Ma, direte, Le abbiamo chiesto di parlare delle donne e il romanzo-cosa c’entra avere una stanza tutta per sé? Cercherò di spiegarmi. Quando mi avete chiesto di parlare delle donne e il romanzo, mi sono seduta sulla riva di un fiume e ho cominciato a chiedermi cosa significassero queste parole. Potevano semplicemente significare qualche osservazione su Fanny Burney; qualcuna di più su Jane Austen; un omaggio alle Brontë e una breve descrizione del presbiterio di Haworth sotto la neve. Qualche arguzia, se possibile, sulla signorina Mitford; una rispettosa allusione a George Eliot; un accenno alla signorina Gaskell, e basta. Ma ripensandoci, le parole mi parvero meno semplici. Il titolo Le donne e il romanzo poteva significare (e poteva essere questa la vostra intenzione) le donne e la loro immagine; oppure poteva significare le donne e i romanzi che scrivono; oppure, le donne e i romanzi che parlano di loro; oppure il fatto che i tre sensi sono in qualche modo inscindibili, e in questa luce volevate che li considerassi. Ma, appena iniziai ad esaminare il soggetto da questo punto di vista, che mi sembrava il più interessante, ben presto vidi che presentava un fatale inconveniente. Non sarei mai riuscita a giungere ad una conclusione. Non avrei mai potuto adempiere a quello che è, me ne rendo conto, il primo compito di un conferenziere: offrirvi, dopo un’ora di discorso, un nocciolo di verità pura, da racchiudere tra le pagine del vostro taccuino e da conservare per sempre sulla mensola del caminetto. Tutto quel che potevo fare era offrirvi un’opinione su una questione piuttosto secondaria: una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere romanzi; il che, come vedrete, lascia insoluto il grosso problema della vera natura della donna e della vera natura del romanzo. Mi sono sottratta al dovere di giungere a una conclusione su questi due problemi: le donne e il romanzo restano, per quel che mi riguarda, problemi insoluti.
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Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929
L’incipit di oggi è tratto da quello che è considerato uno dei primi manifesti femministi del Novecento europeo. Si tratta di un saggio narrativo di Virginia Woolf, pubblicato nel 1929 con il primo titolo di Le donne e il romanzo (Women and fiction) e che raccoglie appunti e pensieri annotati durante la preparazione di due conferenze, tenute nel 1928 alle studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge. La Woolf non ha la pretesa di essere esaustiva e infatti, fin dall’inizio afferma che non potrebbe riuscire a fornire un nocciolo di verità e ciò in quanto la natura della donna e il romanzo sono e restano problemi insoluti. Consapevole della sua posizione privilegiata che le consentiva di dedicarsi alla letteratura e allo studio, la Woolf invita le donne a procurarsi l’indipendenza economica e una camera tutta per sé che da stanza-grembo possa divenire un’officina intellettuale in cui potersi dedicare alla riflessione necessaria per scrivere. La scrittrice osserva che per secoli alle donne è stato negato l’accesso alla cultura ed è stato loro imposto un ruolo esclusivamente domestico di spose e madri, dunque marginale e subalterno, anche se, nel corso della storia, non sono mancate le menti interessanti. Nel corso del trattato, a volte ironico a volte immaginifico e scritto con linguaggio colloquiale, la Woolf si chiede quante donne abbiano potuto avere, nel corso dei secoli, una stanza tutta per sé. Quante hanno avuto le stesse opportunità riservate agli uomini per sviluppare il proprio talento? La Woolf a questo proposito immagina che se ad esempio durante l’età elisabettiana, William Shakespeare avesse avuto una sorella dotata del suo stesso talento per la scrittura non sarebbe mai stata riconosciuta o apprezzata come invece è avvenuto per il grande drammaturgo. Ho approfondito questo aspetto QUI, in un altro intervento al quale rimando.
