stava per gustare nuovamente gli squisiti mati di un tempo, che erano stati la sua delizia quando ancora c’erano intorno a lei le persone che le furono sottratte da quell’insaziabile divoratrice di giovani: la miniera, che sotto le piante, nel profondo della terra, stendeva la nera rete dei suoi passaggi, inferno e ossario di tante generazioni.

All’improvviso un colpo brusco alla porta la strappò dalle sue meditazioni. Una paura terribile si impossessò di lei e quasi senza accorgersi di ciò che stava facendo, prese il pacco e lo nascose sotto la panca. Un secondo colpo più forte del primo, seguito da una voce ruvida e imperiosa che gridava: “Aprite, nonna, presto, presto!”, la tirò fuori dalla sua immobilità. Si alzò in piedi e girò la serratura.

Il padrone dello spaccio e il suo giovane dipendente furono i primi a oltrepassare la soglia, seguiti da due inservienti con alcuni sacchi sulle spalle che depositarono sul pavimento ammattonato. L’anziana si lasciò cadere sulla panca.

Paralizzata, guardava davanti a sé con un’espressione da ebete; la bocca semichiusa e la mascella appesa rivelavano il culmine della sorpresa e dello spavento. Mentre il suo corpo si liquefaceva, si riduceva fino a diventare qualcosa di piccolissimo e impalpabile, l’imponente figura di quell’uomo dalla barba bionda e dai baffi attorcigliati, avvolto nel suo lussuoso cappotto, assumeva proporzioni colossali, riempiva la stanza, impedendo ogni tentativo di sgattaiolare via e di nascondersi.

Nel frattempo, il dipendente, un giovinastro sveglio e agile, aiutato dagli inservienti, aveva iniziato la perquisizione. Dopo aver gettato da un lato le coperte del letto, girato il materasso e tastato la paglia attraverso il tessuto, aprirono il piccolo baule e, a uno a uno, gettarono al centro della stanza gli stracci che vi erano contenuti, lasciandosi andare ad apprezzamenti sgradevoli per quei vestiti, talmente strappati e cenciosi, che non si sapeva come afferrarli. Poi, rovistarono negli angoli, rimossero i pochi e miseri utensili dal loro posto e d’improvviso si fermarono a guardarsi disorientati.

Il padrone, in piedi davanti alla porta, in atteggiamento severo e distinto osservava i movimenti dei suoi subalterni senza scucire una parola.

Il giovane dipendente si rivolse a uno degli uomini, chiedendogli:

— Sei sicuro di averla vista passare attraverso il filo spinato?

L’interpellato rispose:

— Sicuro, signore, come ora sto vedendo voi davanti ai miei occhi. Spuntava dalla scorciatoia e scommetterei dieci a uno che veniva dal villaggio.

Ci fu un breve silenzio, poi la voce del padrone dello spaccio proruppe:

— Beh, perquisite lei.

Mentre i due uomini afferrarono l’anziana per le braccia e la tennero in piedi, il giovane eseguì in fretta la ripugnante operazione.

— Non ha nulla – disse, asciugandosi le mani che si erano inumidite nei risvolti dei vestiti bagnati.

E tutto sarebbe finito bene per la donna se quel giovane, nel suo desiderio di perquisire in ogni luogo, non si fosse avvicinato alla panca e guardato sotto.

Appena si fu abbassato, si voltò verso il padrone con sguardo raggiante.

— Guardate dove l’ho trovata, signore, questa vecchia dei diavoli!

Il padrone ordinò secco:

— Requisite il pacco e uscite.

Quando il giovane dipendente e gli inservienti se ne furono andati, il padrone osservò un istante la piccola e misera figura dell’anziana, raggomitolata sulla panca, poi, assumendo un aspetto imponente, avanzò di qualche passo e con voce severa la rimproverò:

— Se non foste una povera vecchia, vi farei sbrattare la stanza, gettandovi in strada. E questo, in coscienza, sarebbe giusto, perché lo sapete bene che comprare qualcosa fuori dallo spaccio è un furto che si fa alla Compagnia. Per ora, poiché è la prima volta, voglio essere indulgente, ma se dovesse accadere un’altra volta, adempirò rigorosamente al mio dovere. Andate con Dio e chiedetegli di perdonarvi questo peccato indegno per i vostri capelli grigi.

L’anziana rimase da sola. Il suo petto traboccava di gratitudine per la bontà del padrone e sarebbe caduta in ginocchio ai suoi piedi se la sorpresa e la paura non l’avessero paralizzata. Senza alzarsi dalla panca, si girò verso il camino e piegò pesantemente la testa.

Fuori, il maltempo aumentava a poco a poco; una raffica aprì la porta e alimentò il fuoco morente, scompigliando sulla nuca della donna le rade ciocche grigie che mettevano a nudo il collo lungo e sottile, con la pelle raggrinzita attaccata alle vertebre.


[1] Alberello spontaneo, sempreverde, originario del Cile, con fiori bianchi e foglie aromatiche, ruvide e ricoperte di peluria.

[2] Famiglia di piante erbacee o legnose, diffuse in tutto il mondo, principalmente nelle fascia tropicale e temperata. Vivono indistintamente in ambienti aridi, umidi e acquei, con caratteristiche peculiari, per ogni specie, in relazione a tali ambienti.

[3] Unità di misura di diverse monete dell’America Latina, corrispondente alla centesima parte. Si traduce letteralmente “centesimo”.

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“Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados” Introduzione

07 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Racconti, traduzioni

Dal 14 aprile su Limina Mundi la rubrica “Cuentos Olvidados”. In esclusiva per i lettori del sito.

Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Che le foglie siano più lucide al comincio e più ingiallite all’arrivo, già basterebbe questo continuo atto d’amor proprio del tempo, devoto a sé stesso, che non diniega neppure il più cieco o il più visionario. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Altri ritagli di noi stessi a un punto di destino ci tendono il palmo o ci vengono incontro con aria di teneri cospiratori e non vedono l’ora di svelarci un recondito cambiamento. “Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambia in noi”, scrive un tale che narra di un visconte dimezzato. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Timori con i quali stringiamo amicizia oltre la curva della strada e certezze dietro il terrapieno di cosiffatti timori che aspettano conferme che si farebbero raccogliere come fasci di spighe. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Il primo passo con la scarpa lustra, da Capo Horn, l’ultimo con la scarpa polverosa, nelle babilonie di Tijuana.
Sulla strada molte cose. Greta Garbo e la controfigura, la vecchia e il suo mate, l’acquaiolo e “Grazia di Dio”, il circo Ciarini e il gran Léotard, il piccolo cambujo masturbatore, la pazza che si perdette lo sposo, la gatta sivigliana che ci scapitò…e discosti nella fitta boscaglia, i loro padri e le loro madri. Ventuno agonizzanti in terra latina. Due gentil sesso, primigenie femministe. Soccorriamoli! Soccorriamoli, i dimenticati dei barrios e delle calle pietrose della vecchia epoca! Soccorriamoli! Soccorriamoli, che tutto è finzione, ma qui, sulla pagina scritta, ogni finzione è realtà. Portiamoli sotto la croce del Nazzareno, al riparo dai dittatori, dai colonizzatori, dai bravos, dai picari, dai bucanieri, dagli smemorati.
Portiamo gli scomparsi sul bell’ isolotto della Buona Memoria!
Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa.

Emilio Capaccio

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Joyce Kilmer, traduzioni di Emilio Capaccio

23 mercoledì Feb 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Emilio Capaccio, Joyce Kilmer, poesia, traduzioni

La tromba echeggia stridula e dolce,
ma non di guerra canta oggi.
La via è ritmata da piedi
di soldati che vengono a pregare.

J. K.

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Joyce Kilmer (1886-1918), traduzioni di Emilio Capaccio

LA LANTERNA DELL’AMORE

Perché la strada era lunga e ripida
per una terra oscura e solitaria,
Dio mise sulle mie labbra una canzone
e una lanterna nella mano.

Di notte in miglia e stanche miglia
che si tendono implacabili sul mio cammino
la mia lanterna arde chiara e serena,
un inesauribile calice di bagliore.

Dorate luci e luci violette,
come fiochi sono i vostri vantati splendori.
Osservate questa mia minuscola lucina;
più stellata d’una stella!

