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Sabatina Napolitano

“Nelle sue braccia” – Gian Giacomo Della Porta Edizioni

Appunti di lettura

 

Sabatina Napolitano è sicuramente una scrittrice versatile, poliedrica, poliforme, ha infatti pubblicato diverse raccolte di poesia, di cui ultima è “Nelle sue braccia”, e ancora: un romanzo, cui seguirà a breve un secondo, e diversi interventi saggistici sia su pagina che in video (youtube). Ciò che mi ha colpito della Napolitano sono due elementi che ritengo fondamentali nella sua poetica personale: la sincerità della sua scrittura e un sentimento di ribellione, delusione profonda nei confronti del mondo letterario di cui ha avuto esperienza. In merito alla prima caratteristica, vale a dire la sincerità, autenticità della sua voce espressiva, per accertarsene, basterebbe leggere la raccolta “Nelle sue braccia”, silloge composta da dieci sezioni di dieci testi ciascuna, utilizzando un linguaggio piano, accessibile, privo di tentazioni ermetiche o oscure, a volte elencativo oppure visceralmente diretto, risentito come può esserlo quello di qualcuno che è stato vittima di una violenza immeritata e gratuita. Nella sua sostanza il libro è un canzoniere d’amore, in primis per il suo Uomo e, a seguire, amore per i luoghi (Asciano in testa con le sue Crete Senesi), le opere d’arte, gli autori prediletti, e persino alcune irruzioni culinarie, dilemmi di salute e ipotesi terapeutiche, come a voler comunicare che l’esserci è una dimensione totale e totalizzante in cui trovano posto sia il passionale, la scossa emotiva, il sublime, sia la quotidianità tautologica con le sue ineludibili necessità, i suoi odori, gli immancabili errori. Ma come si è detto, è l’Eros a battere tempi e temi con il suo percuotere e premere  nel corpo, sul corpo, nella mente cogitans e nel segreto di un’anima che sembra aver trovato finalmente un luogo umano in cui  dimorare, una direzione da seguire, una carne da cui farsi abbracciare e con cui riposare e vivere. Fulminanti e archetipiche le dichiarazioni d’amore disseminate lungo i testi, a cominciare da quello di apertura:

[…]

“Per ora ho deciso di amarlo,

(è bello, attraente, colto,

passionale e affettuoso)

ma soprattutto perché immagino

che mi metta la sua giacca addosso

ma non per l’università, per la critica,

la società di questi illusi che mi marcano.

di un amore durevole,

che sia come il manto della Madonna.

Voglio la sua giacca come il manto

Voglio la sua giacca come un ombrello

per fare l’amore sulla sua scrivania,

ovunque lui stia e soprattutto

dove si spoglia.

È la cosa più buona

che abbia mai assaggiato.

E più ne assaggio, più ne voglio

e lo desidero. Vorrei essere i suoi capelli

e i polpastrelli, entrambi, quando si

aggiusta i capelli.

Ma vorrei essere anche le ciglia

per stare più vicina agli occhi.

Se potessi mi fermerei per una crociera

vicina alle sue iridi, senza far niente,

solo per ammirarlo fermo come una statua.

E io ferma. Immobile e presente.

Per stare così senza dirgli niente

come quando da bambina toccavo

i lobi di mia nonna.

Voglio stargli vicino solo per toccare

una sua parte, un suo piccolo lembo,

per stare senza far niente

a sentirne la presenza, il calore

come di qualcosa che nasce

ma alla fine anche se non nasce niente

voglio stare ferma accanto a lui

come si sta fermi quando si sta

nella vita propria, come si contempla

qualcosa che ti attraversa

ma ti rimane dentro per sempre.”

