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Ci sono dei brani che non solo ti restano nel cuore ma hanno il potere di addolcire una giornata faticosa o difficile riempiendola di sentimenti positivi e di serenità. È il caso di Don’t stop me now dei Queen, composto da Freddie Mercury e registrato nel 1978 a Nizza, incluso nell’album Jazz e pubblicato come singolo nel gennaio 1979. Il brano, esempio del caratteristico stile dei Queen, infarcito di armonie vocali multitraccia, inneggia alla sfrenatezza e alla libertà sessuale. Nei mesi scorsi è stato diffuso online il trailer di Bohemian Rapsody, biopic per la regia di Bryan Singer che ripercorre le tappe significative della carriera del leggendario leader dei Queen, Freddie Mercury, dagli esordi fino alla performance indimenticabile in occasione del Live Aid. La pellicola è stata trasmessa in Italia il 29 novembre, mentre in Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Stati Uniti, è stata diffusa a partire dalla fine di ottobre. La sceneggiatura è stata scritta da Peter Morgan, riscritta da Anthony McCarten, infine ulteriormente ritoccata. L’attore che ha prestato corpo e volto al film dedicato a Freddie Mercury, è Rami Malek, che quando Freddie morì aveva appena dieci anni e che così si è espresso in una recente intervista: Quando ho ottenuto questo ruolo ho pensato che sarebbe potuta essere una performance in grado di definire una carriera. Due minuti dopo ho invece pensato Questa parte potrebbe distruggere una carrieraNonostante la pellicola stia ottenendo un’ottima accoglienza in tutto il mondo, anche se non mancheranno le critiche, dovute anche alla lunga gestazione, per il protagonista il percorso è stato impegnativo e complesso. Come si fa infatti a emulare pur nella finzione il cantante, l’acrobata, il provocatore, l’istrione, un artista così complesso e inimitabile? Il film racconta l’intera epopea di Freddie Mercury, da quando era inserviente all’aeroporto di Heathrow a quando divenne  star della musica internazionale, sacrificando talvolta la complessità del protagonista, lasciando emergere la solitudine e l’infelicità dell’uomo. Si descrivono frettolosamente, a dire il vero, le origini parsi e l’infanzia trascorsa a Zanzibar, la famiglia di religione zoroastra che dall’India si era trasferita in Gran Bretagna e inizialmente non vedeva di buon occhio le scelte di Freddie, il legame con la fidanzata, l’amore della vita Mary Austin, il rapporto turbolento con i manager e i compagni della band, la scoperta della propria bisessualità infine della sieropositività. Mercury, pseudonimo di Farrokh Bulsara, divenne infatti  simbolo della lotta al virus dell’Hiv, essendo stato uno dei primi, più famosi sieropositivi della storia. Dalla pellicola emergono alcune figure importanti nella vita personale e artistica di Freddie che lo hanno accompagnato fino alla fine: il chitarrista Brian May, il batterista Roger Taylor, il bassista John Deacon, i manager della band, John Reid, Paul Prenter e, successivamente, Jim Beach. L’utilizzo della vera voce di Mercury ha rassicurato i fan di tutto il mondo, me compresa, tutti gli attori, in particolare Gwilym Lee che interpreta Brian May, riescono a raggiungere una somiglianza fisica e gestuale impressionante. Nei venti minuti finali del film, come fuochi d’artificio lasciati per il gran finale, viene riprodotta in modo estremamente fedele l’intera esibizione del gruppo al concerto del Live Aid del 13 luglio 1985, presso il Wembley Stadium di Londra, un concerto umanitario organizzato da Bob Geldof che vide la partecipazione dei più importanti artisti internazionali, allo scopo di ricavare fondi in favore delle popolazioni dell’Etiopia. Nei 20 minuti a disposizione, i Queen suonarono Bohemian RhapsodyRadio GaGaHammer to FallCrazy Little Thing Called LoveWe Will Rock You e We Are the Champions. La stampa, gli spettatori, gli altri artisti considerarono la loro interpretazione memorabile, una delle migliori di tutti i tempi. La partecipazione trasmise nuovo entusiasmo e vitalità al gruppo che perseguì nuovi progetti. La scelta degli autori di fermarsi al 1985 e di non raccontare gli ultimi sei anni di vita del cantante e di carriera del gruppo fino all’album Innuendo, testamento spirituale di Mercury, lascia un po’ l’amaro in bocca e si gioca quella tensione drammaturgica che in alcuni punti gli autori, sotto la supervisione dei membri superstiti del gruppo, hanno dovuto sforzarsi di creare. Nonostante la volontà di ricostruzione dei fatti e il tentativo di rendere verosimile la trama, dalla descrizione degli aspetti più intimi e familiari come la passione per i gatti agli eccessi leggendari come le apparizioni con la corona e il mantello, sono presenti alcune incongruenze temporali, solo nel 1991 Mercury avrebbe informato gli altri membri della band di aver contratto l’Aids e non, come emerge dal film, poco prima del Live Aid, avvenuto nel 1985, omissioni come l’incontro con David Bowie nel 1981 e la composizione e registrazione di Under Pressure o la collaborazione di Mercury all’album Barcelona del 1988 con il soprano spagnolo Montserrat Caballé. Grazie alle indimenticabili canzoni,  all’interpretazione rigorosa e alla bravura del protagonista che tenta in tutti i modi di riprodurre il carisma di Mercury, riuscendoci abbastanza, al Live Aid, una delle performance musicali più celebrate di tutti i tempi, Bohemian Rhapsody chiude in bellezza e commuove gli spettatori. Chissà che non produca una nuova generazione di  appassionati, non a caso, vi ho condotto le mie figlie. È lecito però chiedersi quanto sia merito del film e quanto invece dei Queen e delle loro indimenticabili canzoni.

Deborah Mega