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Archivi tag: Rainer Maria Rilke

Prisma lirico 54: Rainer Maria Rilke – Edward Hopper

18 giovedì Dic 2025

Posted by Loredana Semantica in POESIA, Prisma lirico

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Edward Hopper, Rainer Maria Rilke

Edward Hopper

La notte prende in segreto dai tuoi capelli dimenticati riflessi tra le pieghe della tenda. Guarda, desidero soltanto le tue mani tra le mie e quiete e silenzio e in me profonda pace.
Così la mia anima s’accresce e spezza in mille schegge la monotonia dei giorni; e si fa immensa:
sul suo molo al chiarore dell’alba muoiono le prime onde dell’eternità.

Edward Hopper

Poesia di Rainer Maria Rilke, 1896

Opere:

Edward Hopper “Room in New York”, 1940

Edward Hopper “Sun an empty room”, 1964

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Incontro di sguardi tra profezia e memoria

15 martedì Apr 2025

Posted by maria allo in CRITICA LETTERARIA

≈ 1 Commento

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Ernst Jünger, Franz Kafka, Joseph Conrad, Maria Allo, Osip Ėmil'evič Mandel'štam, Paul Celan, Rainer Maria Rilke

A cura di Maria Allo

Joseph Conrad

Nella prima metà del Novecento, la letteratura ha spesso anticipato i segni premonitori della disumanizzazione dell’uomo, che si sarebbe tragicamente concretizzata ad Auschwitz. Un esempio significativo è il romanzo “Cuore di tenebra” (Heart of Darkness, 1902) di Joseph Conrad (1857-1924), che illustra in modo straordinario l’orrore insito nella civiltà occidentale e il suo desiderio di controllo globale, realizzato attraverso l’uso razionale dello sfruttamento economico delle risorse e del dominio politico. Questo orrore si manifesta tanto nel lento scorrere del Tamigi quanto in quello del Congo, che rappresenta il confine della civiltà occidentale e il palcoscenico dell’impresa eroica e brutale, sacra e maledetta, del misterioso Kurtz. Grazie alla forza critica e ironica della sua scrittura, Conrad riesce a superare gli stereotipi culturali del suo tempo, offrendo una rappresentazione senza pregiudizi della dura realtà del dominio coloniale. Si tratta di una vera e propria disamina. Il paesaggio appare apocalittico e distrutto, caratterizzato da burroni, crateri, rottami metallici di macchinari, vagoni ferroviari, rumori assordanti e mine. Nella visione letteraria di Conrad, questo scenario coloniale si trasforma in un cupo girone d’inferno, dove i dannati sono i neri e i diavoli i bianchi. L’attualità di questo testo è splendidamente rappresentata dalla visionaria trasposizione cinematografica ambientata nel Vietnam americano, realizzata in “Apocalypse Now” (1978) da Francis Ford Coppola.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Nel 1923, il poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam, a pochi anni dall’inizio della rivoluzione, scrive un drammatico confronto con il suo secolo: “Secolo mio, mia belva, chi saprà/ fissare lo sguardo nelle tue pupille, /chi incollerà con il proprio sangue/ le vertebre di due secoli? / Sangue costruttore sgorga/ dalla gola di cose terrene, /Tenera cartilagine di bimbo/ è il secolo infantile della terra:/hanno immolato ancora una volta/ come un agnello il cranio della vita”. Nelle parole di Mandel’štam si percepisce un’immagine chiara e inquietante delle tragedie che di lì a poco avrebbero colpito il continente. Questo sembra confermare l’idea che, nello specchio della letteratura autenticamente creativa, la realtà si rivela nella sua essenza più profonda e nascosta. Come si può dimenticare il presagio della violenza anonima e impersonale della burocrazia nei romanzi di Franz Kafka?

Franz Kafka

Attraverso i suoi inquietanti e surreali personaggi di Praga, Kafka mette in luce, in modo profondo e primordiale, la vulnerabilità della vittima. Allo stesso modo, il disagio e il senso di alienazione dell’uomo del Novecento trovano una piena e originale espressione nell’opera del boemo. Nella Metamorfosi (Die Verwandlung, 1916), il protagonista Gregor Samsa si confronta con un mondo dominato da una legge incomprensibile, che lo schiaccia sotto il peso di una colpa indefinita, vanificando ogni tentativo di comprensione e ogni protesta d’innocenza. Inoltre, i meccanismi di controllo e tortura, rappresentati come una macchina che funziona autonomamente per dodici ore consecutive, nella Colonia penale (In der Strafkolonie, 1919), si manifestano attraverso la scrittura del comandamento violato sui corpi nudi dei condannati, sotto la supervisione di un ufficiale che incarna caratteristiche inquietanti: “soldato, giudice, ingegnere, chimico e disegnatore”.