La Woolf narra di una giornata autunnale trascorsa a Oxbridge, evidente la crasi tra Oxford e Cambridge, in cui le viene vietato di passeggiare su un prato riservato a professori e a studenti e di entrare nella biblioteca dell’università perché non accompagnata da un uomo o da una lettera di presentazione. Immagina di pranzare nel College di Oxbridge e mette a confronto i pasti presso il College femminile. Il pranzo destinato agli uomini è caratterizzato dalla ricchezza e dalla raffinatezza dei piatti nonché da un’atmosfera gradevole e stimolante che induce alla conversazione; quella del College femminile invece è frugale e meno invitante. Nel saggio-narrazione la scrittrice illustra una sorta di storia sociale della donna attraverso i secoli, affronta il tema della base economica necessaria citando le cinquecento sterline l’anno, l’invito a raggiungere l’indipendenza intellettuale dalle grandi scrittrici dell’Ottocento come Jane Austen o Emily Brontë e a superare quello che sarebbe stato indicato come complesso di Cenerentola, cioè la paura tipicamente femminile del successo e del ruolo pubblico. Analizza le cause della mancanza di una vera letteratura femminile soprattutto per il ruolo subalterno da sempre attribuito alle donne da parte di una società patriarcale. Dal testo traspare non solo la grande cultura che la Woolf aveva della letteratura inglese ma anche una grande capacità critica e analitica nel trattare questioni letterarie e saggistiche allo stesso tempo. La Woolf aveva intuito che, una volta conquistati i diritti civili, le nuove forme di esclusione e di spersonalizzazione della donna sarebbero state causate dalla famiglia, colpevole di limitare l’espressione dell’io femminile. Anche nella migliore delle ipotesi e dei contesti quante volte si è costretti a interrompere uno studio, un approfondimento o un’opera d’arte a causa delle più impellenti necessità familiari? Nel suo breve excursus storico-letterario Virginia cita le prime scrittrici britanniche del XVII secolo, spesso aristocratiche senza figli, relegate in casa, con l’hobby della scrittura, e ritenute un po’ eccentriche e capricciose dai coniugi e dalla società. Proprio a queste difficoltà la Woolf attribuisce la scelta del romanzo come forma espressiva da parte delle autrici citate, Austen, Brontë, Elliott, Sand, proprio perché, secondo lei, richiede meno concentrazione rispetto alla poesia. Ciascuna di queste scrittrici è stata costretta a nascondere la propria identità dietro pseudonimi maschili per evitare che la propria opera fosse accolta con ostilità da parte della società e perfino delle altre donne. Secondo la Woolf questa difficoltà limitava la creatività e rendeva peggiore la produzione letteraria femminile anche perché ostacolata dalla rabbia repressa nei confronti degli uomini. Nel corso del saggio non una volta la Woolf utilizza il termine di maschilismo ma accenna alla misoginia di detentori di potere assoluto come Napoleone o Mussolini. Nella parte finale del saggio la scrittrice afferma che la letteratura più grande è quella prodotta da autori che hanno permesso la collaborazione tra la parte maschile e quella femminile della personalità di ciascuno. Ricordiamo che in questi anni la Woolf aveva dato alle stampe Orlando ispirato dalla conoscenza di Vita Sackville-West in cui aveva difeso l’androginia dell’essere umano. Quest’idea della necessaria collaborazione tra maschile e femminile le deriva dall’osservazione di una coppia che nel trambusto londinese prende un taxi. La visione diventa una vera e propria rivelazione per la Woolf, in cui si condensa lo scopo di tutto il saggio. I due sessi non possono esistere indipendentemente l’uno dall’altro, perché si completano a vicenda. Allo stesso modo affinchè un’opera d’arte sia valida e duratura necessita delle prospettive di entrambi i sessi. Certo è che Una stanza tutta per sé, negli ultimi anni ha acceso confronti e dibattiti sulla “specificità” della letteratura al femminile e la stessa Woolf è stata considerata la madre spirituale e l’antesignana del movimento femminista europeo. La stanza tutta per sé diventa il luogo in cui la donna può riappropriarsi di tutto quello che le è stato negato: cultura, tempo, libertà, autonomia di pensiero e di azione. E’ la stanza da cui poter osservare il mondo, fare buona letteratura, acquisire e difendere un’idea, la propria.
Deborah Mega
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