Nel 1963 fu pubblicato il saggio di Hannah Arendt “Eichmann in Gerusalemme. Un report sulla banalità del male”, un diario che la Arendt, inviata del settimanale The New Yorker, tenne sulle sedute del processo ad Adolf Eichmann, militare e funzionario nazista. Catturato dal Mossad in Argentina nel 1960, Eichmann fu processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità. La sentenza fu eseguita nel 1962.
I brani che seguono sono tratti dal saggio.
“Se ci siamo soffermati tanto su questo aspetto [1] della storia dello sterminio, aspetto che il processo di Gerusalemme mancò di presentare al mondo nelle sue vere dimensioni, è perché esso permette di farsi un’idea esatta della vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella “rispettabile” società europea – non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i persecutori, ma anche tra le vittime. Eichmann, a differenza di tanti suoi colleghi, era stato sempre affascinato dalla “buona società”, e la correttezza con cui spesso si era comportato con i funzionari ebrei di lingua tedesca era in gran parte dovuta a una specie di senso di inferiorità. Egli non era affatto, come lo chiamò un testimone un landsknechtnatur, un mercenario smanioso di fuggire in regioni dove non vigono i dieci comandamenti e dove ciascuno può sfogare i suoi istinti. Se in una cosa egli credette fino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della “buona società” come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che egli espresse su Hitler, disse “avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell’esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.” Egli non ebbe bisogno di “chiudere gli orecchi” come si espresse il il verdetto, “per non ascoltare la voce della sua coscienza”: non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava.”
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“Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è notoriamente complesso ma nient’affatto unico, non può essere paragonato a quella della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali, quando a Norimberga gli chiesero “Com’è possibile che voi tutti rispettabili generali abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?” rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice di un suo comandante supremo: “Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo.” (Così il generale Alfred Jodl, impiccato a Norimberga.) Eichmann, molto meno intelligente e per nulla istruito, capì almeno vagamente che a trasformarli tutti in criminali non era stato un ordine, ma una legge. La differenza tra ordine e “ordine del Führer” era che la validità del secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo limite è caratteristica precipua del primo. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi dall’essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità. E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non ammazzare”, anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenza omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: “Ammazza”, anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalmente, per quando non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”
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“Il 30 giugno del 1943, molto più tardi di quanto Hitler aveva sperato, il Reich (Germania, Austria e Protettorato) fu proclamato judenrein[2]. Non abbiamo statistiche che ci dicano con precisione quanti ebrei erano stati deportati da quest’area, ma sappiamo che delle duecentosessantacinquemila persone che, secondo fonti tedesche, già erano state deportate o erano candidate alla deportazione nel gennaio del 1942, pochissime sfuggirono: forse qualche centinaio al massimo qualche migliaio riuscirono a nascondersi e a sopravvivere alla guerra. E quanto fosse facile tranquillizzare la coscienza della popolazione tedesca lo si vede bene dalla spiegazione ufficiale che delle deportazioni dette la cancelleria del partito in una sua circolare del 1942: “ È nella natura delle cose che questi problemi, sotto certi aspetti difficilissimi, possano essere risolti nell’interesse della sicurezza permanente del nostro popolo soltanto impiegando una spietata durezza”
Nella Germania del dopoguerra, dove la gente è divenuta addirittura geniale nel sottovalutare il suo passato nazista, la “spietata durezza” – una qualità a suo tempo altamente apprezzata dai governanti del Terzo Reich – viene spesso chiamata Ungut, ossia un “non bene”, una forma di “cattiveria” quasi che il solo difetto di chi la possedeva fosse una deplorevole incapacità ad agire secondo i principi della carità cristiana.”
[1] la collaborazione dei capi ebraici con i nazisti
[2] depurato da ebrei