Ernst Jünger

Analogamente, gran parte dell’opera di Ernst Jünger (1895-1998) offre spunti di riflessione sull’inumanità della vita quotidiana e si focalizza sull’analisi della società di massa. Questo approccio prende avvio dalla sua esperienza durante la prima guerra mondiale, descritta in “Tempeste d’acciaio” (In Stahlgewittern, 1920), e dal cambiamento sociale che ne è scaturito, esplorato in “Operaio” (Der Arbeiter, 1932). Jünger indaga come la mobilitazione sociale generi un’energia capace di trasformare le società contemporanee, ritrattando gli individui come insetti oscuri, privi di princìpi o ideali, mossi esclusivamente dall’organizzazione e dalla struttura tecnica delle loro azioni. Anche la poesia sembra aver anticipato questa trasformazione, non solo della vita, ma soprattutto della morte, evidenziando un cambiamento significativo nel modo in cui viene espressa. Essa evolve il proprio linguaggio e le forme del canto per affrontare la morte e tradurla in parole. Come possono coesistere la bellezza e l’orrore estremo? E come può l’essere umano trovare il proprio posto di fronte a tenebre così profonde? Il semplice atto di nominare l’orrore implica già un confronto con l’umanità, opponendosi all’inesorabile barbarie che si manifesta sia all’esterno che all’interno di noi, come abbiamo potuto osservare attraverso le opere di Conrad. Per Jünger, così come per il filosofo Martin Heidegger (1889-1976), esiste una netta e ferma consapevolezza dell’inadeguatezza dei criteri tradizionali dell’umanesimo nel comprendere e affrontare la realtà attuale. Auschwitz non ha scosso profondamente questa convinzione; al contrario, ha spinto entrambi a esplorare con maggiore urgenza il superamento dell’umanesimo, avvalendosi di strumenti di pensiero che non si fondano esclusivamente sul concetto tradizionale di “uomo”. La poesia sembra aver anticipato la trasformazione non solo della vita, ma soprattutto della morte nella società di massa. Questo cambiamento si riflette in un profondo mutamento nel modo di esprimerla, nel linguaggio e nelle forme del canto, per poterla affrontare e tradurre in parole.

Rainer Maria Rilke

Un esempio evidente di questo cambiamento si trova in Rainer Maria Rilke (1875-1926), il quale, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, pubblicato nel 1910), esprime il suo orrore di fronte alla morte degli uomini nell’Hôtel-Dieu, il più grande e antico ospedale di Parigi. Rilke descrive con profondo dolore la massa di diseredati e mendicanti parigini, il commercio della prostituzione e l’angoscioso morire anonimo di individui abbandonati. L’ultima parte del Libro d’ore, intitolata “Il libro della povertà e della morte”, provoca in Rilke un forte impatto emotivo e assume una forza profetica, come se anticipasse i segni premonitori di una disumanizzazione crescente. La massificazione e la produzione a ritmi industriali, insieme alla spersonalizzazione degli individui, conferiscono alla morte le caratteristiche di un processo meccanico. Tuttavia, di fronte all’orrore e alla mostruosità di questo oscuro meccanismo di morte, tipico delle grandi città “perdute” e “sfatte”, in cui l’uomo è privato della sua “dolce” e “personale” morte, Rilke contrappone la vera povertà del desiderio e del bisogno. L’amore emerge come una forma di consolazione e fiducia, ma soprattutto come la “grande morte”, quella “propria”, che cresce dentro ogni essere vivente fin dalla nascita. Questa morte è consegnata a ciascuno insieme al proprio esistere, simile a un “frutto” che matura con la vita e l’amore. La metafora del frutto evoca l’idea di generazione, collegata all’amore come desiderio e unione sessuale, ma anche come abbandono confidente, il quale a sua volta sviluppa il concetto dell’effimero scorrere del tempo e della transitorietà di ogni cosa.

Dal Libro della povertà e della morte (6,7,8.)

 “O Signore concedi a ciascuno la sua morte:

 frutto di quella vita

in cui trovò amore, senso e pena.

***

Noi siamo la buccia e la foglia.

La grande morte che ognuno ha in sé

è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa.

Per questo frutto crescono le ragazze

levandosi come un albero da un liuto

e ragazzi per averle bramano diventare adulti,

e chi cresce confida alle donne paure

che nessun altro potrebbe placare.

Per questo frutto rimane eterno

quel che ammirammo anche se passato da tempo-

e scultori e architetti si realizzarono

in un mondo che gelò, sgelò

e s’intrecciò con esso illuminandolo.

Vi fluirono dentro il calore del cuore

e il bianco ardore del cervello-:

ma i tuoi angeli vi passano sopra come uccelli:

tutti i frutti erano verdi per loro.

***

Signore, siamo più poveri delle povere bestie

Che muoiono della loro morte, anche se cieche

Perché noi non siamo ancora morti.

Concedici uno che riesca

a intrecciare la vita ad una pergola

su cui a tempo giusto inizi maggio.

Perché ciò che ci rende estraneo e greve il morire

È che la morte non è nostra, ch’essa ci prende

Solo perché non ne abbiamo maturata un’altra.

Ed è una tempesta e ci sfronda tutti.

Cresciamo nel suo giardino per anni,

alberi ai cui rami pende la dolce morte,

ma quando giunge il tempo del raccolto

siamo vecchi, donne che hai picchiato;

chiusi, cattivi e sterili.

O la mia boria è forse ingiusta?

Gli alberi sono migliori? Siamo soltanto

sesso e ventre di donne compiacenti?

