Tratto da “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa
“Perché scrivo, se non scrivo meglio? Ma cosa ne sarebbe di me se non scrivessi ciò che riesco a scrivere per quanto nello scrivere io sia inferiore a me stesso? Sono un plebeo dell’aspirazione perché cerco di realizzare; non oso il silenzio, come chi teme una stanza buia. Sono come coloro che apprezzano più la medaglia che la fatica, e assaporano la gloria attraverso la pelliccia di ermellino. Per me scrivere è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come una droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima; erbe colte nei canti delle rovine dei sogni, papaveri neri trovati vicino alle tombe, lunghe foglie di alberi osceni che agitano i loro rami sulle rive sentite dei fiumi infernali dell’anima. Si, scrivere significa perdermi, ma tutti si perdono, perché tutto è perdita. Però io mi perdo senza allegria, non come il fiume nella foce alla quale nacque ignaro, ma come la pozzanghera creata sulla spiaggia dall’alta marea, e la cui acqua, inghiottita dalla sabbia, non tornerà più al mare.”
Fernando Pessoa (1888-1935), traduzioni di Emilio Capaccio
QUANDO VERRÀ LA PRIMAVERA
Quando verrà la primavera se sarò già morto, i fiori fioriranno della stessa maniera. E gli alberi non saranno meno verdi della primavera scorsa. La realtà non ha bisogno di me. Sento un’allegria enorme nel pensare che la mia morte non abbia alcuna importanza. Se sapessi che domani morirei e la primavera venisse dopo domani morirei contento perché essa verrebbe dopo domani. Se la primavera è il suo tempo, quando dovrebbe arrivare se non nel suo tempo? Mi piace che tutto sia reale e che tutto sia certo; e mi piace perché così sarebbe, anche se non mi piacesse. Per questo, se muoio adesso, muoio contento, perché tutto è reale e tutto è certo. Possono pregare in latino sulla mia bara, se lo vogliono. Se lo vogliono, possono danzare e cantare a ruota di essa. Non ho preferenze per quando non è più possibile avere preferenze. Qualunque cosa, quando sarà, sarà per quello che è.
QUANDO VIER A PRIMAVERA
Quando vier a Primavera, Se eu já estiver morto, As flores florirão da mesma maneira E as árvores não serão menos verdes que na Primavera passada. A realidade não precisa de mim. Sinto uma alegria enorme Ao pensar que a minha morte não tem importância nenhuma Se soubesse que amanhã morria E a Primavera era depois de amanhã, Morreria contente, porque ela era depois de amanhã. Se esse é o seu tempo, quando havia ela de vir senão no seu tempo? Gosto que tudo seja real e que tudo esteja certo; E gosto porque assim seria, mesmo que eu não gostasse. Por isso, se morrer agora, morro contente, Porque tudo é real e tudo está certo. Podem rezar latim sobre o meu caixão, se quiserem. Se quiserem, podem dançar e cantar à roda dele. Não tenho preferências para quando já não puder ter preferências. O que for, quando for, é que será o que é.
HO COSÌ TANTO SENTIMENTO
Ho così tanto sentimento che spesso mi convinco di essere sentimentale, ma riconosco nel valutarmi che tutto questo è un pensiero che alla fine non ho mai fatto. Noi, tutti quelli che vivono, abbiamo una vita che è vissuta e un’altra che è pensata, ma l’unica che abbiamo in effetti, è quella che si divide tra la vera e la falsa. Quale tuttavia sia quella vera e quale quella falsa, nessuno potrà mai spiegarlo; e viviamo di modo che la vita che abbiamo è quella che pensiamo.
TENHO TANTO SENTIMENTO
Tenho tanto sentimento Que é frequente persuadir-me De que sou sentimental, Mas reconheço, ao medir-me, Que tudo isso é pensamento, Que não senti afinal. Temos, todos que vivemos, Uma vida que é vivida E outra vida que é pensada, E a única vida que temos É essa que é dividida Entre a verdadeira e a errada. Qual porém é a verdadeira E qual errada, ninguém Nos saberá explicar; E vivemos de maneira Que a vida que a gente tem É a que tem que pensar.
VEDO I PAESAGGI SOGNATI
Vedo i paesaggi sognati con la stessa chiarezza con cui fisso quelli reali. Se mi sporgo sui miei sogni è su qualcosa che mi sporgo. Se vedo passare la vita, sogno qualcosa.
Qualcuno ha detto che le figure dei sogni hanno stesso rilievo e ritaglio delle figure della vita. Per me, anche se comprendessi che si usasse una simile frase, non la accetterei. Per me, le figure dei sogni non sono uguali a quelle della vita. Sono parallele.
VEJO AS PAISAGENS SONHADAS
Vejo as paisagens sonhadas com a mesma clareza com que fito as reais. Se me debruço sobre os meus sonhos é sobre qualquer coisa que me debruço. Se vejo a vida passar, sonho qualquer coisa.
De alguém disse que para ele as figuras dos sonhos tinham o mesmo relevo e recorte que as figuras a vida. Para mim, embora compreendesse que se me aplicasse frase semelhante, não a aceitaria. As figuras dos sonhos não são para mim iguais às da vida. São paralelas.
