Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di
Enrico Cerquiglini
Li vedi i colori che fanno della collina
la festa dei gabbiani? È una collina
che si alimenta ogni giorno
dei nostri sogni dismessi,
del cibo che non sazia,
delle mode ora derise,
archiviate nel ridicolo dell’anima,
dell’orgoglio d’essere
figli dell’occaso
destinati alla gloria eterna,
promessa da divinità
e mercanti del tempio.
Lo vedi il bosco delle case
come si espande sulla pianura,
sulla collina, sul pianoro
cacciando il verde variabile
di un bosco senza camere
e sale d’intrattenimento?
Lo vedi il fumo nero
che a volte oscura il sole?
È il padre della luce,
delle macchine che vanno
da sole, che vanno ovunque,
che parlano e pensano per noi.
Lo vedi quel serpente che va
rasentando la montagna
portando con sé
il colore della nostra pelle
e il pudore del corpo puliti,
tutto ciò che non osiamo mostrare.
Vedi laggiù, sempre più vicine,
nuvole di fuoco che si nutrono
di vita? Sono i nostri fiati
infernali, le nostre gole fameliche,
le nostre fantasie illogiche.
Dall’altra parte vedi le acque salire
acque salate e calde,
acque che strappano argini
e sommergono i boschi
di cemento, le strade
dei viaggiatori del nulla.
Vedi, figlio mio,
un giorno non lontano
tutta questa distruzione
sarà tua.
*
Ti scriverò un giorno una lettera,
magari in brutti versi,
per dirti in quale modo scorre il tempo
alla periferia della Storia,
in questo angolo di terra
coperto di viti, ulivi e solitudine.
Ti scriverò, senza prentendere risposta
– so che dove sei o non sei
non si è usi alla scrittura –
magari con una patina d’ironia
o con la scrittura asciutta
che preferivi all’incedere barocco
di certe confidenze infauste.
Ti scriverò per dirmi
cose che non mi son mai detto
rimandando di giorno in giorno
il conto da saldare
e le finestre da aprire
per dare aria a questo universo
di parole su carta.
*
nessuno arse con Giordano Bruno
– “quello scelerato frate domenichino de Nola” –
i più scesero a patti con gli aguzzini
con compromessi generando stirpi abiuranti
altri corsero a procurarsi fascine
per approntare il rogo per lo “heretico ostinatissimo”
ignari di eresie e di speculazioni
spinti dal desiderio di vedere tra le fiamme
“nudo e legato a un palo” un frate
da altri frati “abbruggiato vivo”
e raccontar per anni
– con nauseata soddisfazione –
testimonianza di carne umana arrostita
del dolce nauseabondo fetore
– oh l’odore del napalm al mattino
colonnello Kilgore! –
anche la mordacchia per tacitare
prima della morte lo “eretico impenitente
et ostinato” e lordarne di sangue
il volto e il cencioso vestito
da additare come cane al volgo
imprecante orante e soddisfatto
cantando “letanie”
mentre torvo disprezzava la croce
in nome della quale lo si straziava
“e così arrostito miseramente morì
andando ad annunciare io penso
a quegli altri mondi da lui immaginati
in che modo gli uomini blasfemi
ed empi sogliono essere trattati dai Romani” (Kaspar Schoppe)
e nella plebe soddisfatta
della giustizia trionfante
nuove abiure covavano
nuovi roghi nuovi strazi
*
qui la gente è triste
ha paura dei propri pensieri
rinuncia a pensare
per non rischiare di turbare
il passo solenne delle parate
qui la gente è triste e cattiva
si uniforma e non s’informa
urla sbraita maledice
ma in privato nelle sere di gala
piega le jenou e fa il baciamano
come dovuto omaggio di vassallo
qui la gente è triste cattiva e violenta
desidera il sangue nelle strade
odia la gioia che sboccia a volte
sui visi di alcuni bambini e padri
venuti da mitiche terre lontane
dove spontanei nascono i giorni
qui la gente compra il niente
per vederselo svanire tra le dita
e si nutre di un veleno dolcissimo
per morire per qualche ora
ma al risveglio ha la bocca amara
e abbaia randagia alla vita
*
Quando il sole è basso sull’orizzonte,
crescono a dismisura le ombre
di uomini piccoli piccoli.
Sembrano giganti
e sono granuli di polvere
che il sole, al ritorno, schiaccerà.
*
Allenare le parole,
domare gli ulivi,
addestrare le mani al lavoro,
rubare le briciole dalla mensa,
calpestare le foreste di simboli,
farci spiegare i nostri pensieri,
acquistare alimenti a km zero o poco più,
inquinare i torrenti di sudore,
dissetarsi con le parole della messa,
rubare la fantasia ai fanciulli,
invecchiare col cervello in mano,
dissodare i pensieri,
disboscare i desideri,
delocalizzare i cimiteri…
fatto questo puoi anche fermati
ad ammirare lo spettacolo
del tramonto dell’universo.
*
Questa è la mia terra:
aspre mani di gente che insiste
tra pietre e ulivi
a vegliare ciò che va o resta;
assetata, arida, riarsa
fino a spaccarsi d’estate
aprendo abissi d’infinito,
fino a separare radice da radice,
zolla da zolla,
prima di richiudersi
avvolgendo misteri insondabili.
Questa è la mia terra:
violenta, respingente,
dura, avara, avida di sudore,
distesa di stoppie e cardi,
di istrici, cinghiali, lupi e volpi,
di uccelli di rapina,
di inquietanti canti notturni…
Questa è la mia terra:
inclemente, spietata a volte,
senza rimorsi…
ma quando s’accende di verde,
quando gli ulivi danzano al vento,
quando la macchia respira
e tutte le voci
si fondono in un coro di secoli,
quando la quercia ti avvolge
con la densa sua ombra,
il vino ti scivola in gola
– sangue di oscure radici –,
allora, solo allora ti accorgi
che questa terra nutre
la tua vita, la tua morte
dal tempo in cui le rughe
divennero calanchi
impressi nei gesti.
*
poi sentivi sul calar della sera
ronzare le api – come una preghiera