 Abbiamo copulato con l’eterno

per partorire al momento delle doglie

i defunti aborti della nostra morte,

il curvo, triste embrione

che (spaventato da cose orribili)

si copre con le mani gli occhi ancora in germe

e reca sulla fronte già formata

la paura dei suoi futuri dolori-

e tutti muoiono come sgualdrine

sul letto dl parto, al taglio cesareo.

R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

L’orrore generato da questo inquietante meccanismo di morte ha un forte impatto sulle ultime opere di Rilke, come abbiamo osservato.

Questa reazione si manifesta e si intensifica anche nella poesia di un altro grande poeta, Paul Celan (1920-1970), il quale ha posto al centro del suo linguaggio l’esperienza della morte dopo Auschwitz.

Paul Celan

LETTO DI NEVE di Paul Celan

Occhi, ciechi al mondo,

dentro le crepe del morire:

vengo, io, con più durezza

in cuore. Vengo.

Specchio lunare ardua

parete. Giù! (Lanterna

macchiata di fiato. Strisce

di sangue. Anima

annuvolante, di nuovo

quasi figura. Ombra delle

dieci dita – avvinghiate.)

Occhi ciechi al mondo,

occhi dentro le crepe del

morire, occhi, occhi:

Il letto di neve sotto noi

due, letto di neve. Cristallo

per cristallo, in griglia

profonda quanto il tempo,

noi cadiamo, e

cadiamo e restiamo e cadiamo.

Noi cadiamo: Noi fummo.

Noi siamo. Siamo una sola

carne con la notte.

Nei cunicoli, cunicoli.

P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

In “Grata di parole” (1959), la poesia di Celan trascende il semplice commento su un evento tragico. Essa si propone come un tentativo di preservare la memoria del passato e di redimere i “sommersi” attraverso la potenza della parola poetica. La sua scrittura si impegna in una ricerca intensa e talvolta oscura, ma è caratterizzata da una straordinaria forza lirica e semantica. Auschwitz ha privato i morti della loro voce, ha reso mute le loro bocche, ha pietrificato le loro palpebre e ha trasformato il mondo in un deserto sepolto dal gelo della neve, soffocato da un’aria intrisa dell’orrore di quei corpi ridotti in cenere. Solo la poesia può cercare il barlume luminoso della loro parola (Lanterna macchiata di fiato, v.5) e penetrare le palpebre pietrificate (negli occhi dentro le crepe del morire, v.9, richiamando l’immagine di Levi della “Gorgone”) di quegli sguardi persi nel vuoto della camera a gas. Solo la poesia ha il potere di catturare l’immagine che racchiude l’eco dell’ultimo respiro, affinché essa possa essere custodita. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di avviare un dialogo e un incontro di sguardi, elementi fondamentali per i vivi, affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte come esseri umani. Gli occhi diventano una metonimia, simboleggiando l’atto di vedere, la luce e il giorno (temi presenti in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e creano un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Tuttavia, ora solo un letto di neve—gelido e desolato come gli inverni orientali, dove i forni crematori hanno disperso le ceneri di quegli sguardi—accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. Solo la poesia ha la capacità di raccogliere da essi l’immagine che custodisce l’eco di quell’ultimo respiro. Perché possano a loro volta custodirlo. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di instaurare un dialogo e un incontro di sguardi, essenziali per i vivi affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte da esseri umani. Gli occhi fungono da metonimia, esprimendo l’idea di vedere, di luce e di giorno (temi che ricorrono in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e stabiliscono un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Ma ormai solo un letto (in cui si compendia l’immagine nuziale e al contempo funerea) di neve-vale a dire gelido e deserto come quello degli inverni orientali in cui i forni crematori dispersero le ceneri di quegli sguardi- accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. La “grata di parole” che offre gioia ai vivi e dignità ai morti è stata spezzata: l’ombra del silenzio si allunga su un mondo che persiste dopo lo sterminio. In risposta a questo silenzio, la poesia di Celan intraprenderà un cammino lungo, oscuro e affascinante, che porterà infine alla consapevole decisione di rimanere in silenzio per sempre.

Note

– R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

– P. CELAN, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

-Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1988

-H. Langbein, Uomini ad Aushwitz, Mursia, Milano 1984

-Th.W.Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972

-G.Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, Milano 2001

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“Orfeo dall’aurea lira”, il ricordo che non ricorda in Rilke

21 giovedì Apr 2022

Posted by maria allo in Appunti letterari, LETTERATURA, Mito

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Maria Allo, Orfeo, Rainer Maria Rilke