LOVE’S LANTERN

Because the road was steep and long
and through a dark and lonely land,
God set upon my lips a song
and put a lantern in my hand.

Through miles on weary miles of night
that stretch relentless in my way
my lantern burns serene and white,
an unexhausted cup of day.

O golden lights and lights like wine,
how dim your boasted splendors are.
Behold this little lamp of mine;
it is more starlike than a star!

COME VENTI CHE SOFFIANO CONTRO UNA STELLA

Per Aline

Ora per quale capriccio d’insensato caso
occhi radiosi conoscono giorni bui?
E piedi calzati di luce dovrebbero incedere
danzando per uggiosi e grevi cammini?

Ma i raggi dai Cieli, chiari e colmi di sé,
possono penetrare l’oscurità della terra;
e dirompe ma nutre, nella tua anima,
la gloria della celeste allegria.

I dardi d’affanno e sofferenza, scagliati
contro la tua pacifica bellezza, sono
tanto sciocchi quanto impotenti
come venti che soffiano contro una stella.

AS WINDS THET BLOW AGAINST A STAR

For Aline

Now by what whim of wanton chance
Do radiant eyes know sombre days?
And feet that shod in light should dance
Walk weary and laborious ways?

But rays from Heaven, white and whole,
May penetrate the gloom of earth;
And tears but nourish, in your soul,
The glory of celestial mirth.

The darts of toil and sorrow, sent
Against your peaceful beauty, are
As foolish and as impotent
As winds that blow against a star.

ALBERI

Penso che non vedrò mai
una poesia bella come un albero.

Un albero la cui bocca affamata è pronta
per il dolce seno fluente della terra;

un albero che guarda Dio tutto il giorno,
e alza le braccia fogliose per pregare;

un albero che può portare in estate
un nido di pettirossi tra i suoi capelli;

sul cui petto è caduta la neve;
che vive intimamente con la pioggia.

Le poesie sono fatte dagli sciocchi come me,
ma solo Dio può fare un albero.

TREES

I think that I shall never see
A poem lovely as a tree.

A tree whose hungry mouth is prest
Against the earth’s sweet flowing breast;

A tree that looks at God all day,
And lifts her leafy arms to pray;

A tree that may in summer wear
A nest of robins in her hair;

Upon whose bosom snow has lain;
Who intimately lives with rain.

Poems are made by fools like me,
But only God can make a tree.

MAIN STREET

Per S. M. L.

Mi piace guardare la scia fiorita della luna sul mare,
ma non è una vista così bella come una volta era Main Street
quando tutto era coperto da un paio di piedi di neve,
e sulla strada frizzante e radiosa scampanellavano le slitte.

Main Street, orlata di foglie autunnali, era piacevole,
e le sue grondaie erano piene di denti di leone all’inizio della primavera;
mi piace ricordarla bianca di brina o impolverata nel caldo
perché penso sia più umana di qualsiasi altra strada.

Una strada larga e trafficata di città è battuta da mille ruote,
e un peso di traffico sul petto è tutto ciò che sente:
è ottusamente cosciente del carico e della fretta e del lavoro che non cessa mai,
ma umana non può essere come Main Street e riconoscere i suoi fedeli.

Un centinaio di squadre d’operai al giorno c’erano in Main Street,
e venti o trenta persone, e qualche bambino fuori a giocare
e non c’era cocchio o carrozza o uomo o ragazza o ragazzo
che Main Street non ricordasse e che non sembrasse rallegrarsi.

Camion, macchine e tram sopraelevati
fanno risuonare di dolore la stanca strada della città
ma c’è ancora un’eco rimasto nel profondo del mio cuore,
una musica che i ciottoli di Main Street hanno fatto sotto un carretto da macellaio

Sia ringraziato Dio per la Via Lattea che attraversa il firmamento,
questo è il sentiero che i miei piedi calpesterebbero ogni volta che devo morire.
Alcuni la chiamano Spada d’Argento e altri Corona di Perle,
ma è lei l’unica cosa a cui penso, Main Street, Heaventown.

MAIN STREET

For S.M.L.

I like to look at the blossomy track of the moon upon the sea,
But it isn’t half so fine a sight as Main Street used to be
When it all was covered over with a couple of feet of snow,
And over the crisp and radiant road the ringing sleighs would go.

Now, Main Street bordered with autumn leaves, it was a pleasant thing,
And its gutters were gay with dandelions early in the Spring;
I like to think of it white with frost or dusty in the heat,
Because I think it is humaner than any other street.

A city street that is busy and wide is ground by a thousand wheels,
And a burden of traffic on its breast is all it ever feels:
It is dully conscious of weight and speed and of work that never ends,
But it cannot be human like Main Street, and recognise its friends.

There were only about a hundred teams on Main Street in a day,
And twenty or thirty people, I guess, and some children out to play.
And there wasn’t a wagon or buggy, or a man or a girl or a boy
That Main Street didn’t remember, and somehow seem to enjoy.

The truck and the motor and trolley car and the elevated train
They make the weary city street reverberate with pain:
But there is yet an echo left deep down within my heart
Of the music the Main Street cobblestones made beneath a butcher’s cart.

God be thanked for the Milky Way that runs across the sky,
That’s the path that my feet would tread whenever I have to die.
Some folks call it a Silver Sword, and some a Pearly Crown,
But the only thing I think it is, is Main Street, Heaventown.

IN MEZZO ALL’OCEANO IN TEMPO DI GUERRA

Il fragile splendore della linea del mare,
il volto sereno e velato d’argento della luna,
fa di questa nave un luogo incantato
pieno di chiara gioia e dorata malia.
Ora, per un po’, sarà spontanea risata
mischiata al canto per conferir più dolce grazia,
E le vecchie stelle, nella loro corsa senza fine,
daranno ascolto e invidieranno la giovane umanità.

Nondimeno stanotte, a cento leghe di distanza,
queste acque si tingono d’uno strano e terribile rosso.
Avanti alla luna, una nube oscenamente grigia
s’alza da ponti che si schiantano con cavi volanti.
E queste stelle sorridono a modo loro immemorabile
su onde che avvolgono un migliaio di nuovi morti.

MID-OCEAN IN WAR-TIME

The fragile splendour of the level sea,
The moon’s serene and silver-veiled face,
Make of this vessel an enchanted place
Full of white mirth and golden sorcery.
Now, for a time, shall careless laughter be
Blended with song, to lend song sweeter grace,
And the old stars, in their unending race,
Shall heed and envy young humanity.

And yet to-night, a hundred leagues away,
These waters blush a strange and awful red.
Before the moon, a cloud obscenely grey
Rises from decks that crash with flying lead.
And these stars smile their immemorial way
On waves that shroud a thousand newly dead!

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Emilio Capaccio traduce Marsden Hartley

06 giovedì Gen 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Emilio Capaccio, Marsden Hartley, Poesie, traduzioni

Torno a meditare sempre sull’idea della vita,
mentre medito perennemente sull’esistenza del momento.

M. H.

Marsden Hartley

Poesie di Marsden Hartley (1817-1943). Traduzione di Emilio Capaccio

VENDITORE DI PESCE

Ho preso le squame
dalle guance della luna.
Ho fatto le pinne dalle ali della ghiandaia,
gli occhi dai susini nell’ombra.
Ho preso i vermigli dalle labbra del sole.
Da tutto questo ho fatto nascere un pesce nel cielo,
l’ho messo a nuotare per te in un azzurro d’ottobre.
Siedo sulla riva del ruscello e osservo
il prato in visibilio
mentre volge in oro cinerino.
Sono sempre belli i pesci
che vengono a te dall’arcobaleno.
Perché sono stati creati,
perché li ho messi
a nuotare?

FISHMONGER

I have taken scales from off
the cheeks of the moon.
I have made fins from bluejays’ wings,
I have made eyes from damsons in the shadow.
I have taken flushes from the peachlips in the sun.
From all these I have made a fish of heaven for you,
set it swimming on a young October sky.
I sit on the bank of the stream and watch
the grasses in amazement
as they turn to ashy gold.
Are the fishes from the rainbow
still beautiful to you,
for whom they are made,
for whom I have set them,
swimming?

