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Archivi tag: Vincenzo Rabito

Terra matta di Vincenzo Rabito lettura di Antonella Pizzo

12 mercoledì Feb 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Tag

Antonella Pizzo, Terra matta, Vincenzo Rabito

Terra matta

Di Vincenzo Rabito, Einaudi, 2007

Incipit di Terra matta

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.

L’autore di Terra matta

Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, pubblicata nel 2007 da Einaudi. Con questa autobiografia Rabito ha vinto nel 2000 il «Premio Pieve – Banca Toscana», ed è conservata, nella versione integrale, presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899 Rabito è stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato ed ha allevato tre figli, è morto nel 1981. Era, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale nel Piave, quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio….

Il paese di Terra matta

Chiaramonte è un paese in provincia di Ragusa situato a circa 650 metri di altezza, si trova ai piedi di un gruppo di monti, fra i quali l’Arcibessi; è denominata balcone di Sicilia perché da lì si può vedere Gela, l’Etna, la valle dell’Ippari, gli Erei, gli Iblei e nelle giornate chiare anche il mare dell’Africa. Ci sono molti uliveti che danno un olio conosciuto in tutto il mondo. Se vai in piazza un uomo come Vincenzo può essere che ancora lo trovi, sono gli uomini di una volta, quelli dalle scarpe grosse e dal cervello fino, le mani callose, la fronte rigata, il sorriso sempre e la gentilezza sempre, gente saggia, con intelligenza vigorosa, che non ha paura di niente, gente che lavora senza mai stancarsi. Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 il nostro ha scritto, utilizzando una vecchia Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore e inferiore e inserendo, come punti di interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola.

Il pubblicato è di circa 400 pagine.  Rabito ha scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu. In questo diario ci racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà, l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie.

Gli editor di Terra matta dell’Einaudi hanno aggiunto la punteggiatura e diviso il diario in capitoli inserendo ad ogni capitolo un titolo, hanno aggiunto delle note a piè pagina laddove il significato delle parole non era molto chiaro. Rabito non ha inventato una nuova lingua, la lingua che ha usato è quella che parlavano i nostri vecchi, quella che noi siciliani abbiamo sentito parlare ai nostri vecchi quando, seduti davanti alle porte dei vari circoli dei mestieri, raccontavano, in quello che  a loro sembrava italiano, le loro storie, quella lingua che usavano i nostri nonni quando raccontavano la loro guerra ai nostri figli; non è quindi siciliano ma un siciliano italianizzato. L’italianizzazione   del siciliano dei nostri nonni avveniva utilizzando la stessa sintassi della frase in siciliano ma cambiando le “u” in “o” e, dove possibile o dove si pensava occorresse, cambiando le “i” in “e” .

Questo scambio si può notare anche nella scrittura del Rabito, infatti la parola “carusi” (ragazzi) viene tradotta in “caruse”,  “sèntire” in “sèntere”, e nel dubbio si cambiano le “i” in “e” e le “e” in “i” anche alle  parole in italiano vedi “piedi scalzi” in “piede scalze”;  “metà” in  “mità”;  “medico” in  “medeco” , “disonesta” in desonesta, gli esempi potrebbero essere moltissimi e si trovano sparsi in tutto il libro. Riguardo le note dei curatori, Evelina Santangelo e Luca Ricci, pur riconoscendo la validità del loro lavoro nell’inserimento dell’h nel verbo avere, nella scomposizione di alcune parole che il Rabito aveva scritto unite ai fini di una migliore leggibilità del testo  ho riscontrato nelle note a più pagina alcune carenze, ad esempio i curatori traducono bommolillo con boraccia, ma la bummula non è una boraccia ma una piccola giara di creta; il retapunto non è un generico lavoro di cucito ma è il retropunto; “inzamaie” non è “malauguratamente” ma più correttamente  è “non sia mai”. E tutte dicevano “Refrescate le armuzze dello priatorio”  non è “andate ad allietare le animucce del purgatorio” ma, probabilmente dal latino requiescat , è riposino; oppure mi pare che in questo caso possa essere “siano alleviate  le pene delle anime del Purgatorio”  sicuramente non allietate. Senza dubbio queste sono sfumature poco importanti quello che a noi importa, quello che conta è l’opera del Rabito, un’opera forte, che ha una grande potenza narrativa, scrittura genuina, viva, un’opera epica, è il cuntu di un cantastorie.

