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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (91) di Enrico Cerquiglini

30 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì vi ha tenuto compagnia un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Proponendo l’ultimo di questi racconti brevi, colgo l’occasione per ringraziare di cuore Enrico Cerquiglini di questa sua gradita presenza su Limina mundi.

Risaliva tutte le sere l’unica strada che divideva in due il paese, aspettava che calasse il sole prima di uscire dall’osteria. “Passata la sciatica?”, “Anche questa giornata è finita, signora bella”, “No, grazie, è meglio che non bevo più per oggi. Ma c’è sempre domani!”, “Notizie dalla Svizzera?”, “C’è finita in trappola la volpe?”, “Quando lo facciamo quel lavoro?”. Ogni quattro passi una sosta per un saluto, una battuta, una domanda. Quella in fondo alla via, subito dopo il dosso, era la sua casa, ed era stata la casa del padre e del nonno… e sarebbe stata anche la casa del figlio se la polmonite non se lo fosse portato via poco più che bambino. Ed anche la moglie se n’era andata. Il lavoro nei campi, il dolore per la morte della creatura avevano distrutto il suo esile fisico “non adatto alla terra”, come diceva la povera anima di sua madre. Teneva le due foto sopra la trave del camino e alzando lo sguardo si rattristava a volte, altre veniva preso da un senso di inquietudine, mista a rabbia, che si scioglieva in una reiterata bestemmia. La mattina la passava nell’orto (i campi aveva smesso di coltivarli, la vecchiaia non perdona) o nel pollaio. Poi se ne andava all’osteria, fino a pranzo, non a bere (beveva poco e non sopportava gli ubriachi come quel fesso di Vinovo – lo chiamavano  così perché chiedeva sempe il vino nuovo – che per il vino aveva perso moglie, podere e casa e che dormiva nella stalla del cugino, con le vacche e i vitelli), ma per scambiare qualche parola coi pochi abitanti rimasti.

In realtà nel paese, tranne lui, non c’era più nessuno da anni. Non se n’era voluto andare come aveva fatto suo fratello. Conosceva le pietre di ogni casa ed aveva fermato il tempo. Non c’era più nessuno da anni ma lui continuava a recarsi all’osteria, dove parlava col vecchio oste (era già vecchio quando lui era bambino), con la di lui moglie, ancora giovane e procace, con i vecchi del paese (ridotti a guardare gli ultimi raggi di sole con un mezzo toscano in bocca). E la sera, risalendo verso casa, salutava tutti: la vedova (morta di parto nel ’56, per colpa della neve), il vecchio mulaio (quello che aveva fatto la guerra del ’15-’18), il fabbro (morto d’infarto nel ’75), la ragazza dalle trecce bionde (fatta morire da un maldestro strappadenti), il potatore (morto cadendo da un melo a quasi novant’anni) e tutti gli altri.

Quando fu la sua ora, nel sonno, senza soffrire, non vedendolo passare la mattina per andare all’orto e al pollaio, tutti si fecero sulla porta e cominciarono a gridare il suo nome. A valle, a chilometri dal paese, fu udito distintamente il canto del suo gallo con la cresta a rosa.

 

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (85) di Enrico Cerquiglini

23 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Tagliato tra le due terre, restò per sempre un frutto dall’apparenza selvatica, aspra, scontrosa. Piccolo di statura, nient’affatto armonico nel fisico, dal viso intagliato senza alcuna perizia, fu sempre trattato dalla madre come un anatroccolo che mai sarebbe diventato cigno (e non lo sarebbe davvero mai diventato). Cresceva sgraziato, senza nessuna istruzione che non venisse dai lavori nei campi, più legato alle bestie che alle persone, timido, ma spesso, per reazione, violento. Aveva quindici anni quando la madre, prossima alla morte per un cuore che non reggeva più, gli disse che la natura con lui era stata malvagia, gli aveva dato povertà e bruttezza e che mai nessuna donna l’avrebbe voluto. “Le donne bisogna comprale o con gli averi o con i soldi, o stregarle con le parole e la bellezza, e tu non hai niente di questo”. Non capì subito quello che la madre gli aveva detto, sopraffatta com’era dai dolori. Gli tornarono in mente quelle parole quando vide lei, una ragazza di luce, dai capelli neri, dagli occhi che folgoravano le stelle. “Quanto costerà? Sicuramente tanto. Ci vorranno cento milioni”. Da quel giorno cominciò a non spendere più nulla, a lavorare giorno e notte, a mettere da parte quei quattro soldi della pensione di orfano di guerra: stendeva i biglietti da mille e li riponeva al riparo dai topi. Anni e anni di lavoro, di privazioni (mangiava erba dei campi piuttosto che spendere una lira, niente luce elettrica, niente mobili in casa, si tagliava barba e capelli da solo con le vecchie forbici della madre, indossava vestiti consumati, rattoppati da solo), di risparmi. Ogni tanto andava a vederla di nascosto: era ormai una donna fatta, con un marito e figli, ma aveva quegli occhi…