UCCELLI CANORI

Cento uccelli canori al più vicino squarcio dolorante,
sembrava amassero il suo dolore
empito d’iper iconica spogliatezza.
Non m’attendevo sì strabiliante opulenza
d’appressarsi a me celata col far del giorno,
benché la mane sia il momento e la primavera
il modo in cui sa esser migliore l’amore.

Attraverso il fogliame un bruciante
impeto d’ali dorate, leste, vorticose.
Tutti gli uccelli canori del mondo son venuti
a me, e son in me viventi
Io solo fresco ricetto e umile ombra ho dato,
alle mie foglie premute da eccessivo sole.

Ho detto che son venuti cento uccelli canori
per me,
e ora che chiaro m’è tutto, quelli che son stati,
che son stati davvero vicino,
son due solo, o tre,
Ma come m’hanno preso.

WARBLERS

An hundred warblers in the nearest aching gap,
it seems as though it loved its aching
filled with hyper-ikonistic misery.
I did not expect such staggering wealth
to come to me by dawn-delivered stealth,
though morning is the time and spring
the way love knows of its best being.

All through the leaves a burning
rush of gilded, swift, whirling wing.
All warblers of the world have come
to me, and are in me living
I only cool retreat and humble shade giving,
my leaves with excess of sun trampled.

I said an hundred warblers came
to me,
and now that I am clear, what it
was, was very near
it was but two, or three,
But how they fastened me.

L’AQUILA NON VUOLE AMICI

L’aquila non vuole amici,
impiega i suoi pensieri per altri fini –
ha i suoi cerchi da iscrivere
a dodicimila piedi da dove
i pesci setacciano il mare,
trova il suo conforto nell’illesa
immensità,
dove pensano le aquile non c’è bisogno
d’essere soli –
Nell’isolamento
c’è un profondo senso di casa.

THE EAGLE WANTS NO FRIENDS

The eagle wants no friends,
employs his thoughts to other ends –
he has his circles to inscribe
twelve thousand feet from where
the fishes comb the sea,
he finds his solace in unscathed
immensity,
where eagles think, there is no need
of being lonesome –
In isolation
is a deep revealing sense
of home.

FIDUCIA

“Avremo il sole ora”.
dicevano i tremuli gabbiani
“Abbiamo percorso la gamma del mare tuonante,
uno per uno, uno per uno,
e sebbene l’onda sia piena di pane
un’ala è spesso sfinita dai tendini
d’una cosa così varia e vasta;
facciamo la nostra geodetica sorveglianza,
perché le aringhe sono una cosa splendente,
una forma di lucente immaginazione,
una grandiosa circostanza.
Il brivido d’una foglia di frassino e di pino
fa altra musica per la determinazione d’un giorno,
anche i gabbiani amano la forma delle rose
prima che il giorno muoia.”

CONFIDENCE

“We’ll have the sun now,”
the quaking sea gulls said.
“We’ve run the gamut of the thundering sea,
one by one one by one,
and though the wave is full of bread
a wing is often tendon-weary
of a thing so varied-vast;
we do our geodetic surveillance,
for herring are a shining thing,
a shape of sleek imagining,
a pretty circumstance.
The shiver of an ash leaf and of pine
makes other music for a day’s determining,
even sea gulls love the shape of roses
ere day closes.”

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Buon compleanno, Arthur

20 mercoledì Ott 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Arthur Rimbaud, Emilio Capaccio, poesia, traduzione

Credo di essere all’inferno, quindi ci sono

A.R.

Arthur Rimbaud (1854-1891), traduzioni di Emilio Capaccio

Rimbaud

MIO BOHÉMIEN

Me ne andavo coi pugni nei taschini sfondati.
Il mio cappotto diventava ideale.
Andavo a cielo nudo, Musa! a te leale.
Oh! Là! Là! che amori splendidi sognati!

Le mie mutande avevano un largo foro.
Pollicino sognante, rimavo al furore
Della corsa. La mia locanda l’Orsa Maggiore,
Le mie stelle in cielo un dolce coro.

Le ascoltavo seduto sul ciglio delle vie,
Sere buone di settembre, sentivo un goccìo
Di rugiada sulla fronte, corposo liquore;

Facendo rime in ombre lunghe lunghe,
Come lire, trascinavo le stringhe
Delle scarpe ferite, un piede vicino al mio cuore.
 
MA BOHÈME

Je m’en allais les poings dans mes poches crevées.
Mon paletot aussi devenait idéal.
J’allais sous le ciel, Muse! et j’étais ton féal.
Oh! Là! Là! que d’amours splendides j’ai rêvées!

Mon unique culotte avait un large trou.
Petit Poucet rêveur, j’égrenais dans ma course
Des rimes. Mon auberge était à la Grande Ourse,
Mes étoiles au ciel avaient un doux frou-frou.

Et je les écoutais, assis au bord des routes
Ces bons soirs de septembre où je sentais des gouttes
De rosée à mon front, comme un vin de vigueur;

Où, rimant au milieu des ombres fantastiques,
Comme des lyres, je tirais les élastiques
De mes souliers blessés, un pied près de mon coeur!
 
SOGNATO PER L’INVERNO

D’inverno andremo in un piccolo vagone rosa
Con cuscini azzurri.
Staremo bene. Un nido di baci dissennati riposa
Negli angoli molli.

Chiuderai gli occhi per non veder dal finestrino
Smorfiare le ombre delle sere,
Queste mostruosità astiose popolate
Da demoni neri e lupi neri.

Poi ti sentirai la guancia scalfita …
Un piccolo bacio come un ragno folle
Ti correrà per il collo …

E tu mi dirai: “Cerca!”, inclinando la testa
E prenderemo tempo per trovar quell’animaletto
Che fugge tanto …
 
RÊVÉ POUR L’HIVER

L’hiver, nous irons dans un petit wagon rose
Avec des coussins bleus.
Nous serons bien. Un nid de baisers fous repose
Dans chaque coin moelleux.

Tu fermeras l’oeil, pour ne point voir, par la glace,
Grimacer les ombres des soirs,
Ces monstruosités hargneuses, populace
De démons noirs et de loups noirs.

Puis tu te sentiras la joue égratignée …
Un petit baiser, comme une folle araignée,
Te courra par le cou …

Et tu me diras: “Cherche!” en inclinant la tête,
Et nous prendrons du temps à trouver cette bête
Qui voyage beaucoup …
 
ORAZIONE DELLA SERA

Vivo seduto, come un angelo tra le mani d’un barbiere
Impugnando un boccale a forti scanalature,
L’epigastrio e il collo inarcato, una Gambier ai denti,
Sotto l’aria gonfia d’impalpabili velature.

Come gli escrementi caldi d’una vecchia piccionaia,
Mille sogni in me fanno dolci bruciature:
Poi a istanti, il mio cuore triste è come un alburno
Che insanguina l’oro giovane e scuro delle colature.

E quando ho ringoiato i miei sogni con cura,
Mi giro, avendo bevuto trenta o quaranta boccali,
E mi raccolgo per lasciare l’acre bisogno:

Dolce come il Signore del cedro e degli issopi
Piscio verso cieli bruni, molto alti e molto lontani,
Con il permesso dei grandi eliotropi.
 
ORAISON DU SOIR

Je vis assis, tel qu’un ange aux mains d’un barbier,
Empoignant une chope à fortes cannelures,
L’hypogastre et le col cambrés, une Gambier
Aux dents, sous l’air gonflé d’impalpables voilures.

Tels que les excréments chauds d’un vieux colombier,
Mille Rêves en moi font de douces brûlures:
Puis par instants mon coeur triste est comme un aubier
Qu’ensanglante l’or jeune et sombre des coulures.

Puis, quand j’ai ravalé mes rêves avec soin,
Je me tourne, ayant bu trente ou quarante chopes,
Et me recueille, pour lâcher l’âcre besoin:

Doux comme le Seigneur du cèdre et des hysopes,
Je pisse vers les cieux bruns, très haut et très loin,
Avec l’assentiment des grands héliotropes.

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Emilio Capaccio traduce Lya Luft

02 sabato Ott 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Emilio Capaccio, Lya Luft, poesia contemporanea, traduzione

C’è gente che invece di distruggere, costruisce;
invece di invidiare, regala;
invece d’avvelenare, abbellisce;
invece di strappare, riunisce a aggrega.

