Vecchia contadina, Renato Guttuso, 1949
Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
Nonna, tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e a ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni
con lo strofinio appena udibile dei tuoi passi,
entrando dalla parte del giorno a
restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla,
io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lilla che ti fa
come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare
delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia
che tu lasci libera quando ti alzi,
come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna,
però in te finisce il tempo,
la successione dei giorni e delle spiagge,
delle aule e dei pianti,
dell’amore nei suoi mille specchi,
dell’uomo e del bambino che riconciliano
le loro distanze nei tuoi occhi,
oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io,
e niente impedisce che il piccolo e l’uomo
ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio.
Questi capelli che tu accarezzi
e che pettinasti per la prima volta,
questa fronte che stai baciando
e che lavasti del sudore della nascita,
queste mani che vanno per il mondo
palpando i suoi bei vuoti,
e che guidasti nel primo incontro
con il cucchiaio e la palla,
tornano al porto del riposo,
e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte,
e non se ne vanno, nonna.
La nonna spunta con il giorno
a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais,
ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica,
del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa
distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e,
associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie,
sento il tremito dell’acqua sui rampicanti
che bucano i muri
e che la ricevono crepitando
e si riempiono di scintille.
Ho dieci anni,
vivo insieme ai bruchi e alle anatre,
sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo,
ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna,
le arrivò già all’altezza delle spalle,
sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune
dei polli nati durante la notte.
Il nostro giardino durò quanto l’infanzia.
Né tu né io lo dimenticheremo, nonnina.
Non dimenticheremo
il sapore delle pesche bianche,
delle barbabietole, delle zucche incendiate.
Fu il tempo del riso al latte coperto di cannella,
del piacere delle pannocchie
sulla tavola tesa sotto i pergolati.
Stai nella cucina in penombra,
con i glicini alla porta,
e curi le cadenze delle bacinelle di gelatina,
le marmellate invernali
che ordinerai nella credenza.
Io sto lì,
con Giulio Verne e una botta al ginocchio,
felice, guardandoti,
sicuro che niente potrà mai accadermi,
che in mezzo al mare o all’assalto del polo
con il capitano Hatteras,
o appeso al cielo con Michel Ardan,
tu mi tieni con te,
vicino al fornello da cui l’aroma
inzuccherato cresce come un soave vulcano
dipinto a lapis.
Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
E non solo ieri, nonna.
Ogni volta stai lì,
piccola sotto l’architrave,
imbacuccata nella tua vecchiezza senza macchia,
nella tua piccola salute,
e ogni volta che mi trai da porte e passi e uomini,
io so che tu stai lì.
E che il tuo amore
senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro,
e il tempo gira la testa e ci accetta interi,
con il bambino che piange fra le tue braccia,
con il viaggiatore che si lava
della polvere nel tuo sorriso,
con la giovane nonna che corre
in mezzo alla neve per rallegrare il nipote,
con questa vecchietta che sostiene
sulla soglia la lampada del benvenuto.
E il primo che muoia saprà che niente muore
e che la perfezione regnò nel suo giorno.
Julio Cortàzar
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