Il cuntu della sua vita in Terra matta inizia come padre di famiglia ad appena 12 anni, perché la madre aveva sette figli ed era vedova, continua in trincea, in Africa, nel matrimonio con la moglie appartenente ad una famiglia della ricca borghesia che poi ricca non era, c’è la voglia di riscatto dalla sua condizione di povertà e di ignoranza, il desiderio di fare parte di un ceto sociale superiore, («impriaco di nobilità»), colto, raffinato, che assomiglia tanto allo stesso desiderio di Mastro Don Gesualdo  che sposa Bianca Trao, una nobile decaduta e alla fine quel matrimonio si rivelerà un affare sbagliato. Nel caso di Rabito la suocera Anna è senza soldi e gli mangia, per una questione di case, quasi tutto quello che Rabito aveva messo da parte in tanti anni di lavoro. Però l’affare Rabito in un certo senso lo fa perché la moglie anche se gli porta in dote questa suocera terribile gli da tre figli meravigliosi che Rabito fa studiare perché ha capito che il riscatto è, anche e soprattutto, nel sapere, nello studio. Perché lui pensa “ e i miei figli, se vuole il Dio, la vita meschina che offatto io non ci la voglio fare fare” E quando il primogenito si laurea lui si è sentito come se avesse vinto la Sisola.

Dio appare qui forse per la prima volta come un Dio che probabilmente vorrà fare quello che Rabito desidera, nel resto del libro, nelle trincee, sotto i bombardamenti, nella malattie d’Africa, Dio è spesso assente, spesso bestemmiato «ognuno bestimiava al santo protettore del suo paese». «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, nonave niente darracontare».

Rabito aveva  tanto da raccontare e per nostra fortuna in Terra matta lo ha fatto in modo sublime.
Ma la storia non finisce qui, esce infatti nel 2022, sempre con Einaudi, Il romanzo della vita passata,  un ulteriore inedito ritrovato dal figlio Giovanni. Nel sito Einaudi leggiamo: Se c’è una vicenda editoriale che vale la pena ricordare, è quella di Terra matta. «Il capolavoro che non leggerete», cosí fu definito dalla giuria dell’Archivio di Pieve Santo Stefano: 1027 pagine fitte fitte di una lingua impossibile trasformate miracolosamente in un libro amato da tantissimi lettori, lanciando il cuore oltre l’ostacolo come si può fare soltanto quando si ha la certezza di avere tra le mani qualcosa di unico. Quel che è accaduto dopo ce lo spiega Giovanni Rabito, il figlio di Vincenzo: «Fu solo in seguito al successo di Terra matta che mi ricordai dell’esistenza di un secondo plico di dattiloscritti conservati a casa di mio fratello Turi, a Ragusa. Dopo la morte di mio padre ero stato proprio io a consegnare quel malloppo a mia cognata Lucia per preservarlo dalla distruzione. Temevo che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece d’altronde con tutto ciò che c’era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia di scrittore “inafabeto”». Il malloppo sopravvissuto alla catastrofe è «un’Amazzonia espressiva» di liane aggrovigliate, sabbie mobili e piante lussureggianti. Una giungla di quindici quadernoni per un totale di 1486 pagine: il secondo memoriale. Che in questa versione, ridotta e adattata proprio da Giovanni, si apre con la parola «romanzo». Perché Vincenzo Rabito, giunto a questa sua seconda, titanica prova, ormai sapeva bene ciò che stava costruendo.

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