L. L.

 

Lya Luft (1938-vivente), traduzioni di Emilio Capaccio

CANZONE NELLA PIENEZZA

Non ho più occhi di bambina
né corpo d’adolescente, e la pelle
traslucida da tempo s’è macchiata.
Ci sono rughe dove avevo seta, sono una struttura
allargata dagli anni e dal peso dei fardelli
buoni o cattivi.
(Ne ho caricati molti con piacere e altri per ribellione.)
Quello che posso darti è più di tutto
quello che ho perduto; ti do le mie vittorie.
La maturità che riesce a ridere
quando in altri tempi avrebbe pianto,
provare a volerti bene
quando in passato avrei voluto
solamente essere amata.
Posso darti molto di più adesso
di bellezza e gioventù: questi dorati anni
mi hanno insegnato ad amare meglio, con più pazienza
e con non meno ardore, a capirti,
se ti serve, ad aspettarti, quando vai via,
a darti ventre d’amante e affetto di compagna,
e soprattutto forza — che viene dall’apprendistato.
Questo posso darti: un mare antico e fidato
le cui maree — anche se fuggono — ritornano,
le cui correnti nascoste non portano distruzioni
ma l’interminabile sogno delle sirene.

CANÇÃO NA PLENITUDE

Não tenho mais os olhos de menina
nem corpo adolescente, e a pele
translúcida há muito se manchou.
Há rugas onde havia sedas, sou uma estrutura
agrandada pelos anos e o peso dos fardos
bons ou ruins.
(Carreguei muitos com gosto e alguns com rebeldia.)
O que te posso dar é mais que tudo
o que perdi: dou-te os meus ganhos.
A maturidade que consegue rir
quando em outros tempos choraria,
busca te agradar
quando antigamente quereria
apenas ser amada.
Posso dar-te muito mais do que beleza
e juventude agora: esses dourados anos
me ensinaram a amar melhor, com mais paciência
e não menos ardor, a entender-te
se precisas, a aguardar-te quando vais,
a dar-te regaço de amante e colo de amiga,
e sobretudo força — que vem do aprendizado.
Isso posso te dar: um mar antigo e confiável
cujas marés — mesmo se fogem — retornam,
cujas correntes ocultas não levam destroços
mas o sonho interminável das sereias.

QUESTI SONO I MIEI OGGETTI

Questi sono i miei oggetti:
hanno una patina che non è del tempo,
è il mio dolore
che li sfiora con la sua mano afflitta.
Questo è il mio viso:
occhi che, dal cercar troppo, scrutano
solamente didentro. E se tutto sfocia nella morte
allora questo è il mio destino. È là che sto andando,
speranza e protesta,
reggendo il candeliere degli amori
che mi illuminarono nella vita.

(Resisteranno, uno per uno,
al mio ultimo respiro?)

ESTES SÃO OS MEUS OBJETOS

Estes são os meus objetos:
têm uma pátina que não é do tempo,
é minha dor
roçando neles sua mão aflita.
Este é o meu rosto:
uns olhos que, de procurar demais, olham
só para dentro. E se tudo desemboca na morte
esse é o meu destino. É para lá que vou,
esperança e protesto,
segurando o candelabro dos amores
que me iluminaram na vida.

(Resistirão, singularmente,
ao meu último sopro?)

CONVITO

Non sono la sabbia
su cui si disegnano un paio d’ali
o grate davanti a una finestra.
Non sono solo la pietra che rotola
nelle maree del mondo,
rinascendo un’altra sopra ogni spiaggia.
Sono l’orecchio poggiato alla conchiglia
della vita, sono costruzione e disfacimento,
servo e padrone, e sono
mistero.

A quattro mani scriviamo questo copione
per il palcoscenico del mio tempo:
il mio destino ed io.
Non sempre siamo in sintonia,
non sempre ci prendiamo
sul serio.

CONVITE

Não sou a areia
onde se desenha um par de asas
ou grades diante de uma janela.
Não sou apenas a pedra que rola
nas marés do mundo,
em cada praia renascendo outra.
Sou a orelha encostada na concha
da vida, sou construção e desmoronamento,
servo e senhor, e sou
mistério.

A quatro mãos escrevemos este roteiro
para o palco de meu tempo:
o meu destino e eu.
Nem sempre estamos afinados,
nem sempre nos levamos
a sério.

TUTTI QUESTI ANGELI

Tutti questi
Angeli che la notte
agitano le tende e sussurrano frasi
che temi di capire:
se t’accolgono tra le braccia
se ti baciano sulla bocca,
se entrano nel tuo corpo,
non ti daranno la certezza che vivere, morire,
siano ugualmente soavi e difficili
folli e sensati, e più ancora urgenti?

Potrai alla fine amare, arrendendoti a quello
che ti sfiora con le sue ali,
ti chiama con le sue voci,
ti sferza costantemente con questa luce,
questo dolore.

TODOS ESSES ANJOS

Todos esses
Anjos que à noite
agitam cortinas e sussurram frases
que temes entender:
se te tomarem nos braços
se te beijarem na boca,
se te entrarem no corpo,
não te darão certeza de que morrer, viver,
são igualmente suaves e difíceis
loucos e sensatos , e urgentíssimos?

Poderás enfim amar, rendendo-te aquilo
que te aflora com suas asas,
te chama com suas vozes,
te vara constantemente com essa luz,
essa dor.

LA SPERANZA MI CHIAMA

La speranza mi chiama,
e io salgo a bordo
come se fosse il primo viaggio.
Se non conosco le mappe,
scelgo l’imprevisto:
qualunque segno è un buon auspicio.

Sia come sia, io vado,
Perché quasi sempre ci credo:
cammino con gli occhi chiusi
come un bimbo che gioca alla cieca.
Più d’una volta ne sono uscita ferita, o quasi affogata,
Ma non mi arrendo.

Il dolore accidentale è il prezzo della vita:
biglietto, assicurazione e pedaggio.
A ESPERANÇA ME CHAMA

A Esperança me chama,
e eu salto a bordo
como se fosse a primeira viagem.
Se não conheço os mapas,
escolho o imprevisto:
qualquer sinal é um bom presságio.

Seja como for, eu vou,
pois quase sempre acredito:
ando de olhos fechados
feito criança brincando de cega.
Mais de uma vez saio ferida, ou quase afogada,
mas não desisto.

A dor eventual é o preço da vida:
passagem, seguro e pedágio.

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Emilio Capaccio traduce Gioconda Belli

29 sabato Mag 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Gioconda Belli, poesia, traduzione

Credo che il solo fatto di esistere
implichi una responsabilità verso il futuro,
verso ciò che esisterà dopo di noi.

G. B.


Gioconda Belli (1948-vivente), traduzioni di Emilio Capaccio

MAGGIO

Non appassiscono i baci
come i malinches*
né mi crescono baccelli nelle braccia;
fiorisco sempre
con questa pioggia interiore,
come i verdi patii di maggio
perché amo il fiume, il vento e le nuvole
e il passo degli uccelli canterini,
malgrado sia irretita nei ricordi,
coperta d’edera come le vecchie pareti,
continuo a credere ai sussurri trattenuti,
alla forza dei cavalli selvaggi,
al messaggio alato dei gabbiani.
Credo alle radici innumerevoli del mio canto.

MAYO

No se marchitan los besos
como los malinches,
ni me crecen vainas en los brazos;
siempre florezco
con esta lluvia interna,
como los patios verdes de mayo
y río porque amo el viento y las nubes
y el paso del los pájaros cantores,
aunque ande enredada en recuerdos,
cubierta de hiedra como las viejas paredes,
sigo creyendo en los susurros guardados,
la fuerza de los caballos salvajes,
el alado mensaje de las gaviotas.
Creo en las raíces innumerables de mi canto.

  • malinches sono arbusti di fiori rossi, simili ad orchidee che fioriscono in maggio, originari del Sudamerica.

ABBANDONATI

Tocchiamo la notte con le mani
sgocciolandone l’oscurità tra le dita,
maneggiandola come il vello di una pecora nera.

Ci siamo abbandonati al disamore,
alla svogliatezza di vivere collettando ore nel vuoto,
nei giorni che si lasciano passare e tornano a ripetersi
intrascendenti
senza orme, né sole, né raggianti esplosioni di chiarore.

