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Volevamo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo a Claudia Piccinno, traduttrice dall’inglese in lingua italiana.

 

  1. Claudia Piccinno, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu però sei anche poetessa, scrittrice, critico letterario e organizzatrice di eventi poetici interculturali: ci illustri la tua formazione, il percorso, le riviste cui collabori e dirigi, l’evoluzione della scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua inglese?

Grazie a te Gloria e a Limina Mundi per queste domande stimolanti. Chi è Claudia Piccinno? Sono una maestra, laureatami poi in lingue e letterature straniere. Ho scelto di insegnare già a vent’anni, pur avendo da sempre il sogno di diventare scrittrice. Vinsi il concorso per l’allora scuola materna nel 1990 (oggi si dice scuola dell’infanzia) e dopo sei anni in Lombardia, vinsi quello per le scuole elementari (oggi scuola primaria) nella verde Emilia Romagna. In tutti questi anni ho sempre fatto la maestra e la mamma, ma non ho mai smesso di riempire quaderni e disseminarli nei cassetti. Ho iniziato a pubblicare poesia dal 2011, ma dopo l’euforia iniziale, sentivo forte il rischio che la produzione poetica sfociasse in un delirio narcisistico. Promuovere i miei libri diventava a volte un pretesto per fare regali ai parenti e agli amici e sentivo comunque di non essere presa sul serio. Nel 2013 partecipai alla cerimonia di un premio internazionale ed ebbi modo d’incontrare poeti stranieri che mi chiesero di tradurre i miei versi in inglese per poterli assaporare meglio. Sono sempre stata una lettrice onnivora, ma decisi di rispolverare e approfondire i miei studi. Ho collaborato nel frattempo a numerosi blog ed e-magazine con recensioni e note di lettura e sicuramente ci sono state collaborazioni proficue, ma solo dal 2016 ho iniziato a tradurre i libri degli altri. L’illuminazione avvenne  su un battello sul Bosforo. Ero ospite a Istanbul di un festival intercontinentale per giovani poeti, mi avevano pubblicato il primo libro in lingua turca con testo a fronte in inglese. Gli altri ospiti mi donavano i loro libri e scoprivo un universo di affinità, sensibilità e bellezza. Mi dissi che dovevo farli conoscere in Italia, da qui le traduzioni dall’inglese in lingua italiana per Atunis Galaktika, Our poetry Archive, Farapoesia. Il primo libro però l’ho tradotto dallo spagnolo che ho studiato da autodidatta, era una plaquette di Oscar Limache, peruviano, dal titolo Volo d’identità. Mi è capitato di tradurre anche dal francese, ma la lingua che sento più congeniale è l’inglese, che è poi la lingua veicolare per arrivare a interlocutori lontani. Da un paio d’anni curo la rubrica poesia per la Gazzetta di Istanbul e sono redattrice per l’Europa nella rivista turca Papirus, il che significa che traduco in inglese o seleziono testi di poeti europei che poi vengono tradotti in lingua turca. Mi occupo di tradurre poesia anche per Menabò online, Verbumpress e di recente ho iniziato a collaborare con Alma poesia, per la rubrica I ponti di Alma.

 

  1. Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.

Certamente, l’intuizione del cuore è lo step più importante, e ti dirò di più, negli anni se torno su un testo già tradotto e pubblicato, mi capita di modificarlo, perché improvvisamente mi arriva quel significato nascosto che inizialmente non decifravo in pieno, la “precipitazione” di cui parlava Cristina Campo. La traduzione è un’opera in itinere che richiede aggiustamenti continui, perché muta la nostra predisposizione all’ascolto.

 

  1. Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?

Occorre fare silenzio per ascoltare l’altro. Dunque la solitudine è sia condizione necessaria, sia un esercizio da perseguire. Più che di solitudine parlerei però di isolamento per fare silenzio. Coi libri, con le parole degli altri, io non mi sento mai sola.

 

  1. Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?

L’incontro più autentico resta il vis a vis, inizialmente infatti ho tradotto solo le opere di poeti con cui sono stata in contatto, poeti che ho conosciuto ai festival e con i quali ho condiviso cibo, racconti, escursioni, letture. Il confronto de visu è arricchimento sul campo, e l’empatia scaturisce improvvisa tanto da riconoscere poi il contenuto delle opere altrui, specchiandosi in ogni termine letto. Fortunatamente molti di questi poeti sono a loro volta traduttori e da ciascuno di loro ho imparato qualcosa.

