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L’ultima produzione di Emilia Barbato è una preziosa plaquette edita da Pietre Vive nella collana iCentoLillo e illustrata da Nadiya Yamnych. Si tratta di una silloge dedicata alle grandi donne che formano una donna: la propria madre, la propria nonna, la terra che brucia di notte, scrive l’autrice. I testi che compongono la raccolta hanno i tratti della delicatezza, perseguono una poetica delle piccole cose, incantano con la suggestione delle immagini: a partire dal titolo, che evoca, insieme alle illustrazioni originali della Yamnych, atmosfere giapponesi. Sembrerebbero scene di vita quotidiana, è ritratto infatti il paesaggio urbano fatto di palazzi, antenne, case affacciate all’abitudine, centri commerciali, se non fossero scandite da istantanee di senilità, da naufragi di relitti, da vuoti, assenze e sottrazioni. Tre sezioni costituiscono la raccolta: la prima reca l’acronimo dell’antigene carboidratico, un marcatore tumorale, l’altra è indicata dal numero di un paziente oncologico che, procedendo nella lettura, si scopre essere la propria madre, il cui corpo martoriato è paragonato alla terra dei fuochi. La terza sezione è titolata Oxaliplatino, un agente chemioterapico indicato nel trattamento del tumore in questione. C’è tutto un ecosistema meccanico a regolare monitoraggi, soluzioni, campanelli che segnalano richieste al personale. Si descrive l’attesa, castigo e disciplina, le stanze poco illuminate, asettiche e prive di calore umano dell’ospedale e poi, in simbiosi con chi soffre, la scarica di radiazioni, la paura, perfino la sofferenza di chi amiamo. Basta un sorriso a donarci la speranza, ad offrirci un appiglio di salvezza che non ci faccia sentire così drammaticamente impotenti. Non sempre però sono sufficienti la forza, la caparbietà, la fierezza, la maestosità, il rigore che sono propri dei cipressi e dei mesi invernali. Si muore nell’inatteso di un giorno / per una falla di pianificazione, scrive Barbato. Non si è mai preparati di fronte alla scomparsa dei nostri cari, si resta pietrificati e freddi / sul baratro della sorpresa. Avviene poi di assistere al miracolo della rassegnazione, la stessa che ci permette di farcene una ragione facendoci dono del verbo del cielo, della pioggia e dei suoni d’acqua che incantano con la trasparenza delle immagini. All’arrivo della primavera anche il ciliegio si prepara alla piena fioritura in cui si raggiunge l’equazione bellezza=morte. Dentro però ci travaglia un residuo inverno che non passa. Possiede uno straordinario talento Emilia, nel fissare istanti di suggestione. È possibile coglierlo nei vari testi ma in particolare nei due haiku presenti:

Eri tu mamma,

c’ero, nella tua stanza

gocce di gelo.

 

Sommo lo sguardo,

nuvole di ciliegi

piovono piano.

Il corpo della madre, aggredito dalla malattia, corrisponde a qualsiasi corpo che “in terra e in mar semina morte”, allo stesso modo, per associazione di idee, il corpo materno è quello della terra dei fuochi che non è solo quella napoletana ma la terra di tutti, deturpata in modo irreversibile. Dal dramma personale si giunge al dramma universale. Il dolore di Emilia è anche il nostro, appartiene a ciascuno di noi.

Deborah Mega

*

Il sambuco stormisce
con una voce dimenticata
di campagna un oscillare
di foglie lieve per l’oscura
la rigogliosa e la vergine,
qualcuno strilla parole remote
di una bellezza senza fiducia.
La terra brucia
e genera e si accuccia,
un piccolo animale che scava
che ti somiglia,
una tazza che si sbreccia.

*

È benigno?
Perdoni la domanda,
io non conosco la parola storta
che cresce nell’intestino di mia mamma.

*

Ha freddo!
Così deve andare dopo l’intervento? È troppo magra e con tutte
quelle sonde non voglio
toccarla, capisce?
Osso dopo osso,
nel letto spoglio dove finiscono le ore c’è la terra dei fuochi di mia mamma.

*

Ti scrivo in giorni di apparente luce
– penso di scriverti ma non lo faccio
il buio entra in forma di punteruoli
che aprono in silenzio –
Con la maniera affannata dei pomeriggi
inseguo raggi, i favori del cielo,
il corpo di una sconosciuta che mi precede
e ondeggia sulla strada come un metronomo,
fuori tutto si direbbe procedere
con l’entusiasmo dell’estate
ma dentro sono ferma, stretta
a una nuova chiarezza,
mi chiedo quando questo sasso
che mi distacca abbia formato
una tale consistenza e quante
cose in questo modo io manchi.

*

È un gene, una quinta stagione
da cui non esci, una mattina
qualunque con i piedi al gelo,
la guancia bruciata dal freddo
aderisce perfettamente al vetro,
si incolla nel tuo terrore,
dovrai strapparla,
procurarti altro dolore.

 

Testi tratti da Il rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive, settembre 2018

Nadiya Yamnych, Cielo stellato