L’avrebbe comprata, altri 5-6 anni e sarebbe riuscito ad averli questi maledetti cento milioni. Nessuno frequentava la sua casa-porcile, tranne un cugino che, di tanto in tanto, andava a fargli visita. Era l’unico con cui parlasse: un bell’uomo, pieno di donne e di vizi, sempre profumato e azzimato. Gli confidò un giorno il suo segreto. Ci sorrideva il cugino, ma non gli diceva nulla.

Quando lo ritrovarono con la testa fracassata sotto un noce, nessuno si meravigliò di quell’incidente. Non aveva più l’elasticità di un tempo. “Aveva frequenti capogiri”, diceva il cugino. Doveva averne dei soldi, dicevano in giro, ma nessuno riuscì a trovarli. Il cugino, dopo poco, lo si vide girare con una decappottabile americana, nuova, fiammante…

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (82) di Enrico Cerquiglini

16 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Si diceva di lui che avesse attraversato tutti gli oceani, visto tutte le terre del mondo e si fosse macchiato di crimini inenarrabili. A vederlo vecchio, ricurvo, sempre col sorriso pronto, lo si sarebbe detto un simpatico ottuagenario che attende, senza particoli ansie, la fine spettante a tutti. Eppure c’era chi giurava che dietro quella testa canuta, dietro le sigarette senza filtro, dietro il suo amore per gli animali (allevava canarini e tortore) si nascondesse un assassino spietato. Quando passavano davanti alla sua piccola casa i ragazzini facevano scongiuri, gli uomini sputavano catarro e resti masticati di tabacco, bestemmiando ad alta voce. Alla sua morte nessuno volle partecipare al funerale, anche il prete si rifiutò. “Non era un credente, né si è mai pentito dei suoi crimini”. La casa restò chiusa a lungo e fu soggetta alle sassate dei bambini. Un giorno uno di questi ragazzini, più per sfida che per curiosità, entrò nella casa. La porta non aveva mai avuto serratura. Tra ragnatele e scaffali ormai compromessi dai tarli vide tanti libri, tanti fogli scritti, tante lettere. Ne lesse alcuni e rimase sbalordito dalle descrizioni di crimini efferati, di sadismo, di violenza gratuita. Lo sguardo cadde su una busta con una bellissima calligrafia, sicuramente femminile. “Amico carissimo, quanta violenza in questi tuoi racconti! Tu persona così mite, così dolce, incapace di fare del male a qualsiasi essere vivente, vittima di mille persecuzioni e sevizie, trasferisci nel carattere, nel corpo del carnefice i tuoi tratti, il tuo nome. Che ne direbbero i tuoi paesani se leggessero le pagine di questo romanzo in forma di confessione?” In effetti qualcuno aveva letto sul tavolo da cucina l’inizio di quel romanzo: “Signor Giudice, prossimo ormai al giorno estremo, io *** ***, assassino di mia madre, di mio padre, dei fratelli miei tutti, sento il dovere di confessare a Lei, che tanto si è battuto per ricostruire la verità, storica più che giudiziaria, che io sono il solo colpevole. Non le invierò questa confessione né per chiedere perdono (la parola ‘perdono’ non fa parte del mio vocabolario) né per volere espiare quelle che Lei ritiene colpe e delitti. La mia è solo una testimonanzia per restituire verità alla Storia. Il giudizio sul mio operato spetta alla Storia non certo alla mediocre Sua persona, Vostro Onore!”