 

  1. È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?

Sì, è corretto al novanta per cento, la lingua è decisamente il risultato delle nostre letture, delle nostre esperienze, del contesto in cui abbiamo studiato e vissuto, ma se l’opera che andiamo a tradurre non è a sua volta ben scritta o stimolante, diventa difficile sfoggiare o ampliare il nostro repertorio lessicale, noi prestiamo la nostra voce che nel frattempo cresce e si ramifica, non è mai statica.

 

  1. Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?

Solo chi scrive poesia può, traducendo, conciliare le due cose, se privilegia solo il messaggio, spesso si perde la sonorità. Ma se ha la pretesa di riprodurre le stesse strutture metriche, il rischio è un tecnicismo privo di spirito. Auspicabile è scegliere una strategia propria della lingua in cui versi il contenuto, quindi quella in cui ti senti più portato. Solo col tempo ti rendi conto che occorre ri-creare una struttura, ricorrendo a delle analogie, che preservino al tempo stesso le differenze ritmiche.

 

  1. Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico–immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione).

A volte chi traduce riesce a dire ciò che l’altro autore tace, ci riesce ricomponendo il puzzle del non detto; infatti ci sono culture altre costrette alla censura ed il traduttore in punta di piedi rincorre segreti e li reinterpreta, ma deve fermarsi in tempo, sulla soglia dell’altro. Mi succede ad esempio quando traduco i versi di Raed Al Jishi, per il quale nutro profondo rispetto e ammirazione. Mi succede con molti autori turchi. Si crea come un’interconnessione d’anime e bisogna però non ostentarla, bensì vale la pena concentrarsi sull’essenza della parola e scegliere quella che ci dà più fiducia per la resa comunicativa.

 

  1. Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?

Trattasi anche di mantenere un equilibrio tra appropriazione e reciprocità. Il traduttore incorpora la parola dell’autore nel suo bagaglio lessicale, l’autore a sua volta deve fidarsi di questa assimilazione linguistica se crede che i suoi testi possano così raggiungere un pubblico più ampio. Perché un testo poetico colga nel segno, il lettore deve percepire l’assenza del traduttore.

 

  1. In relazione alla tua attività di organizzatrice di scambi culturali è appropriata anche a te l’espressione del traduttore messicano Hiram Barrios: «Costruiamo ponti». Si comprende perciò che tu ti ponga in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti.

Tradurre è un’adesione a un movimento utopico, tradurre mi consente di mediare un messaggio universale, mi spinge a credere che si possa reintegrare l’Umanità dispersa in  tanti idiomi. Nancy Huston scriveva che la traduzione rappresenta una speranza per l’umanità, a me consente di aprire un dialogo, di ascoltare e apprendere giorno dopo giorno la magia dell’ignoto che a noi si rivela. Con curiosità e rispetto come Alice nel paese delle meraviglie o Swift ne I viaggi di Gulliver, tradurre è quella pozione magica, quella lente d’ingrandimento che mi avvicina ad autori e mondi che altrimenti non avrei mai letto e decifrato.

 

Lionizing

 

I am thinking

about my pain –

no one shares it with me.

 

And about my joy —

I don’t partake of it with passersby,

and it runs away from my fingers every time.

 

I lionize my pain

for no reason, but because

it belongs to me.

 

I cannot smile well,

and the wind encourages me to jump

to where I can’t see.

 

The gnat

knows how to jump,

how to mock the wind

when it takes an aerial step back,

then smuggles a smile under its wings.

And like you, I prefer the refraction

instead of being like a gnat

or anything on its back.

 

Celebrando

 

Sto pensando

al mio dolore –

nessuno lo condivide con me.

 

E riguardo alla mia gioia –

Non ne partecipo con i passanti,

e scappa dalle mie dita ogni volta.

 

Celebro il mio dolore

senza motivo, se non perché

mi appartiene.

 

Non so sorridere bene,

e il vento mi incoraggia a saltare

fino a dove non posso vedere.

 

Il moscerino

sa come saltare,

sa come prendere in giro il vento

quando fa un aereo passo indietro,

poi nasconde un sorriso sotto le sue ali.

E come te, preferisco la rifrazione

invece di essere come un moscerino

o qualsiasi altra cosa sul dorso.