Orfeo olio su legno, Gustave Moreau,1865

Nel corso dei secoli, i miti hanno raccolto e tramandato la memoria collettiva di una cultura, di una civiltà e continuano a parlarci ancora, a distanza di tanti secoli, mantenendo intatta la loro forza. La consacrazione di Orfeo nell’immagine archetipica dell’artista risponde alla risonanza profonda che il suo mito suscitò nell’immaginario di tutte le epoche. Omero e Esiodo lo ignorano e occorre attendere il VI secolo a.C., perché un lapidario quanto fortuito riferimento a noi pervenuto sulla figura mitica di Orfeo (riportato da un tardo grammatico), nel frammento 17 del lirico greco, Ibico (gr. ῎Ιβυκος, lat. Iby̆cus), poeta greco di Reggio vissuto nel VI sec., di famiglia aristocratica, vissuto alla corte di Policrate a Samo, ci restituisca il mitico precursore dell’arte poetica, il dio che canta questo nostro mondo: il mutare delle cose e degli uomini che abitano presso di esse. Il mito dunque è l’elemento preesistente, comune e universale, ma insieme oscuro e misterioso; compito della poesia è quello di portarlo a chiarezza, di dargli una forma e un ordine. Alcune tradizioni vogliono Orfeo nato da Calliope e Apollo, che gli fu vicino durante l’infanzia, insieme alle muse alle quali aveva ordinato di prendersene cura.
Non molto tempo dopo Ibico, un altro frammento lirico evoca la prodigiosa malia del canto di Orfeo: è Simonide a immaginare il quadro fantastico che anticipa il senso di una sintonia fra l’uomo divino e la natura, un tratto tipico della sensibilità francescana che accoglie positivamente tutti i vari aspetti della creazione in quanto espressione e manifestazione della grandezza e benevolenza divine. Nell’Agamennone di Eschilo, un verso radioso esprime l’estasi con cui l’universo tutto si abbandona all’incantesimo del canto primigenio: “Ogni cosa egli conduceva con la sua voce, in felicità”. Ma Onomàkluton Orphén, “Orfeo dal nome famoso “la quintessenza della civiltà greca, la figura più leggendaria dei tempi eroici è tra le più complicate tanto che esiste un’altra tradizione sul lato oscuro della storia di Orfeo, ispirata alla consapevolezza tragica della fragilità umana di fronte al decreto inesorabile del fato o della realtà che lo stesso Eschilo accoglie nella perduta tragedia Bassaridi. La sua morte non era divina come il suo canto: lo avevano dilaniato le seguaci di Dioniso per istigazione del loro dio, furente perché, dopo aver visto l’oltretomba, Orfeo rifiutava di onorarlo. A questa tradizione si riallaccia il poeta ellenistico Fanocle, nei suoi Ἒρωτες. Del resto l’esistenza di varie correnti alle quali vanno assegnati i vari cantori sacri dice da sola che il mito, per il fatto di essere orale, poteva venire modificato con grande libertà, a seconda delle circostanze. Come la sua origine, così è ignota la sua patria. Orfeo, che già gli stessi antichi Greci consideravano l’incarnazione dell’antica cultura teogonica e teologica, contemporaneo di Giasone e di Eracle che accompagnò nel favoloso regno dei Colchi alla conquista del vello d’oro, nonché il creatore di quei riti orfici che egli solo, come figlio di Eagro o di Apollo e di Calliope, poteva conoscere, è comunemente riferito alla corrente tracia. Gli fu anche attribuita l’istituzione di cerimonie religiose a cui potevano prendere parte solo gli iniziati e che da lui presero il nome di misteri orfici. Molte sono le opere che recano il suo nome ma forse solo perché riferite alla sua ispirazione e al suo insegnamento. Comunque la rappresentazione che di Orfeo fa Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche come di un poeta dolcissimo al cui canto ubbidivano gli animali e le piante, e si commuovevano gli stessi dei, è rimasta nei secoli, incarnazione fra il mitico e l’umano di un’arte religiosa che sfiora i confini della magia e del miracolo.
La favola di Orfeo viene da Virgilio inserita, secondo la tecnica alessandrino-neoterica, in quella di Aristeo nel IV libro delle Georgiche, il libro dedicato alle api. Il pastore Aristeo si dispera per la morte delle sue api causata da una pestilenza. La madre, la ninfa Cirene, sente il suo pianto e il suo accorato appello e lo invita a recarsi da Proteo, un indovino perché gli riveli la causa della sua sventura. Questi lo informa che i suoi sciami sono stati distrutti da Orfeo adirato con lui per aver provocato la morte della moglie Euridice, “Non te nullius exercent numinis irae”. Questi versi collegano il mito di Orfeo con quello di Aristeo. Già erano presenti nella tradizione i motivi che caratterizzano la favola di Orfeo: la discesa di Orfeo negli Inferi per recuperare la moglie, il potere incantatore del suo canto, a cui si uniscono, brevemente, quello della sua morte, dovuto allo scempio vendicatore che ne fanno le donne dei Traci, e della sorte della sua testa. Virgilio li fonde, escludendo altri elementi della tradizione, in una visione di Orfeo che appare non come il fondatore dei misteri orfici, ma il simbolo della poesia stessa: grazie alla sua musa incantatrice ottiene di scendere nel tetro regno dell’Ade per riavere l’amata sposa, ma a causa di un suo errore, la perde nuovamente senza alcuna possibilità di recuperarla: rimane solo il canto a consolarlo. La sorte dei due protagonisti è opposta, in quanto opposto è il loro comportamento: Aristeo, grazie alla sua docilità agli insegnamenti ricevuti (deve eseguire il rituale della bugonia), riesce ad ottenere la rinascita delle sue api; ad Orfeo, indocile al divieto, è negata la “resurrezione” di Euridice. Risulta evidente che Ovidio nel X libro delle Metamorfosi e Poliziano nelle Sylvae sono entrambi debitori a Virgilio.
Anche Cesare Pavese ha ripreso il mito nei suoi Dialoghi con Leucò, un’opera che rilegge il mito antico stravolgendolo: egli ha scelto di voltarsi indietro e perdere per sempre la sua sposa. Euridice è una stagione della vita, un passato che Orfeo cerca, ed Orfeo ha una sua dimensione, non in cerca di Euridice, ma di se stesso. È questa una dimensione esistenziale che sola può essere dell’uomo del ‘900. “Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono/ sempre il mondo sotterraneo e promisero a più/ d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo, / cantore, viandante nell’Ade e vittima/lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più”.