Ci siamo abbandonati dolorosamente alla solitudine
sentendo il bisogno dell’amore sotto le unghia,
il vuoto di un’obliteratrice nel petto,
il ricordo e il rumore come in una conchiglia
che ha vissuto troppo tempo in un acquario di città
e si porta solo l’eco del mare nel labirinto del suo guscio.

Come tornare a riprendere il tempo?

Interporgli il corpo forte del desiderio e dell’angoscia,
farlo retrocedere intimidito
per nostra infrangibile decisione?

Chissà se potremmo riprendere il momento
che perdemmo.

Nessuno può predire il passato
quando forse non siamo più gli stessi,
quando forse abbiamo dimenticato
il nome della strada
dove
qualche volta
potremmo
incontrarci.

ABANDONADOS

Tocamos la noche con las manos
Escurriéndonos la oscuridad entre los dedos,
Sobándola como la piel de una oveja negra.

Nos hemos abandonado al desamor,
Al desgano de vivir colectando horas en el vacío,
En los días que se dejan pasar y se vuelven a repetir,
Intrascendentes,
Sin huellas, ni sol, ni explosiones radiantes de claridad.

Nos hemos abandonado dolorosamente a la soledad,
Sintiendo la necesidad del amor por debajo de las uñas,
El hueco de un sacabocados en el pecho,
El recuerdo y el ruido como dentro de un caracol
Que ha vivido ya demasiado en una pecera de ciudad
Y apenas si lleva el eco del mar en su laberinto de concha.

¿Cómo volver a recapturar el tiempo?

¿Interponerle el cuerpo fuerte del deseo y la angustia,
Hacerlo retroceder acobardado
Por nuestra inquebrantable decisión?

Pero… quién sabe si podremos recapturar el momento
Que perdimos.

Nadie puede predecir el pasado
Cuando ya quizás no somos los mismos,
Cuando ya quizás hemos olvidado
El nombre de la calle
Donde
Alguna vez
Pudimos
Encontrarnos.

SFIDA ALLA VECCHIAIA

Quando arriverò a esser vecchia
– se ci arriverò –
e mi guarderò nello specchio
e conterò le rughe
come delicata ortografia
di pelle distesa,
quando potrò contare i segni
che hanno lasciato lacrime
e preoccupazioni,
e il mio corpo risponderà
già lentamente ai miei desideri,
quando vedrò la mia vita
ravvolta in vene azzurre,
in profonde occhiaie,
e scioglierò i miei capelli bianchi
per andare a dormire presto
– come si conviene –
quando verranno i miei nipoti
a sedersi sulle mie ginocchia ammuffite
per il passo di molti inverni,
saprò tuttavia che il mio cuore
ticchetterà – ribelle –
e i dubbi e i larghi orizzonti
saluteranno ancora
le mie mattine.

DESAFIO A LA VEJEZ

Cuando yo llegue a vieja
– si es que llego –
y me mire al espejo
y me cuente las arrugas
como una delicada orografía
de distendida piel.
Cuando pueda contar las marcas
que han dejado las lágrimas
y las preocupaciones,
y ya mi cuerpo responda despacio
a mis deseos,
cuando vea mi vida envuelta
en venas azules,
en profundas ojeras,
y suelte blanca mi cabellera
para dormirme temprano
– como corresponde –
cuando vengan mis nietos
a sentarse sobre mis rodillas
enmohecidas por el paso de muchos inviernos,
sé que todavía mi corazón
estará – rebelde – tictaqueando
y las dudas y los anchos horizontes
también saludarán
mis mañanas.

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“Lavoro” una poesia di Henry Van Dyke

01 sabato Mag 2021

Posted by emiliocapaccio in Eventi e segnalazioni, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Henry Van Dyke, poesia, traduzione

Henry Van Dyke (1852-1933)

LAVORO

Traduzione di Emilio Capaccio

Lasciatemi fare il mio lavoro giorno dopo giorno,
Nel campo o nella foresta, allo scrittoio o al telaio,
Nella chiassosa piazza o nella stanza tranquilla;
Lasciatemi scorgerlo nel mio cuore e dire,
Quando vaganti piaceri m’invitano dal devio sentiero:
«È il mio lavoro; la mia benedizione, non la mia condanna;
Di tutto ciò che vive, io sono colui dal quale
Questo lavoro può esser fatto nel modo migliore».

Non lo vedrò né troppo grande, né insignificante,
Per giovare al mio spirito e saggiare le mie capacità;
Accoglierò felice le ore del lavoro,
E felice tornerò a casa, quando lunghe ombre cadono
La sera, per divagarmi, amare e riposare,
Perché so che il mio lavoro è il più giusto per me.

*

WORK

Let me but do my work from day to day,
In field or forest, at the desk or loom,
In roaring market-place or tranquil room;
Let me but find it in my heart to say,
When vagrant wishes beckon me astray,
“This is my work; my blessing, not my doom;
“Of all who live, I am the one by whom
“This work can best be done in the right way.”

Then shall I see it not too great, nor small,
To suit my spirit and to prove my powers;
Then shall I cheerful greet the labouring hours,
And cheerful turn, when the long shadows fall
At eventide, to play and love and rest,
Because I know for me my work is best.

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Emilio Capaccio traduce Robert Frost

21 domenica Mar 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Georg Heym, poesia, traduzione

La poesia è quando un’emozione ha trovato il suo pensiero

e il pensiero ha trovato le parole.

R. F.


Robert Frost, traduzioni di Emilio Capaccio

LA STRADA NON PRESA


Due strade divergevano in un bosco giallo
Pena non poterle percorrere entrambe
Essendo io un solo viaggiatore, a lungo esitai
Scrutandone una più lontano che potevo,
Fin dove si piegava tra i cespugli;

Poi presi l’altra, buona allo stesso modo
Ma aveva forse la pretesa migliore
Perché era erbosa e meno cercata
Anche se come per l’altra, il passaggio
L’avesse ugualmente segnata.

E tutte e due quella mattina erano coperte
Di foglie che nessun passo aveva annerito.
O, prenderò la prima un’altra volta!
Ma sapendo già che le strade vanno ad altre strade,
Dubitavo che sarei mai tornato indietro.

Dirò questo con un sospiro
In qualche luogo fra anni e anni a venire:
Due strade divergevano in un bosco, ed io —
Io presi quella meno battuta
E questo ha fatto tutta la differenza.
 
THE RAOD NOT TAKEN 

Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that, the passing there
Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I —
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
 
FUOCO E GHIACCIO

C’è chi dice che il mondo finirà nel fuoco.
C’è chi dice nel ghiaccio.
Per quello che ho assaporato del desiderio
Propendo per chi va in favore del fuoco.
Ma se conosco abbastanza l’odio
Dico che la devastazione del ghiaccio
Sarebbe tanto grande
E potrebbe bastare.
 
FIRE AND ICE

Some say the world will end in fire.
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
 
FERMANDOSI AI BOSCHI IN UNA SERA DI NEVE

Di chi siano questi boschi penso di sapere.
Ma la sua casa è nel villaggio;
Non mi vedrà fermare qui
A guardare il suo bosco riempirsi di neve.

Il mio puledro penserà che sia strano
Fermarsi senza una fattoria nei paraggi
Tra i boschi e il lago ghiacciato
Nella più buia sera dell’anno.

Dà una scrollata al suo campanello
A domandare se c’è un errore.
L’unico altro suono è la spazzata
Gentile del vento e il fiocco lanuginoso.

I boschi sono amorevoli, profondi e oscuri,
Ma io ho una promessa da mantenere,
E miglia da fare prima d’addormentarmi
E miglia da fare prima d’addormentarmi
.
 
STOPPING BY WOODS ON A SNOWY EVENING

Whose woods these are I think I know.
His house is in the village, though;
He will not see me stopping here
To watch his woods fill up with snow.

My little horse must think it queer
To stop without a farmhouse near
Between the woods and frozen lake
The darkest evening of the year.

He gives his harness bells a shake
To ask if there is some mistake.
The only other sound’s the sweep
Of easy wind and downy flake.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.
 
