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Persegue la sua “poesia del possibile”, Emilia Barbato, nell’ultima silloge Capogatto, edita per i tipi puntoacapo Collezione Letteraria. L’opera si presenta tripartita nelle sezioni Bastìa, Capogatto, Via dei transiti attraverso un percorso programmatico fortemente connotato di simbolismo e sacralità. Partiamo dal titolo. La prima definizione di Capogatto nel dizionario è capogiro, giramento di testa, la stessa autrice però precisa che l’espressione faccia riferimento ad una tecnica che, in agronomia, è impiegata alle propaggini della vite e che consiste nell’interrare l’apice del tralcio affinché generi nuove radici. La vite, e con essa qualsiasi germoglio venga riprodotto, rappresenta la vita stessa. Non a caso ne condivide la stessa etimologia e ne rispecchia il desiderio di fertilità, bellezza, prosperità, equilibrio.  Leggendo i versi di Emilia Barbato emerge un vigile controllo della parola, del lessico, perfino dei sentimenti, delle pulsioni, delle tentazioni, che, inevitabili, sembrano scorrere come linfa “nei nodi, nei tessuti conduttori”, talvolta guizzano in superficie per pochi attimi rivelatori per poi essere nuovamente controllati e messi a tacere.  Sacrificio inteso come disciplina, volontà e fede sono le qualità richieste affinchè la pianta madre dia frutto. Questo nobilissimo desiderio di riproduzione attecchisce nella sezione centrale del libro, intitolata non a caso “Capogatto”, certamente la più riuscita, laddove l’autrice, immedesimandosi con la talea, afferma “modulo un vagito -attecchisco- / fuori di me schiudo / gemme, cresco una figlia.”

Rigore, sacrificio, rispetto delle regole sono evidenti in testi articolati e sofferti come Santuario o prescrittivi come Maggio in cui attraverso la ricorrenza del numero tredici applicato a miti settimane, apparenti primavere, isole perfette di tempo, coroncine fertili, gocce di veleno, si forniscono indicazioni in vista di una produttività dei sentimenti che possa calmare “la confusione dei pensieri, / i disturbi d’ansia, la paura delle spose”.

Nella poesia di Barbato è molto presente e sentita la dimensione spazio-temporale, “quello che dovremmo recuperare con cautela”, dice, “è il nostro modo di essere luoghi”, probabilmente inteso come recupero di sentimenti, emozioni, esperienze, riflessioni che fanno parte di noi e ci costituiscono. Ciascun testo così diviene riflesso del quotidiano, da cui, talvolta, nonostante si viva un “tempo che precede la lacerazione”, “l’aggressiva / decadenza delle cose, delle case, dei muri, / il progressivo franare dei margini delle strade”, emergono slanci lirici di grande efficacia espressiva. Nelle prose della prima sezione è recuperato il linguaggio cinematografico, attraverso lemmi finalizzati a rappresentare il palco della vita, il mondo illusorio, il riflesso dello specchio, l’idea di finzione di persone e sentimenti e di una realtà di fotogrammi in successione, in cui “i gesti si fanno silenziosi, sequenze mute / di mani tra le tazze” e in cui si recuperano perfino i dejà vu.

Con lucidità di visione Barbato coglie il tempo presente, “evitando di perdere dettagli”, con vere e proprie ellissi spazio-temporali che a volte spiazzano il lettore, lo intreccia ai ricordi e a riflessioni sagge, consapevole che il vero miracolo è il prodigio dell’esistenza nel suo manifestarsi ed evolversi. Per citare la Szymborska de La fiera dei miracoli, “Un miracolo, basta guardarsi intorno: / il mondo onnipresente. / Un miracolo supplementare, come ogni cosa: / l’inimmaginabile / è immaginabile”.

Colpisce di questa silloge la capacità di partire dalla concretezza delle cose, da esperienze, situazioni e sentimenti condivisi, non ultimo l’assenza-presenza dell’amato, per poi interrogarsi sul senso dell’esistere con formulazioni filosofiche e riflessive al tempo stesso. Una scrittura matura dunque, scrupolosa, misurata perché “garbatamente, usiamo la ragione, / scegliamo tracce / praticabili, per cui esista/ svolgimento.” Solo attraverso l’incanto della poesia è possibile fornire la propria interpretazione, denunciare ed esprimere la propria disperazione che è poi quella di tutti, e rendere la nostra vita più lieve e sopportabile.

Deborah Mega

 

*

Quel modo di essere luoghi

Quello che dovremmo recuperare con cautela

è il nostro modo di essere luoghi,

di raccoglierci e languire riflettendo l’aggressiva

decadenza delle cose, delle case, dei muri,

il progressivo franare dei margini delle strade,

dovremmo ammettere di contenere

la popolazione stanca di una baia

e il fastidio della sua aria salmastra, la noia

dei rami, capire di essere la riva dove si ripetono

le acque tristi e la terra, la solitudine

del bastione di Spa House che resta nell’incuria

e nel romanzo di quell’uomo che amava soltanto i bambini.