Fra le tante rivisitazioni che il mito di Orfeo ha avuto nella letteratura contemporanea anche quella di Rainer Maria Rilke, scrittore e drammaturgo austriaco di origine boema che, pare abbia preso spunto dalla copia romana di un bassorilievo attico (conservato a Napoli), in cui il dio Hermes tiene per mano (quasi trattenendola) Euridice, nei versi di Rilke invece Orfeo ed Euridice appaiono meno uniti che nella scultura e tra i due si avverte inevitabile un incolmabile abisso. Nei Sonetti a Orfeo dedicati a Wera Knoop, (Rilke ricevette dalla madre di Wera una lunga relazione sulla malattia e la morte della figlia all’inizio del 1922, poche settimane prima che cominciasse i Sonetti) morta a diciannove anni di leucemia alla fine del 1919, fa riferimento al mito di Orfeo e con la sua straordinaria capacità di poesia, la storia di Orfeo è una delle più significative creazioni del mito del XX secolo. Wera era figura elettivamente orfica. Portava con sé l’infanzia, la danza e la musica, e la morte già dentro la vita, che rinvia ad un altro frammento orfico scoperto da Colli in Euripide.

Il male era prossimo. Già domato dalle ombre
Urgeva il sangue intenebrato, ma come per fugace
Presagio rifioriva nella sua naturale primavera.
Di nuovo ancora, interrotto di buio e di cadute,
terrestre rifulgeva. Finché dopo un terribile bussare
varcò irredimibile la porta spalancata.

(I,25, Sonetti a Orfeo, vv.9-14 trad.di Franco Rella)

Nel terzo sonetto della parte prima, il poeta riflette sul potere del canto.

Ein Gott vermags. Wie aber, sag mir, soll
ein Mann ihm folgen durch die schmale Leier?
Sein Sinn ist Zwiespalt. An der Kreuzung zweier
Herzwege steht kein Tempel für Apoll.
Gesang, wie du ihn lehrst, ist nicht Begehr,
nicht Werbung um ein endlich noch Erreichtes;
Gesang ist Dasein. Für den Gott ein Leichtes.
Wann aber sind wir? Und wann wendet er
an unser Sein die Erde und die Sterne?
Dies ists nicht, Jüngling, Daß du liebst, wenn auch
die Stimme dann den Mund dir aufstößt, – lerne
vergessen, daß du aufsangst. Das verrinnt.
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind.

Rilke stesso disse che la traduzione è un’arte affine a quella degli attori, «è alchimia, conversione in oro di elementi altrui». Di fronte alla lingua dei Sonetti dalla visionarietà rapace, resa con una certa crudezza, come dice Pintor, autentico miracolo di perfezione, renderne quanto più possibile la musicalità non è impresa facile. Propongo qualche variante di traduzioni di questo “inaudito centro” di Rilke, grazie al generoso contributo di Anna Maria Curci, esperta traduttrice di lingua tedesca.

Un dio lo può. Ma potrà mai adeguarsi
su snella lira un uomo, dì, al suo esempio?
L’uomo è discorde. Apollo non ha un tempio
dove in cuore due vie vanno a incrociarsi.
Non è brama, quel canto che tu insegni,
non cosa ambita e finalmente presa.
Canto è esistenza. Al dio facile impresa.
Ma quando siamo, noi? Nei suoi disegni
quando egli terra e stelle a noi prepara?
Non quando ardi d’amore, o giovinetto,
pur se t’urge la voce in bocca. Impara,
scorda ciò che cantasti. Fu un momento.
Il canto vero è un altro, soffio schietto,
che va in nulla. Soffio divino. Vento.
(Traduzione di G. Baroni)
Un dio può. Ma come, dimmi, come può
Un uomo seguirlo con la sua lira inadeguata?
Il suo senso è la scissione. All’incrocio
di due vie del cuore non c’è tempio per Apollo.
Il canto che tu insegni non è brama
O appello per avere potere infine;
canto è esistenza. Facile per un dio.
Ma quando noi siamo? E quando egli volge
al nostro essere la terra, e la terra, e le stelle?
Che tu ami, o giovane, questo non è, anche
Se la voce t’urta nella bocca, -impara
A dimenticare che hai cantato. Trascorre.
Cantare in verità è certo altro respiro.
Spirare a nulla. Un soffio nel dio. Un vento.