LA LIBERTA’ DELLA LUNA

Ho saggiato la luna nuova curva nell’aria
Su un albero nebbioso e grappolo di fattoria
Come a provare un gioiello tra i capelli.
L’ho saggiata con la piccola ampiezza del lustro,
Sola o in combinazione d’ornamento
Con una stella di prim’acqua quasi brillante.

L’ho posta a splendere ovunque ho voluto.
Scorrendo lenta su una sera inoltrata
L’ho strappata da una grata d’alberi torti,
L’ho portata a un’acqua lucente, più grande,
E calandola dentro ho visto guazzare la forma,
Correre il colore, ogni genere di meraviglia.
 
THE FREEDOM OF THE MOON

I’ve tried the new moon tilted in the air
Above a hazy tree-and-farmhouse cluster
As you might try a jewel in your hair.
I’ve tried it fine with little breadth of luster,
Alone, or in one ornament combining
With one first-water star almost as shining.

I put it shining anywhere I please.
By walking slowly on some evening later
I’ve pulled it from a crate of crooked trees,
And brought it over glossy water, greater,
And dropped it in, and seen the image wallow,
The color run, all sorts of wonder follow.
 
UN PICCOLO UCCELLO

Ho sperato che un uccello volasse via,
E non cantasse davanti casa mia;

Gli ho battuto sulla porta le mani
Quando non ho retto i suoi baccani.

In parte mio il torto è stato.
L’uccello non era di timbro stonato.

C’è qualcosa di sbagliato con convinzione
Nel voler far tacere una canzone.
 
A MINOR BIRD

I have wished a bird would fly away,
And not sing by my house all day;

Have clapped my hands at him from the door
When it seemed as if I could bear no more.

The fault must partly have been in me.
The bird was not to blame for his key.

And of course there must be something wrong
In wanting to silence any song.

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Emilio Capaccio traduce Georg Heym

14 domenica Mar 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Georg Heym, poesia, traduzione

Il sole pende enorme all’orizzonte
fiamme saetta l’arco della sera.
E il sogno della luce, alto, su tutto.

G. H.

,

traduzioni di Emilio Capaccio

 
LA QUIETE


La vecchia barca che nel porto tranquillo
il meriggio culla alla sua cima.
Gli amanti assopiti dopo il bacio.
Una pietra in fondo alla verde fontana.

Il riposo di Pizia, uguale al sonno
che a superni dèi cala dopo il banchetto.
Il pallido cero che sbianca il morto.
Criniere di nubi sopra una valle.

La pietra fattasi riso d’un tonto.
Coppi polverosi in cui resta ancora l’aroma.
Violini sfasciati nel ciarpame dei solai.
L’aria ferma prima della burrasca.

Una vela che luccica all’orizzonte.
L’essenza dei campi che attrae le api.
L’oro d’autunno, le foglie e il tronco adorni.
Il poeta che dello sciocco sente invidia.
 
DIE RUHIGEN


Ein altes Boot, das in dem stillen Hafen
am Nachmittag an seiner Kette wiegt.
Die Liebenden, die nach den Küssen schlafen.
Ein Stein, der tief im grünen Brunnen liegt.

Der Pythia Ruhen, das dem Schlummer gleicht
der hohen Götter nach dem langen Mahl.
Die weisse Kerze, die den Toten bleicht.
Der Wolken Löwenhäupter um ein Tal.

Das Stein gewordene Lächeln eines Blöden.
Verstaubte Krüge, drin noch wohnt der Duft.
Zerbrochne Geigen in dem Kram der Böden.
Vor dem Gewittersturm die träge Luft.

Ein Segel, das vom Horizonte glänzt.
Der Duft der Heiden, der die Bienen führt.
Des Herbstes Gold, das Laub und Stamm bekränzt.
Der Dichter, der des Toren Bosheit spürt.
 
DORMIVEGLIA


Frusciano le tenebre come un vestito,
gli alberi vacillano all’orizzonte.

Rifùgiati al cuor della notte,
scava dentro l’oscurità un nascondiglio
come l’ape nel favo. Fatti piccolo
nel tuo giaciglio.

Qualcosa vuol andare per i ponti,
scalpita sollevando gli zoccoli,
pallide, sussultano le stelle.

Come un’anziana si trascina la luna
da una parte all’altra
col dorso ricurvo.
 
HALBSCHLAF


Die Finsternis raschelt wie ein Gewand,
Die Bäume torkeln am Himmelsrand.

Rette dich in das Herz der Nacht,
Grabe dich schnell in das Dunkele ein,
Wie in Waben. Mache dich klein,
Steige aus deinem Bette.

Etwas will über die Brücken,
Er scharret mit Hufen krumm,
Die Sterne erschraken so weiß.

Und der Mond wie ein Greis
Watschelt oben herum
Mit dem höckrigen Rücken.
 
O, LE TUE LUNGHE CIGLIA


O, le tue lunghe ciglia,
l’acqua oscura dei tuoi occhi.
Lasciami dentro sprofondare,
discendere fin al fondo.

Come si cala il minatore alla profondità
e oscilla un lume molto tenue
sull’uscio della miniera,
per l’ombrosa parete,

così continuo a calarmi
per dimenticare sul tuo seno
ciò che in superficie riecheggia,
giorno, tormento, splendore.

Cresce fitto nei campi,
ove il vento dimora, con ebbrezza di messe,
l’alto spino delicato
Contro il cielo azzurro.

Dammi la tua mano,
e lascia che al crescer ci uniamo,
preda d’ogni vento,
volo d’uccelli solitari,

che d’estate ascoltiamo
l’organo sfiatato dei temporali,
che d’autunno ci bagniamo alla sua luce
sulla riva di chiare giornate.

Qualche volta andremo a sporgerci
sull’orlo d’un oscuro pozzo,
fisseremo il fondo silenzioso
e là cercheremo il nostro amore.

Oppure usciremo dall’ombra
di boschi dorati
per entrare, grandi, in qualche crepuscolo
che sfiori soavemente la tua fronte.

Divina tristezza,
ala d’eterno amore,
soleva il tuo boccale
e bevi da questo sogno.

Una volta approderemo alla fine
ove il mare macchiato di giallo
mutamente invade la baia
di settembre,

riposeremo a quella dimora
di fiori appassti,
mentre tra le rocce
trema un vento cantando.

E dal bianco pioppo
che s’innalza contro il cielo
cadrà una foglia annerita
a riposar sulla tua nuca.
 
DEINE WIMPERN, DIE LANGEN


Deine Wimpern, die langen,
Deiner Augen dunkele Wasser,
Laß mich tauchen darein,
Laß mich zur Tiefe gehn.

Steigt der Bergmann zum Schacht
Und schwankt seine trübe Lampe
Über der Erze Tor,
Hoch an der Schattenwand,

Sieh, ich steige hinab,
In deinem Schoß zu vergessen,
Fern, was von oben dröhnt,
Helle und Qual und Tag.

An den Feldern verwächst,
Wo der Wind steht, trunken vom Korn,
Hoher Dorn, hoch und krank
Gegen das Himmelsblau.

Gib mir die Hand,
Wir wollen einander verwachsen,
Einem Wind Beute,
Einsamer Vögel Flug.

Hören im Sommer
Die Orgel der matten Gewitter,
Baden in Herbsteslicht,
Am Ufer des blauen Tags.

Manchmal wollen wir stehn
Am Rand des dunkelen Brunnens,
Tief in die Stille zu sehn,
Unsere Liebe zu suchen.

Oder wir treten hinaus
Vom Schatten der goldenen Wälder,
Groß in ein Abendrot,
Das dir berührt sanft die Stirn.

Göttliche Trauer,
Schwinge der ewigen Liebe.
Hebe den Krug herauf,
Trinke den Schlaf.

Einmal am Ende zu stehen,
Wo Meer in gelblichen Flecken
Leise schwimmt schon herein
Zu der September Bucht.

Oben zu ruhn
Im Hause der dürftigen Blumen,
Über die Felsen hinab
Singt und zittert der Wind.

Doch von der Pappel,
Die ragt im Ewigen Blauen,
Fällt schon ein braunes Blatt,
Ruht auf dem Nacken dir aus.

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Emilio Capaccio traduce Alfred Tennyson

30 sabato Gen 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Alfred Tennyson, Emilio Capaccio, poesia, traduzione

Spingetevi al largo, sedendo un dietro l’altro, colpite
i sonori solchi; perché il mio scopo consiste
nel navigar oltre il tramonto.