*

Inverno minore

Il tempo che precede la lacerazione

è una bestia docile che tira

fuori la lingua in un inverno minore,

il fiato corto dei minuti condensa,

schiuma paure, il cuore

non devi praticarlo,

ha sentieri irrimediabili,

carichi di mine.

*

Santuario

Ti offro miserie, il dolore dei lacci, l’ex-voto

di questo cuore, preghiere, ancora preghiere di supplica,

ti prego, ti prego fammi mantenere un cammino irreprensibile,

seguire la ragione, i giorni, le prescrizioni.

Costringimi alla disciplina, al rispetto delle cure,

agli orari, al rigore di questa stanza vuota, rinuncio

alla sua bocca, alle mani, al corpo,

perché il suo corpo mi consuma come una maledizione,

la sua assenza mi salva e danna in una forma vuota,

senza ragione, irregolare, come nuvole che scorrono negli occhi,

occhi liquidi, occhi freddi, come la morte che ho nel cuore,

la morte dei fili strappati tra le mani,

lontano, fuori da queste mura, lontano, stormisce

la foresta e i miei pensieri, avvampano i roghi della voce,

bestemmia la sua lingua,

un’unica bestemmia folle nella mia bocca,

ripeto suppliche d’intercessione, ti prego, ti imploro,

dammi la forza di continuare a tenere

pulito il santuario, di restare, concedimi una grazia,

occhi ciechi, orecchie sorde, mani monche,

mai più terra sotto le unghie, nessuno,

mai più polpastrelli per toccare, preghiere, solo preghiere,

necessarie come l’acqua per le piante, ormai niente

ha più senso se non le preghiere, ho distrutto tutto.

Per te il passato, le costrizioni della camicia,

l’ex-voto di questi arti lividi, preghiere, ancora preghiere

di supplica, ti prego, ti prego dammi una condotta

irreprensibile, la misura delle ore.

Evitami di tornare sullo stesso pensiero

come mura che girano all’infinito

intorno all’albero che muore,

governa la mia salute mentale,

sono la lingua tumida di terra

su cui si eleva scheletrico l’arbusto

della malattia bianca,

di questo centro di salute io sono il vuoto,

l’assenza della umana ragione,

ripeto suppliche d’intercessione, ti prego,

ti imploro, concedimi la grazia

di non cadere sotto i mortai dei suoi baci,

i colpi, i fili d’erba tra le mani, mai più passione,

preghiere, solo preghiere,

offerte con sangue e corpo nel sacrificio,

niente ha più senso, ho distrutto tutto.

*

Capogatto

1

Separo tutto,

asporto il ricordo

dell’ultima propaggine

delle tue mani nel mio corpo

moltiplicato da ulteriore nudità

e qualche menzogna,

dissipo finanche la voglia e l’ipotesi

di un uomo che mi risolva.

2

Sotto le cattive stagioni

mi incurvo, mi interro

– ho un taglio – protendo

alla fine dei sarmenti stanchi,

tuttavia, nella terra

modulo un vagito – attecchisco –

fuori di me schiudo

gemme, cresco una figlia.

Qui – dove separano –

stringo dipendenze

e autonomia, morte e vita:

l’archè.

3

Potare è un movimento sapiente,

la cruenza necessaria dell’agronomo

sui capi a legno perché

i tralci gemmino,

recidere è il tono ubbidiente

della mia voce

all’impeto della mente

affinché il cuore, tremando, taccia.

4

Vedi, così come il pampino usa

i colori strepitando tutto

il suo bisogno di nutrizione

e la misura esatta d’acqua per i frutti,

io trattengo l’eco di una parola,

l’amplifico nella voce delle cose,

allontanandomi quel poco dalla perfezione,

per non turbarla, per coltivare la felicità.

5

La strada del germoglio tra i nodi

è affollata di indugi,

di fratture, soccorrono

le gemme di controcchio,

premi qui,

sulla bocca, forte sul petto,

conduci nella mano questo tremito di speranza,

nel calore le mie temibili muffe.

6

Disponi le mie gemme dormienti

nel verso giusto,

dipana il verde dei germogli

sul tuo soggetto vigoroso, rispecchiando

affinità e epoca dei bocci,

segno teneramente la tua corteccia

con un’impronta trasversale e una longitudinale

traccio la sacralità in cui mi innesto.

*

pupa

Non alterare lo stato di quiescenza

della pupa, la stasi, l’aria calda

dell’occhio, la regione

quasi calma del ciclone,

la farfalla, le cui ali penzolavano,

espande liberandosi

dal bozzolo e in uno stadio muore,

nell’altro, improvvisa, vola.

 

Testi di Emilia Barbato, tratti da Capogatto, puntoacapo CollezioneLetteraria, 2016