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (78) di Enrico Cerquiglini

09 mercoledì Ago 2017

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Quanto l’aveva desiderato un figlio! Per anni aveva temuto di dover morire senza lasciare traccia di sé. Gli sembrava inutile la vita senza un’appendice di immortalità. Quando, dopo cure e trattamenti medico-chirurgici, la moglie rimase incinta il sole ricominciò ad illuminare i suoi giorni. Com’era bello quel bambino, pieno di riccioletti biondi, con i lineamenti identici al padre che diventavano ancora più somiglianti con il passare degli anni. Ma dal padre non aveva ripreso la voglia di lavorare, il senso del sacrificarsi per la famiglia e per raggiungere certi obiettivi. Neanche la scuola faceva per lui, “T’insegnano tutte stupidaggini. Che me ne frega di Giolitti o di Pascoli? Andare a scuola è solo una perdita di tempo”, tanto che finì a 16 anni la terza media e decise di non continuare a perdere tempo. Il padre cercò di farlo entrare nella fabbrica dove lavorava da trent’anni, ma lui rifiutò “Io non voglio fare lo schiavo nella vita”. Passava le mattinate a letto e le serate a zonzo per i locali della città: un po’ di birra, qualche pista di neve, qualche amoruccio di strada e si faceva l’alba. Il pomeriggio lo passava al bar a discutere con i pensionati, si faceva offire prosecchini a raffica e quand’era alticcio cominciava ad insultarli perché quelli come loro rubavano il suo futuro e quello degli altri giovani. I giovani come lui dovevano lavorare per pagare le loro pensioni. Anche con gli immigrati ce l’aveva: ci rubano il lavoro, la cultura e le tradizioni. Le poche volte che incrociava il padre pretendeva da questi il denaro che gli serviva per fare una vita dignitosa aspettando l’arrivo di un lavoro. E spesso lo minacciava di rompergli il “muso”. E a pensare a quanto l’aveva desiderato quel figlio, gli veniva un groppo in gola.

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (51) di Enrico Cerquiglini

02 mercoledì Ago 2017

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Ultimo di una covata di figli, nato nella miseria di una campagna-periferia, non desiderato né cercato, con i genitori ormai prossimi alla vecchiaia, imparò a camminare e a parlare piuttosto tardi, al punto di esser bollato dai fratelli e dai parenti come uno stupido. Non era stupido, non più degli altri della famiglia e dei suoi coetanei, ma interiorizzò ben presto questa sua presunta magagna. Fece ridere la maestra che lo rimproverava per non aver scritto bene le letterine, “Sono stupido, signora maestra, lo sanno tutti”. Rise di gusto la maestra e non le restò altro che convenire con la voce popolare. Smise di frequentare la prima elementare appena imparò a fare la firma. Ci mise più degli altri ma, ormai, anche per la maestra era uno stupido. Crebbe con la convinzione di essere stupido e si trovava bene solo con gli animali che non glielo ricordavano ad ogni occasione. Fu riformato alla visita militare. “Chi non è buono per il re neanche per la regina”, gli dicevano ridendo paesani e fratelli, e se ne convinse. Non si sposò, venne utilizzato dai fratelli come uno strumento parlante per i lavori più faticosi e umili. Ma tanto era uno stupido. Tutti glielo dicevano che non capiva nulla, che non ci arrivava a comprendere le cose della vita, che era incapace di organizzarsi la vita da solo. Un nipote, forse meno cinico degli altri, cercò di dimostrargli che stupido non era, che aveva grandi capacità nel lavorare il legno e la creta. Un po’ s’inorgogliva nel sentirsi riconoscere tali qualità, ma un giorno prese il nipote da una parte e glielo disse chiaramente: “Senti, ho quasi sessantanni e sono sempre stato stupido per tutti. Adesso arrivi tu e vuoi farmi credere che non lo sono? Lasciami in pace, lasciami morire da stupido! Tu mi dici che non sono stupido e, ammettiamo che sia vero, significherebbe che mi hanno rubato la vita. Mi getti nell’inferno del tempo sprecato a coltivare la mia stupidità. Non dirmi più certe cose. Sono lo zio stupido, e basta!”

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