(Traduzione in rima di Claudio Angiolini)

È un tema tipico della poesia simbolista la riflessione sull’idea della poesia come libera creazione di una nuova realtà. Rilke riflettendo sulla propria opera ne riconosce i limiti e lo stesso mito qui si pone come forma della sapienza poetica che riscatta la caducità degli esseri e delle cose: la loro fragilità si rivela infatti un valore in quanto li rende abitatori del doppio regno della vita e della morte. Poetare è agevole per un dio immortale, ma difficile per l’uomo, scisso tra la vita e la morte.
La poesia deve dare voce alla materia informe del mito che s’intreccia all’io lirico individuale e l’universalizza in solidarietà di pena con tutti gli uomini per giungere alla creazione poetica. Rilke riconosce la limitatezza dell’uomo, ecco perché, contrapponendo il poeta Orfeo al dio Apollo, si riconosce in Orfeo di cui sottolinea non tanto la abilità poetica ma la sconfitta finale (vv.3-4) e l’intima lacerazione, espressa con soluzioni formali e scelte estreme e che preannunciano aspetti dell’ermetismo italiano. Iosif Brodskij, il poeta russo, ritiene la poesia di Rilke un sogno inquietante nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso solo per perderlo dopo un momento “il ricordo che non ricorda” come lo definirono Dino Campana e poi Luzi.
È l’amore la prima realtà. Per questo nel magnifico Orfeo del sommo Rilke, sulla soglia del silenzio laddove tutto si fa ascolto è un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento.

Un dio lo può. Ma un uomo, dimmi, come
potrà seguirlo sulla lira impari?
Discorde è il senso. Apollo non ha altari
all’incrociarsi di due vie del cuore.
Il canto che tu insegni non è brama,
non è speranza che conduci a segno.
Cantare è per te esistere. Un impegno
facile al dio. Ma noi, noi quando siamo?
Quando astri e terra il nostro essere tocca?
O giovane, non basta, se la bocca
anche ti trema di parole, ardire
nell’impeto d’amore. Ecco, si è spento.
In verità cantare è un altro respiro.
È un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento.

(Da Sonetti a Orfeo, traduzione di Guaime Pintor)

NOTE BIBLIOGRAFICHE
Albin Lesky ,storia della letteratura greca vol. I, il saggiatore, Milano 1962 p.177
Rainer Maria Rilke, i sonetti a Orfeo, Feltrinelli, Milano 2008, traduzione e cura di Franco Rella, pp.23
Rainer Maria Rilke, Poesie, Einaudi, Torino, 1955, traduzione di Giaime Pintor p. 51.
https://www.larecherche.it/testo_poesia_settimanale.asp?id=138&tabella=poesia_settimanale

‘”I SONETTI A ORFEO” di Rainer Maria Rilke


https://youtube/0buam0er-dw

 

 

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Prisma lirico 33: Rainer Maria Rilke – Carel Willink – Léon Spilliaert – Ernest Biéler

13 sabato Giu 2020

Posted by Loredana Semantica in Prisma lirico, SINE LIMINE

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Carel Willink, Ernest Biéler, Léon Spilliaert, Rainer Maria Rilke

Carel Willink

Rainer Maria Rilke nel Prisma lirico di oggi, con Caren Willink, Leon Spilliaert e Ernest Biéler: l’eterno, l’attualità, la storia

Le foglie cadono, cadono lontano
quasi giardini remoti sfiorissero nei cieli;
con un gesto che nega cadono le foglie.

E ogni notte pesante cade la terra…
dagli astri nella solitudine.

Tutti cadiamo. Cade questa mano
e così ogni altra mano che tu vedi.

Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno
con dolcezza infinita le tiene nella mano.

Léon Spilliaert

Poesia di Rainer Maria Rilke , Le foglie cadono, 1902, da Il Libro delle immagini

Opere

Carel Willink, Paesaggio con statua rovesciata, 1942

Léon Spilliaert, Giovane ragazza sulla corda, 1911

Ernest Biéler, Foglie morte (dettaglio), 1899

 

Ernest Biéler

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Epistole d’Autore 6

13 lunedì Gen 2020

Posted by Deborah Mega in Epistole d'Autore

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Franz Xaver Kappus, Rainer Maria Rilke

In un mondo digitale come il nostro ricevere una lettera cartacea è ormai una forma d’espressione d’altri tempi, un evento più unico che raro. La telematica e la capillarità della rete telefonica che consentono la trasmissione a distanza delle informazioni in tempo reale hanno reso immediata e veloce la comunicazione interpersonale. Sono lontani i tempi in cui, quando si scriveva una lettera, occorreva avere la pazienza di aspettare che arrivasse a destinazione e che giungesse la risposta. Eppure quell’attesa amplificava le emozioni, lasciava presagire la risposta, fortificava e rinvigoriva i sentimenti. Amore, affetto, amicizia, gioia, dolore, risentimento, dispiacere, follia sono i sentimenti veicolati dalle lettere, capaci di scuotere l’animo di chi scrive e di chi legge. La lettura di Epistole d’autore fornisce un ritratto insolito e inedito, per frammenti e dettagli, di uomini e donne celebri, svela segreti, rende più umani e veri i grandi del passato.

