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Opere di Elvezia Allari

Maria Grazia Galatà ha rivolto l’invito di “Una vita nell’arte” a Elvezia Allari, che ha risposto come segue. Grazie Elvezia.

Sono Elvezia Allari, nata a Schio, in provincia di Vicenza, cinquantasette anni fa.
Ricordo benissimo la mia chiamata all’arte. Avevo dieci anni e nel giardino del condominio dove abitavo, ritrovavo le mie coetanee che abitavano nello stesso edificio per giocare con loro. Eravamo un gruppo di quattro amiche. Oltre a me c’erano Carla, Ilaria, e Stefania. Un giorno venne fuori la classica domanda alla quale ognuna di noi doveva dare la sua risposta: che cosa vuoi fare da grande? Chi rispondeva la segretaria, chi la parrucchiera, chi la ballerina e avanti così. Quando viene il mio turno rispondo che voglio sposarmi con un pittore matto. Carla esclama che non è un lavoro. Cioè? le ribatto, visto che tu vuoi diventare una suora, con chi ti sposerai? Con Dio, rispose. Va bene, replicai, allora un giorno me lo farai conoscere.
La sua risposta divenne il mio tarlo. Mi spinse a pensare che diventare sposa aveva un significato tutt’altro che comune. Come fa una a sposarsi con qualcuno che manco vede? Forse è per quello che ho sposato l’arte, perché all’inizio non la vedevo, ma, ad un certo punto, sono riuscita a vederla e a crearla.
Ho iniziato con studi per ceramista allorché di ceramica non mi interessava nulla a parte gli effetti, gli errori nel plasmare l’argilla. Venne l’urgenza di andare a vivere da sola, e a vent’anni, contro il parere dei miei genitori decisi di uscire di casa. Naturalmente, senza una lira. Così, ho iniziato a posare come modella d’arte in un liceo artistico. Pensavo di fare quel lavoro per un anno o due. Sarebbe stata abbastanza per mantenermi mentre studiavo in una scuola di restauro pietra ed affresco. Però non era così semplice. Per pagare l’affitto e tutto ciò che ne consegue dovevo avere un’entrata fissa, perciò quello che speravo di fare per soltanto un anno o due si è trasformato in ventiquattro anni di posa.
La scuola di restauro mi è stata molto utile per capire le possibilità di manipolazione offerte dai vari materiali, trovare soluzioni agli errori, soddisfare la mia fame di storia dell’arte.
Le pose a scuola, però, hanno avuto una funzione catartica. Stare ferma, nuda davanti a ad una ventina di allievi, mi ha dato la possibilità di osservare le loro posizioni, i loro gesti, i segni che tracciavano sulla tela, i loro sguardi. Terminato il lavoro, tornavo nel mio laboratorio e sperimentavo a partire dalle tecniche che avevo viste adoperate e dalle sensazioni accumulate durante le ore di posa.
Ho iniziato con gli abiti per corpi impensabili, abiti di silicone, orpelli, monili, borse per passeggiate effimere. Incominciai a collaborare con compagnie teatrali per le quali realizzavo allestimenti e scenografie. Dal silicone sono passata alla carta, sempre creando abiti sia tridimensionali sia piatti. Abiti da seminare, ovvero abiti di carta colmi di semi inseriti nella carta stessa che sono segni quando guardati mentre l’opera è appesa alla parete ma che diventano fiori quando l’opera viene seminata in giardino. Successivamente, dalla carta la mia attenzione si è rivolta al filo di ferro cotto che tuttora rimane un materiale che sento molto.
Dall’inizio del mio percorso, tutto ruota attorno al corpo che secondo me è l’unica casa che davvero abitiamo, una casa a volte da ristrutturare per fragilità in corso ma che esprime anche solidità e certezza e che ci parla. Ci dice “fai così”, “continua in questo modo”, “non potresti fare altro che questo”, “sei un tramite per qualcuno che arriverà”.
D’altronde, non sono stata chiamata anch’io da qualcuno?

LINK ALLE OPERE DI ELVEZIA ALLARI

OPERE DI CARTA

OPERE IN FILO DI FERRO COTTO

ABITI SCULTURA IN SILICONE