 

A Universal Corridor

 

When I closed my eyes,

the universe passed through me completely

in a second — or a little less.

 

All those invisible particles

chose me as a corridor to the side of theorization,

bragging by their differences,

its different formation, its impressive product,

its tyranny in making an embodiment of goodness

or the capability of inventing evil,

 

unaware that they tried to speak

with a different accent of a language migrated to the crushed past,

tried like virtual tribes lost their tent stakes,

 

unaware that they are a pure orphaned word

named Love —

or something similar to it:

 

Love as a thought of a concept and a seed of assent;

 

Love as a knife of peace and flowers of a torturing spring;

 

Love as a catalyst of smoke and an inhibitor of an odor;

 

Love as a color of a gesture and a shade of a sign.

 

When you realize that

you can’t be devoted to love as a value

nor as an icon of a digital biography

for the potential of hydrogen in an individual behavior,

 

then Evil is not the soppiest of good;

it is the eternal integration

of the system and its clotted surrounding,

when a universe has been created

by fingertips of Love.

 

Un corridoio universale

 

Quando chiusi gli occhi,

l’universo mi attraversò

in un secondo — o  forse meno.

 

Tutte quelle particelle invisibili

mi scelsero come corridoio accanto alla teorizzazione,

vantandosi delle loro differenze,

della  diversa formazione, dell’ impressionante prodotto,

della tirannia nell’incarnare la bontà

o la capacità di inventare il male,

 

ignari di aver cercato di parlare

con un diverso accento di una lingua migrata nel passato sepolto,

provarono come le tribù virtuali persero i confini,

 

ignari di essere una pura parola orfana

chiamata Amore —

o qualcosa di simile:

 

L’amore come pensiero di un concetto e seme di assenso;

 

L’amore come coltello di pace e fiori di una primavera tormentata;

 

L’amore come catalizzatore di fumo e inibitore di un odore;

 

L’amore come colore di un gesto e sfumatura di un segno.

 

Quando te ne rendi conto

non puoi essere devoto all’amore come valore

né come icona di una biografia digitale

per il potenziale dell’idrogeno in un comportamento individuale,

 

allora il Male non è  più sdolcinato del bene;

è l’integrazione eterna

del sistema e del suo ambiente,

quando un universo è stato creato

dalla punta delle dita dell’Amore.

 

Claudia Piccinno

Biobibliografia

Claudia Piccinno è docente, traduttrice, autrice di numerosi libri di poesia, di prefazioni e saggi critici; Direttrice per l’Europa del “World Festival Poetry” fino a settembre 2021; medaglia d’oro al “Frate Ilaro 2017”; vincitrice del “Premio Ossi di Seppia 2020”; ambasciatrice per l’Italia del “World Institute for Peace” e di “Istanbul Sanat Art”; benemerita del Comune di Castel Maggiore per meriti culturali. Tra i numerosi premi internazionali ricevuti ricordiamo i recenti “Aco Karamanov”, 2021, Macedonia; “Ajtan Zhiti” 2021, Kosovo; responsabile della rubrica poesia per la Gazzetta di Istanbul; redattore per l’Europa della rivista turca Papirus, edita da Artshop; collabora con vari blog, e-magazine e riviste cartacee, tra cui Menabò, Verbumpress, Italine, CiaoMag e Il Porticciolo. La sua voce è presente nella Poetry Sound Library curata da Giovanna Iorio. Numerose le raccolte di poesia, di cui riportiamo le più recenti: In nomine patris, Il cuscino di stelle, 2018; Rime sparse, co-autore Agron Shele, Amazon edizioni; La nota irriverente, Il cuscino di stelle, 2019; Sfinge di pietra –bilingue, Il cuscino di stelle edizioni, 2020. Dei saggi citiamo: Asimov – Un volto inedito, Il cuscino di stelle edizioni, 2020. Molte le traduzioni da poeti stranieri, di cui le recenti Genesi della memoria, di Raed Aljishi, Il cuscino di stelle edizioni, 2021; Il voto di Penelope, di Milica Lilic, edizione bilingue inglese – italiano, Il cuscino di stelle edizioni, 2021; Una farfalla tatuata di Ali Al Hazmi, Il cuscino di stelle edizioni, 2021. Sulla sua scrittura è stato di recente pubblicato il volume biobibliografico In ordine sparso, a cura di Armando Iadeluca, Il cuscino di stelle edizioni, 2021.