A. T.

Stammi vicino quando la mia luce è fioca,
Quando il sangue scorre lento, e pungono
E formicolano i nervi; e il cuore è rivoltato,
E tutte le ruote dell’Essere sono lente.

Stammi vicino quando l’umore dei sensi
È soffocato da angosce che conquidono la fiducia,
E il tempo, un maniaco che sparpaglia la polvere,
E la vita, una furia che catapulta le fiamme.

Stammi vicino quando la fede è prosciugata
E gli uomini, mosche di una tarda primavera,
Che depongono le loro uova, e pungono e cantano
E si strofinano le loro piccole celle e muoiono.

Stammi vicino quando mi starò spegnendo
Per marcare il termine della sofferenza umana,
E sul limite basso e oscuro dell’esistenza
Il senso arcano di un giorno che sarà eterno.
 
BE NEAR ME WHEN MY LIGHT IS LOW

Be near me when my light is low,
When the blood creeps, and the nerves prick
And tingle; and the heart is sick,
And all the wheels of Being slow.

Be near me when the sensuous frame
Is rack’d with pangs that conquer trust;
And Time, a maniac scattering dust,
And Life, a Fury slinging flame.

Be near me when my faith is dry,
And men the flies of latter spring,
That lay their eggs, and sting and sing
And weave their petty cells and die.

Be near me when I fade away,
To point the term of human strife,
And on the low dark verge of life
The twilight of eternal day.
 
CADE LO SPLENDORE

Cade lo splendore sulle mura del castello
E su vette innevate vecchie di storia;
Trema la luce, lunga lunga, sopra i laghi
E la selvaggia cateratta balza nella gloria.
Soffia corno soffia, fa’ volare echi selvaggi,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.

O, origlia, O, ascolta! come sottili e chiari
E più sottili e più chiari e più lontano stanno andando!
O, dolci e remoti, da rupi e strapiombi
I corni della terra degli Elfi stanno suonando!
Soffia, lasciaci sentire la risposta delle valli di porpora,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.

O amore, essi muoiono lassù in floridi cieli,
Tramortiscono su collina o campo o fiume;
I nostri echi rotolano da anima ad anima,
E crescono sempre, per sempre.
Soffia corno soffia, fa’ volare echi selvaggi,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.
 
THE SPLENDOR FALLS

The splendor falls on castle walls
And snowy summits old in story;
The long light shakes across the lakes,
And the wild cataract leaps in glory.
Blow, bugle, blow, set the wild echoes flying,
Blow, bugle; answer, echoes, dying, dying, dying.

O, hark, O, hear! how thin and clear,
And thinner, clearer, farther going!
O, sweet and far from cliff and scar
The horns of Elfland faintly blowing!
Blow, let us hear the purple glens replying,
Blow, bugles; answer, echoes, dying, dying, dying.

O love, they die in yon rich sky,
They faint on hill or field or river;
Our echoes roll from soul to soul,
And grow forever and forever.
Blow, bugle, blow, set the wild echoes flying,
And answer, echoes, answer, dying, dying, dying.
 
LACRIME INUTILI LACRIME

Lacrime, inutili lacrime, non so cosa vogliano dire,
Lacrime dal fondo d’una divina disperazione
Vengono al cuore e s’adunano negli occhi,
Nel guardare gli allegri campi autunnali
E pensando ai giorni che non ci sono più.

Radiosi come la prima luce che riverbera su una vela
E che riporta dagli inferi i nostri compagni,
Tristi come l’ultima luce che s’arrossa su chi
È calato con tutto ciò che amiamo oltre il bordo;
Così tristi, così radiosi, i giorni che non ci sono più.

Tristi ed estranei come in albe d’una oscura estate
Il primo cinguettio d’uccelli mezzo risvegliati
Per orecchi morenti, come per occhi morenti
Il varco che pian piano s’allarga in un fievole quadrato;
Così tristi, così radiosi, i giorni che non ci sono più.

Cari come i baci che si ricordano dopo la morte
E dolci come quelli che invano abbiamo sognato
Su labbra che sono per altri; profondi come l’amore,
Profondi come il primo amore e folli d’ogni rimpianto;
O Morte in Vita, i giorni che non ci sono più.
 
TEARS IDLE TEARS

Tears, idle tears, I know not what they mean,
Tears from the depth of some divine despair
Rise in the heart, and gather in the eyes,
In looking on the happy autumn-fields,
And thinking of the days that are no more.

Fresh as the first beam glittering on a sail,
That brings our friends up from the underworld,
Sad as the last which reddens over one
That sinks with all we love below the verge;
So sad, so fresh, the days that are no more.

Ah, sad and strange as in dark summer dawns
The earliest pipe of half-awakened birds
To dying ears, when unto dying eyes
The casement slowly grows a glimmering square;
So sad, so strange, the days that are no more.

Dear as remembered kisses after death,
And sweet as those by hopeless fancy feigned
On lips that are for others; deep as love,
Deep as first love, and wild with all regret;
O Death in Life, the days that are no more!

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Emilio Capaccio traduce Walt Whitman

15 domenica Nov 2020

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, poesia, traduzione, Walt Whitman

Il mare è per me un miracolo senza fine.
Pesci che nuotano, scogliere, il moto delle onde,
navi che portano uomini …
Quali più strani miracoli di questi?

W. W.

Walt Whitman, traduzioni di Emilio Capaccio

 
IO CREDO CHE UNA FOGLIA D’ERBA


Io credo che una foglia d’erba non sia meno del quotidiano lavorio delle stelle,
E una formica è egualmente perfetta, e un granello di sabbia, e l’uovo dello scriccio,
E la raganella è uno dei capolavori più grandi,
E il rovo che si arrampica potrebbe adornare le camere del cielo,
E il ganghero più piccolo nella mia mano potrebbe irridere tutti gli ingranaggi,
E la mucca che sminuzza con il capo calato sovrasta qualsiasi statua,
E un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare sestilioni di miscredenti,
E io potrei venire ogni pomeriggio della mia vita a osservare la figlia dell’agricoltore
Che bolle il tè nel suo bollitore di ferro e inforna il tortino.

Io trovo e incorporo gneiss, carbone, filati estesi di muschi, frutti, grani, esculenti radici,
E sono completamente stuccato di quadrupedi e uccelli,
E ho lasciato ciò che è alle mie spalle per buone ragioni,
E richiamo ogni cosa e di nuovo la richiudo, quando ne ho voglia.

Invano affrettarsi o adombrarsi;
Invano le plutoniche rocce emanano il loro vecchio calore contro il mio approccio;
Invano il mastodonte si ritira sotto le sue ossa polverizzate;
Invano gli oggetti si stagliano in leghe lontane, e assumono molteplici forme;
Invano l’oceano si deposita nelle cavità, e i grandi mostri vi abitano il fondo;
Invano la poiana si dà alloggio nel cielo;
Invano il serpente scivola tra i ceppi e i rampicanti;
Invano l’alce s’addentra in segreti passaggi del bosco;
Invano l’alca dal becco a rasoio veleggia verso nord fino al Labrador;
Io la seguo velocemente, ascendo al nido nella fessura della scogliera.
 
I BELIEVE A LEAF OF GRASS


I believe a leaf of grass is no less than the journey-work of the stars,
And the pismire is equally perfect, and a grain of sand, and the egg of the wren,
And the tree-toad is a chef-d’oeuvre for the highest,
And the running blackberry would adorn the parlors of heaven,
And the narrowest hinge in my hand puts to scorn all machinery,
And the cow crunching with depress’d head surpasses any statue,
And a mouse is miracle enough to stagger sextillions of infidels,
And I could come every afternoon of my life to look at the farmer’s girl boiling her iron
tea-kettle and baking shortcake.

I find I incorporate gneiss, coal, long-threaded moss, fruits, grains, esculent roots,
And am stucco’d with quadrupeds and birds all over,
And have distanced what is behind me for good reasons,
And call anything close again, when I desire it.