Rainer Maria Rilke a Franz Xaver Kappus

Le Lettere a un giovane poeta furono indirizzate da Rainer Maria Rilke al giovane scrittore Franz Xaver Kappus, allievo dell’Accademia militare di Wiener Neustadt, fra il 1903 e il 1908. Pubblicate postume nel 1929, si diffusero in breve tempo nei paesi di lingua tedesca come una specie di breviario di arte e di vita. Il giovane Franz scopre che la sua stessa accademia, anni prima, era stata frequentata dal noto poeta Rainer M. Rilke. Poichè Franz si diletta a scrivere componimenti poetici decide di scrivere proprio a Rilke che per cinque anni terrà una fitta corrispondenza col giovane poeta, dispensando umili consigli, vere e proprie perle di umanità e saggezza. Una delle Lettere viene qui proposta nella celebrata versione di Leone Traverso, che fu uno dei primi interpreti di Rilke in Italia. Continua a leggere →

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Forma alchemica 14: Rainer Maria Rilke

21 mercoledì Giu 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA

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IX Elegia, Rainer Maria Rilke

Noi forse siamo qui per dire: casa,
ponte, fontana, cancello, brocca, albero da frutto, finestra
al massimo: colonna, torre…ma per dire, cerca di capire,
oh, per dirle così, come mai le cose stesse
hanno mai intimamente creduto d’essere.
Tuttavia essere qui è molto, perché sembra
che tutto qui abbia bisogno di noi,
questo luogo effimero che stranamente ci riguarda.
Noi i più fugaci. Ogni cosa una sola volta.
Solo una volta e mai più. E noi ugualmente
soltanto una volta. Mai una seconda.
Ma questo essere stati una volta
anche una sola volta, essere stati terreni
sembra irrevocabile.

(Rainer Maria Rilke, IX Elegia, vv. 32- 36, 11-17, traduzione di Loredana Semantica)

Il cantore dei cantori è Rilke, lui l’Orfeo moderno, mistico e misterioso. Ardente del sacro fuoco poetico. Con Rilke ci slanciamo verso l’azzurro del pronunciamento. La sacralità della parola esiste per dire, mentre, per converso, sembra che le cose stesse esistano al mondo per poter essere dette. E’ quasi un incantesimo del dire che le fa essere ciò che sono: presenti, visibili, dicibili. Cose animate, cose pensate, cose per sempre cose nel momento stesso in cui esse sono definite, nel vocabolo che le significa e le com-prende facendole comprendere. Cose molteplici, personificate e pensanti che mai avrebbero inteso essere ciò che sono, quando le si dice. Inconsapevoli della loro presenza/essenza, del loro portato di significanza. Semanticamente cose. Cose esplicitate. Cose a corredo, normali, meravigliose.
Noi uomini ad esse rapportati, sembriamo essere qui ed ora giustificati proprio da queste cose che necessitano di noi, come se per nostro tramite si rivelassero, rivelando la loro autentica essenza. Cose che sono per un attimo e poi non più. Fugaci quindi, non meno di noi uomini esseri caduchi per eccellenza, eminentemente consapevoli della finitudine, destinati al termine fin dalla nascita. Uomini che vivono sapendo di morire progressivamente ogni giorno, avvicinandosi col tempo sempre più all’exitus. Rilke profondo. Profondo, ieratico, profetico e interrogante. Ineluttabile, vaticinante. Rilke saggio e gigante, svettante poesia fino alle cime, impasto di poesia e carne. Come le cose, noi stessi nella fugacità dell’essere esistiamo sulla terra. Vi so-stiamo una sola volta e mai più.
Ma essere anche solo una volta sulla terra, nonostante l’abito della transitorietà, ha in sé il seme di un’eternità che sta nell’irrevocabilità della nostra essenza/presenza nel mondo. Natura esistente che resta e r-esiste per un tempo non definibile a testimonianza-specchio-icona-monolite e ci sopravvive.
Non trascorriamo quindi, inesistenti e vacui, ma siamo nel rapporto con le cose che ci concernono, più o meno materiali, in un’elencazione che le scardina e le afferma, che le rende persistenti ed effimere al contempo, che le rende tuttavia cose nella peculiarità di ciascuna di esse: casa, torre, colonna finestra. Significativa la scelta musicale dei vocaboli. Evidente un insistente riferimento a costruzioni architettoniche frutto del lavoro umano: casa, torre, ponte. Non meno significanti la fontana e l’albero da frutto, anch’essi metaforicamente produttivi, nello zampillare dell’acqua e nel frutto che l’albero dona, in un dare bucolico, originario, sorgivo. Un vago sentore metapoetico è profuso nell’intero testo. Omaggio alla parola, alle realtà osservata e trasposta in parola, all’interiorità. Com’è proprio dei temi cari all’autore.
Cose quindi che si colorano di significato e prolificano di senso attraverso la nostra esperienza che le acquisisce e concretizza. Esse non esisterebbero senza di noi, senza il significato che noi ad esse riconnettiamo, per la percezione che ne abbiamo. Poetica quest’ultima che caratterizza l’intera produzione rilkiana, come il senso religioso, instillato dalla famiglia del poeta, profondamente religiosa.
In questa Forma alchemica ho premesso  il commento ai cenni biografici che sono solita dare sull’autore. Ho scritto questo commento in colata unica, in sorta di “raptus” di corrispondenza poetica suscitata per riverbero dalla poesia di Rilke, la considero infatti un modello di perfezione, requisito di eccellenza presente del resto anche altre composizioni di questo poeta. Non avendo confidenza con la lingua originale dell’autore, delle poesie di Rilke, purtroppo, non posso percepire pienamente la costruzione, l’armonia, il ritmo e le assonanze, cioè tutto ciò che fa di un testo poesia, prima e oltre il suo senso. Esse tuttavia mantengono, anche tradotte, un’indiscutibile profondo fascino, nel che, ritengo, sia ulteriore dimostrazione della loro grandezza. Rilke ha scritto principalmente in lingua tedesca, senza tuttavia disdegnare il francese, al quale ha fatto ricorso nella seconda parte della sua produzione.
Ciò che tuttavia impressiona della biografia di Rilke è l’inquietitudine del poeta che si manifesta con una vita girovaga. Non per niente il concetto di “uomo senza casa” presente anche in Kafka, serpeggia anche nella poetica di Rilke.
Nell’arco del mezzo secolo della sua vita, (nato nel 1875, è morto nel 1926), Rilke ha viaggiato per tutta l’Europa e oltre, dalla Russia a Venezia, da Napoli a Monaco, da Praga, a Zurigo, Berna, Roma, Duino, Dresda, Egitto, …e l’elenco potrebbe proseguire. Costanti i contatti di Rilke con gli ambienti culturali di tutta l’Europa, molte le donne con le quali intrattenne una corrispondenza epistolare e frequentazione personale, essendo amiche per lui, muse, amori. Molti amici artisti e scrittori, tra i quali Pasternak, Tolstoj, Rodin, Valery, solo per citare i nomi più noti, con i quali condivise idee, reciproca stima. Altri ancora erano amici che l’ammiravano, gli offrivano ospitalità nei suoi spostamenti.
Si sposò con Clara Westhoff, dalla quale ebbe la figlia Ruth, ma il grande amore della sua vita fu l’intellettuale Lou Andreas-Salomé.
Ampia la sua produzione, i suoi capolavori sono le Elegie duinesi, dalle quali è tratto lo stralcio poetico commentato qui, i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.

