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Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

 

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

DAVIDE ROCCO COLACRAI

 

Quando Neruda sognava sogni che non erano d’oro, forse

“e mi commuove un volo, l’incerta
direzione di una foglia, il rotondo
occhio di un pesce immobile nel lago,
le statue che volano nelle nubi,
le moltiplicazioni della pioggia”

La sua era un’infanzia fatta di parole che non si poteva guarire,
il silenzio del mondo gli parlava,
la materia era il suo alito,
penetrava i sogni e, con essi, dilatava la misura delle cose,
l’oceano la sua platea,
il tempo la sua cura,
l’ombra stretta dove pulsava al vento il suo corpo
al ritmo da guitarrista del suo Cile.

Era affamato di tutto,
il più minuscolo granello spostato dal passaggio obliquo di una farfalla un miracolo,
per ogni miracolo un fuoco dentro
che sprigionava parole,
le parole a imprimere un senso al mondo, una speranza,
più forte della pioggia, e anche della morte,
il suo canto alla vita,
a quello che, come brace, andava a comporsi e scomporsi
dietro la pelle, spessa e dura, degli adulti.

Faceva l’amore con l’universo sottovoce, e poi lo inventava,
e addosso, con sé, il dolore.

Era evidente che Dio lo avesse dotato di un asse, preciso e infallibile,
più infinito dello spazio, e necessario.

La sua era un’infanzia fatta di parole che non si poteva guarire,
decisa nel suo assolo, come quello del chucao,

oltre la terra, e la solitudine,
il buio e le nottole, oltre la resina dei sensi, attorti ai cuori di coloro che non sognavano più.

 

S’i’ fosse fiore

I fiori sono i geroglifici degli angeli,
amati da tutti gli esseri umani per la bellezza del loro carattere,
sebbene pochi riescano a decifrare
anche solo qualche frammento del loro significato

Avete mai visto la pioggia piangere ed essere consolata da un fiore?

I più fragili, incompleti per solitudine, tra di noi
che nemmeno l’alito verticale del vento osa asciugare,
si lasciano lubrificare, a volte anche impregnare, dalla lacrima mai uguale del cielo,
ognuno nella sua posizione, mai troppo diritta,
nel fagocitare quel lievito d’amore che la vita porta in grembo con sé.

Io sono un fiore di questa famiglia,
dal temperamento vanitoso e mai sazio, deciso quanto basta, e passionale,
mi divertono gli animali quando con i loro nasi mi spettinano,
mi lascio mordere dagli umori delle stagioni, dall’abbrivio di un’attesa,
e mi piace misurare le rughe della terra, gonfie come sono di storie, radici e sogni.

L’alba segna l’ora per comporsi, qualcuno s’incipria, altri s’impomatano i petali all’insù,
a mezzogiorno amoreggiamo con le ombre,
morbide e sempre difficili da avere, si concedono senza promessa,
appena imbrunisce lisciamo quel che resta del giorno
oltre l’orizzonte, nelle ninnenanne da assecondare, per rendere tutto più sopportabile.

La mia famiglia è più numerosa di quel che si possa pensare,
lavora per l’armonia della notte,
per quegli spazi circolari che si aprono, denudano e mostrano prima di scivolare nel cuore
e persistere come scelta o destino,
ognuno a profetare quelle orme che ne tracciano il nome a Dio.

Noi confortiamo gli umani nei loro desideri, e i giorni nel loro evolversi.

La città nella sua inesausta malattia di essere e non essere.

E la pioggia quando piange.

Noi con il nostro silenzio da culla del mondo, certo e completo, sempre e per sempre.

 

come virgola d’autunno

e il mare insiste,
i pescatori vagliano se stessi per la nuova stagione
e la vergine si pettina all’orizzonte,
l’estate, già matura, siede come un’anziana donna
pronta per dare il cambio,
nel frattempo sogna dietro al suo ventaglio
con il cielo del colore del grano,
le lacrime in un bicchiere di vino infiammano un canto
più sonoro dell’acqua,
ognuna si lascia infrangere per spargere la sua benedizione
in un’onda che si evolve in dardo,
è il sapore del tramonto a ricordare ai fichi d’india
di spremere il dolore al tempo
e renderlo perdono,
il cuore a contare le nostalgie che nessuna profezia
potrà placare,
la parabola di un destino, dove si spengono le ombre,
che, tra dalie e profumo di mosto,
in punta di piedi,
come virgola d’autunno,
prepara, senza paura, la mia nascita al mondo.

 

L’asintoto

Ora che mi resta solo questa eccezione
alla mia preghiera
da stringere al petto, dove le obliquità
del suo corpo tessono
l’accento, misurato, di un’attesa
che condensa l’infinito
nei propri riflessi, e l’ora, nuda e addosso,
si strugge in un’abitudine
che fa dei sogni gli spazi che il silenzio
abita tra la pioggia
che non bagna, e la città si scioglie
in un bicchiere senza asse
a ricordare che tutto, anche la molecola
più minuta, è una metà, e l’amore
un’ipotesi che supera
quel sempre senza contrappeso nell’innocenza
delle mani, ora che l’alba
schiuma di ricordi, nuda d’ombra
e senza rifugi, e amplifica
la verità di una debolezza e il confine
del perdono, e conferma
che la cura di Dio, come la vendemmia,
porterà promesse: non ho giorni
da sgranare, non oso cucire
eredità con le mie radici, non c’è principio
che scivola a me dal setaccio
dell’universo, zitto il dopo: e lascio che
questo presagio, nudo di corteccia
e senza nome, mi morda, fermo al centro
di questo assolo: e troppo mondo.

 

Allo zenit dell’amore

Sono la mezzanotte della primavera
quando luna e sole indugiano in una congiunzione d’eclissi di latte
le madri singhiozzano a sillabe azzurre le loro orazioni
sulla punta del cuore hanno forma di farfalla i baci
della vita piroetta all’unisono il batticuore verso il cielo
si mescono al sudore sangue e vino
e, al loro profumo che preannuncia un’assoluzione,
crepita nell’impazienza di mostrarsi l’universo;

sono il lievito dell’incontro di più ombre in una carne
che scalpita sul guanciale imbevuto dei sogni
sorge sulla scia di un arcobaleno arciere
smuove le zolle di un’attesa lunga un desiderio
devia le geometrie di una nemesi in due
e rovescia le tasche prominenti delle stagioni in un punto
che, dal centro del morbido ombelico di un seme,
tracima nella voce di un rintocco di primordio.

È la prima volta che il mio nome pronunciato nomina
e che il nominare raccoglie in sé tutte le impressioni di Dio
e, con esse, la bellezza di una nuova virgola
la linfa della terra
i colori
il respiro
il congiuntivo dei giorni
e lo zenit dell’amore.

Aspetto che la pioggia mi racconti la mia storia.

 

 

Testi tratti da “Asintoti e altre storie in grammi”, Le Mezzelane  Editrice, 2019.