[…]

 

Riconosco che si tratta di una citazione fluviale nell’economia di un appunto di lettura, ma non sono stato in grado di sottrarmene poiché è già in questo testo iniziale che l’amore celebra le sue necessità immanenti: il riconoscimento epifanico, l’attrazione di corpo e di anima, l’euforia sensuale, la dedizione sacralizzata, il desiderio di una permanenza a due proiettata lungo le linee temporali dell’eternità, l’affidamento disarmato e tenero a un ente umano che assume l’aura di una creatura guardata religiosamente. Di certo non siamo in una dimensione neostilnovistica ma la tentazione di prossimità è notevole, e non solo in questo testo; tuttavia, non possiamo non chiamarci figli del nostro tempo, un presente storico in cui la corporalità ha il suo peso gnoseologico come precipitato di tensioni e istinti strettamente collegati, pur se non in ogni caso, ad una innata aspirazione utopica, alla tentazione di una metafisica salvifica, al bisogno di un dio sempre presente e non transeunte. E la fisicità, pur nella convinzione ferma che “il cuore è uno spazio sacro”, rivela esplicitamente il suo co-protagonismo, il suo valore comprimario e rispecchiante, così come appare chiaro nei versi seguenti:

 

[…]

“Lo specchio che comprasti per la camera da letto

era per darmi lezioni su come aggrapparmi al tuo corpo.

Ti amavo certo, distesa aspettando il tuo sperma

sulla schiena. I seni come le Champs Élysées,

spostandomi il perizoma mi scartavi gli incubi,

per poi restituirmeli a forma di sogni.

Magie, attaccamenti, gocce di sperma, cose normali.”

 

E se ancora non bastasse, se ancora non fosse chiara la solennità di un amore che è percepito con un sentimento erotico tutt’altro che normale, ecco un tassello ulteriore a cui molti altri potrebbero essere accostati:

 

[—]

Ero io a volerti leccare le dita,

leccarti intero come un libro pregiato

sei più buono della Bibbia.

Se fosse per me farei l’amore con te

sull’altare di ogni mia chiesa.

Siamo sacri. Mi mettevi nei tuoi spazi

più solenni e ardenti,

non avevo paura,

ero decisa,

come tutto ciò che in te è vivo e morto,

riempivo ogni tuo spazio.”

 

Come si è anticipato sopra, in apertura di questi appunti di lettura, alla prevalenza tematica di eros viene a tratti alternato l’altro elemento forte della poetica della Napolitano: un esserci nel mondo (letterario nostrano) con un sentimento di profonda delusione artistica, mista a note di un risentimento quasi rimuginato come fosse un pensiero represso ma sempre pronto a balzare al livello della coscienza; una ferita e una perdita di incantamento la cui vittima sacrificale sembra essere proprio la scrittura, la poesia, quando l’Autrice stessa dichiara, non senza un guizzo di nostalgia: “Ho un cumulo di email che posso rileggere/solo per chiedermi che senso abbia una poesia./Non ha alcun senso scrivere poesie./L’ultima poeta è morta seppellendo/il prestigio di tutti”, e qualche verso oltre, con parole ancora più dure: “Volevo scrivere poesie/ai livelli dei ‘the new yorker’./Ma in Italia tutto fa schifo./Non funziona niente tutto fa schifo.”. Naturalmente non ci è dato di conoscere quale sia stato il percorso esperienziale che l’ha condotta a tali conclusioni generalizzate (ritengo si cadrebbe in un fastidioso gossip), tuttavia non si può negare che si tratti di un esito di giudizio in cui molti altri autori potrebbero identificarsi, poiché il non-riconoscimento, pur se legittimo in molta poesia oggi circolante, rappresenta una ferita urlante, un annichilimento identitario e, in definitiva, una distruzione dell’io poetante. Per la Napolitano, nonostante una presa d’atto ancora più estrema (“Pensavo che la poesia fosse un abito sacro/solenne come la voce di Cristo/che scarta i vivi tra i morti,/che decide le nascite e le morti./Invece niente./Ho passato così tante messe a pregare/nel silenzio di Cristo, ho capito/che non esiste più brezza sacra/in questa terra. C’è solo il potere./ Nulla più.”), si può dire tuttavia che, per fortuna e vocazione, il pericolo di afasia cronica, di anomia creativa ed umana sembra essere scampato, ed è questo libro, “Nelle sue braccia”, a testimoniarlo senza ombra di smentita: la poesia vive ancora nelle sue pagine e la Persona non ha mai smesso di anelare al sacro, al salto in alto, all’impennata metafisica, utopica, anche quando il punto d’arrivo non è più dio ma semplicemente un uomo. Il suo Uomo.

FRANCESCO PALMIERI