Loredana Semantica

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C’è modo e modo d’essere madre

14 domenica Mag 2017

Posted by LiminaMundi in CULTURA E SOCIETA', Grandi Donne, I meandri della psiche, LETTERATURA, Poesie

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Euripide, madre, Medea, Pier Paolo Pasolini, POESIA, Rainer Maria Rilke, Salvatore Di Giacomo, Seneca, Trilussa

5 voci poetiche, 5 modi diversi d’essere madri: dal paradiso alla dannazione

Quann’ero ragazzino

Quann’ero ragazzino, mamma mia me diceva:
“Ricordate, fijolo, quanno te senti veramente solo
tu prova a recità ‘n’Ave Maria.
L’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva come pe’ maggìa”.
Ormai so’vecchio, er tempo m’è volato,
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma quer consijo nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pija er volo.

Trilussa

A’ Mamma

Chi tene a mamma
è ricche e nun ‘o sape;
chi tene a mamma
è felice e nun ll’apprezza
pecchè ll’ammore ‘e mamma
è ‘na ricchezza
è comme ‘o mare
ca nun fernesce maje.
Pure ll’omme cchiù triste e malamente
è ancora bbuon si vò bbene ‘a mamma.
A mamma tutto te dà,
niente te cerca
e si te vede ‘e chiagnere
senza sapè ‘o pecchè…
t’a stregne ‘mpiette
e chiagne ‘nsieme a tè!

Salvatore Di Giacomo

Tu non sei più vicina a Dio

Tu non sei più vicina a Dio di noi;
siamo lontani tutti.
Ma tu hai stupende, benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu,
tu sei la pianta.

Rainer Maria Rilke

Supplica a mia madre

E’ difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile.

Pier Paolo Pasolini

Medèa:

Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch’io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l’indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. è ch’essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orriblle.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei figli pensar che d’ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
(Entra nella reggia)

CORO: Strofe prima
O Terra, o fulgidissimo
raggio del Sole, a questo suol volgetevi,
mirate questa sciagurata femmina,
prima che avventi l’impeto
della morte sanguinea
sui figli suoi. Dell’aurea progenie
tua son germoglio; ed uom che versi l’ícore
d’un Dio, dei Numi la vendetta pròvoca.
Ma tu reggila, frenala,
raggio divin: tu scaccia dalla casa
la sanguinaria Erinni, cui lo spirito
della vendetta invasa.

Antistrofe prima

Invano, dunque, i pargoli
generasti alla luce: spersi ed írriti
i travagli materni andaron, misera,
che l’inospite tramite
delle azzurre Simplègadi
abbandonasti. Or, che t’invade l’animo
cura sí grave? A che, furia d’eccidio
segue a furia d’eccidio? Il consanguineo
contagio infesto agli uomini,
pena al misfatto ugual sovressi i rei
desta, che su le lor case precipita,
per voler degli Dei.

da “Medea” di Euripide trad. Ettore Romagnoli

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