In vain the speeding or shyness;
In vain the plutonic rocks send their old heat against my approach;
In vain the mastodon retreats beneath its own powder’d bones;
In vain objects stand leagues off, and assume manifold shapes;
In vain the ocean settling in hollows, and the great monsters lying low;
In vain the buzzard houses herself with the sky;
In vain the snake slides through the creepers and logs;
In vain the elk takes to the inner passes of the woods;
In vain the razor-bill’d auk sails far north to Labrador;
I follow quickly, I ascend to the nest in the fissure of the cliff.
 
NOI DUE QUANTO TEMPO FUMMO INGANNATI


Noi due, quanto tempo fummo ingannati,
Ora trasfigurati, fuggiamo in fretta come fugge la natura.
Siamo natura, a lungo siamo stati assenti, ma ora torniamo,
Diventiamo piante, tronchi, foglie, radici, corteccia,
Siamo accampati sulla terra, siamo rocce,
Siamo querce, cresciamo fianco a fianco negli spazi liberi,
Bruchiamo, siamo in mezzo alle mandrie selvagge, spontanei come chiunque,
Siamo due pesci che nuotano accanto nel mare,
Siamo quello che sono i fiori della robinia,
Stilliamo l’aroma sui canali la mattina e la sera,
Siamo anche la dozzinale traccia delle bestie, dei vegetali, dei minerali,
Siamo due falchi predatori, ci alziamo in volo e dall’alto scrutiamo la valle,
Siamo due soli splendenti, siamo noi che bilanciamo noi stessi,
sferici e stellari, siamo come due comete,
Ci aggiriamo zannuti e a quattro zampe nella boscaglia, scagliandoci sulla preda,
Siamo due nuvole che guidano alte, le mattine e i pomeriggi,
Siamo mari che si mescolano, allegre onde che rotolano l’una sull’altra,
che si sprizzano l’un l’altra,
Siamo quello che è l’aria, trasparente, ricettiva, pervia, impervia,
Siamo la neve, la pioggia, il freddo, l’oscurità,
Samo qualunque prodotto e influenza del globo,
Abbiamo girato e rigirato finché non siamo giunti di nuovo a casa, noi due,
Abbiamo gettato tutto tranne la libertà, tutto tranne la gioia.
 
WE TWO HOW LONG WE WERE FOOL’D


We two, how long we were fool’d,
Now transmuted, we swiftly escape as Nature escapes,
We are Nature, long have we been absent, but now we return,
We become plants, trunks, foliage, roots, bark,
We are bedded in the ground, we are rocks,
We are oaks, we grow in the openings side by side,
We browse, we are two among the wild herds spontaneous as any,
We are two fishes swimming in the sea together,
We are what locust blossoms are,
We drop scent around lanes mornings and evenings,
We are also the coarse smut of beasts, vegetables, minerals,
We are two predatory hawks, we soar above and look down,
We are two resplendent suns, we it is who balance ourselves
orbic and stellar, we are as two comets,
We prowl fang’d and four-footed in the woods, we spring on prey,
We are two clouds forenoons and afternoons driving overhead,
We are seas mingling, we are two of those cheerful waves rolling over each other
and interwetting each other,
We are what the atmosphere is, transparent, receptive, pervious, impervious,
We are snow, rain, cold, darkness,
We are each product and influence of the globe,
We have circled and circled till we have arrived home again, we two,
We have voided all but freedom and all but our own joy.
 
O ME! O VITA!


O Me! O Vita! di domande che si susseguono come queste,
D’infiniti treni di miscredenti, di città nutrite da dissennati,
Di me stesso che sempre disapprova se stesso (perché chi è più miscredente di me, chi più dissennato?)
Di occhi che inutilmente implorano la luce, di scopi abbietti, di lotte sempre ricominciate,
Dei miseri risultati d’ogni cosa, della sordida e arrancata folla che vedo attorno a me,
Dei vani e inservibili anni degli altri, io agli altri intrecciato,
La domanda, O Me! così triste, ricorrente — Che c’è di buono in tutto questo, O Me, O Vita?

Risposta.

Che tu sia qui — che la vita esista ed esista l’identità,
Che la potente commedia vada avanti e che tu possa offrire il tuo verso.
 
OH ME! OH LIFE!


Oh me! Oh life! of the questions of these recurring,
Of the endless trains of the faithless, of cities fill’d with the foolish,
Of myself forever reproaching myself, (for who more foolish than I, and who more faithless?)
Of eyes that vainly crave the light, of the objects mean, of the struggle ever renew’d,
Of the poor results of all, of the plodding and sordid crowds I see around me,
Of the empty and useless years of the rest, with the rest me intertwined,
The question, O me! so sad, recurring — What good amid these, O me, O life?

Answer.

That you are here — that life exists and identity,
That the powerful play goes on, and you may contribute a verse.

 

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Emilio Capaccio traduce Seamus Heaney

18 sabato Lug 2020

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Seamus Heaney

Tra l’indice e il pollice
ho la penna.
Scaverò con quella.

S. H.

 

Seamus Heaney, traduzioni di Emilio Capaccio

ANAHORISH 1944

Scannavamo i maiali quando arrivarono gli americani.
Un martedì mattina, sole e rivoli di sangue
fuori dal mattatoio. Dalla strada principale
dovevano aver sentito lo strillo.
Poi lo sentirono cessare ed ebbero la visione di noi
in guanti e grembiali scendere giù per la collina.
Due file di loro, fucili in spalle, che marciavano.
Blindati, carri armati e jeep scoperte.
Mani e braccia arse dal sole. Nomi sconosciuti.
Condotti verso la Normandia.
Non che sapessimo allora
dove fossero diretti, trovandoci lì come dei ragazzini
mentre ci lanciavano gomme e tubetti di caramelle colorate.

ANAHORISH 1944

We were killing pigs when the Americans arrived.
A Tuesday morning, sunlight and gutter-blood
Outside the slaughterhouse. From the main road
They would have heard the squealing,
Then heard it stop and had a view of us
In our gloves and aprons coming down the hill.
Two lines of them, guns on their shoulders, marching.
Armoured cars and tanks and open jeeps.
Sunburnt hands and arms. Unknown, unnamed,
Hosting for Normandy.
Not that we knew then
Where they were headed, standing there like youngsters
As they tossed us gum and tubes of coloured sweets.

AL MOMENTO

Una fredda covata, un nido intero, completamente nascosto
nel terriccio di foglie dell’autunno passato, e compresi
dall’opacità e dalla sua immobilità, putrefatti,
al mutare in sudore di morte una rugiada del mattino
che non faceva brillare i gusci ma li marciva.
Ero lì curvo sulle mani e in ginocchio
nel prato bagnato sotto la siepe, in adorazione,
di primo mattino intento ad allungarmi
e convinto di trovare uova calde. E invece
questo improvviso brillantino polare
e stigma e freddo cerchio di pietra dell’alba
nella mia mortificata mano destra, prova evidente
di quello che cospirò al momento per scompigliare
la materia nella sua stasi planetaria.

ON THE SPOT

A cold clutch, a whole nestful, all but hidden
in last year’s autumn leaf-mould, and I knew
by the mattness and the stillness of them, rotten,
making death sweat of a morning dew
that didn’t so much shine the shells as damp them.
I was down on my hands and knees there in the wet
grass under the hedge, adoring it,
early riser busy reaching in
and used to finding warm eggs. But instead
this sudden polar stud
and stigma and dawn stone-circle chill
in my mortified right hand, proof positive
of what conspired on the spot to addle
matter in its planetary stand-off.

LA FRUSTA DI SALICE

Sulla strada principale di Granard incontrai Duffy
che avevo conosciuto prima dell’età del giudizio
in pantaloncini corti alla classe delle elementari
dove una volta in un giorno d’inverno Miss Walls
perse la testa e ci frustò alle gambe
per un discorso indecente che pensavamo non udisse.
«O, per amor di Dio!» urlò Duffy, venendomi incontro
col suo bastone in aria e due braccia spalancate,
«Per amor di Dio! Ti ricordi la frusta di salice?»

THE SALLY ROD

On the main street of Granard I met Duffy
whom I had known before the age of reason
in short trousers in the Senior Infans room
where once upon a winter’s day Miss Walls
lost her head and cut the legs off us
for dirty talk we didn’t think she’d hear.
«Well, for Jesus sake» cried Duffy, coming at me
with his stick in the air and two wide open arms,
«For Jesus sake! D’you mind the sally rod?»

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