NON VADO A TROVARE NESSUNO NON FREQUENTO ALCUNA SOCIETÀ
Non vado a trovare nessuno, non frequento alcuna società — né dentro i salotti, né dentro i caffè. Farlo sarebbe sacrificare la mia unità interiore, arrendersi a conversazioni inutili, rubare tempo quantomeno ai miei ragionamenti e ai miei progetti, se non altro ai miei sogni, che sono più belli delle chiacchiere altrui. Mi devo all’umanità futura. Quanto di me sprecherei è il patrimonio divino possibile degli uomini di domani; ridurrei la felicità che potrei dargli e ridurrei me stesso, non solo ai miei occhi reali, ma agli occhi di Dio. Può non essere così, ma sento il dovere di crederlo.
NÃO FAÇO VISITAS NEM ANDO EM SOCIEDADE ALGUMA
Não faço visitas, nem ando em sociedade alguma – nem de salas, nem de cafés. Fazê-lo seria sacrificar a minha unidade interior, entregar-me a conversas inúteis, furtar tempo senão aos meus raciocínios e aos meus projectos, pelo menos aos meus sonhos, que sempre são mais belos que a conversa alheia. Devo-me a humanidade futura. Quanto me desperdiçar desperdiço do divino património possível dos homens de amanhã; diminuo-lhes a felicidade que lhes posso dar e diminuo-me a mim-próprio, não só aos meus olhos reais, mas aos olhos possíveis de Deus. Isto pode não ser assim, mas sinto que é meu dever crê-lo.
NON HO MAI CUSTODITO GREGGI
Non ho mai custodito greggi ma è come se li custodissi. La mia anima come un pastore conosce il vento e il sole e va mano a mano con le stagioni a seguire e a guardare. Tutta la pace della natura senza gente viene a sedersi accanto. E io divento triste come un crepuscolo per la nostra immaginazione quando raffresca in fondo alla pianura e si sente la notte entrare dalla finestra come una farfalla.
Ma la mia tristezza è quieta perché è naturale e giusta ed è ciò che nell’anima deve esserci quando essa pensa d’esistere e le mani colgono fiori senza che se ne accorga.
Come uno scampanellio di sonagli oltre la curva della strada, i miei pensieri sono contenti. Solo mi dispiace sapere che sono contenti, perché se non lo sapessi invece d’essere contenti e tristi, sarebbero allegri e contenti.
Pensare è spiacevole come andare nella pioggia quando il vento cresce e sembra piovere di più.
Non ho ambizioni né desideri essere poeta non è una mia ambizione è il mio modo di stare solo.
E se desidero a volte, per divagare, essere un agnellino (o tutto il gregge a sparpagliarmi nella costa ed essere al contempo tante cose felici)
è solo perché sento ciò che scrivo al crepuscolo o quando una nuvola passa la mano sulla luce e corre un silenzio attraverso l’erba.
Quando mi siedo a scrivere versi o, passeggiando per sentieri e scorciatoie, scrivo versi su un foglio che è nel mio pensiero, sento un vincastro tra le mani e vedo un ritaglio di me in cima ad un’altura, tenere d’occhio il mio gregge e vedere le mie idee o tenere d’occhio le mie idee e vedere il mio gregge e sorridere vagamente come chi non comprende ciò di cui si parla e vuole fingere di comprendere. Saluto tutti quelli che mi leggeranno, togliendomi il largo cappello quando mi vedono alla mia porta non appena la diligenza s’eleva in cima alla collina.
Li saluto e gli auguro il sole, e la pioggia, quando la pioggia è necessaria e che le loro case abbiano ai piedi d’una finestra aperta una sedia prediletta dove si seggano, leggendo i miei versi. E leggendo i miei versi pensino che io sia una cosa naturale ― per esempio, un albero antico all’ombra del quale da bambini si sedevano con un tonfo, stanchi di giocare e si pulivano il sudore dalla testa accaldata con la manica del grembiulino a righe.
EU NUNCA GUARDEI REBANHOS
Eu nunca guardei rebanhos, Mas é como se os guardasse. Minha alma é como um pastor, Conhece o vento e o sol E anda pela mão das Estações A seguir e a olhar. Toda a paz da Natureza sem gente Vem sentar-se a meu lado. Mas eu fico triste como um pôr de sol Para a nossa imaginação, Quando esfria no fundo da planície E se sente a noite entrada Como uma borboleta pela janela.
Mas a minha tristeza é sossego Porque é natural e justa E é o que deve estar na alma Quando já pensa que existe E as mãos colhem flores sem ela dar por isso.
Como um ruído de chocalhos Para além da curva da estrada, Os meus pensamentos são contentes. Só tenho pena de saber que eles são contentes, Porque, se o não soubesse, Em vez de serem contentes e tristes, Seriam alegres e contentes.
Pensar incomoda como andar à chuva Quando o vento cresce e parece que chove mais.
Não tenho ambições nem desejos Ser poeta não é uma ambição minha É a minha maneira de estar sozinho.
E se desejo às vezes Por imaginar, ser cordeirinho (Ou ser o rebanho todo Para andar espalhado por toda a encosta A ser muita cousa feliz ao mesmo tempo),
É só porque sinto o que escrevo ao pôr do sol, Ou quando uma nuvem passa a mão por cima da luz E corre um silêncio pela erva fora.
Quando me sento a escrever versos Ou, passeando pelos caminhos ou pelos atalhos, Escrevo versos num papel que está no meu pensamento, Sinto um cajado nas mãos E vejo um recorte de mim No cimo dum outeiro, Olhando para o meu rebanho e vendo as minhas ideias, Ou olhando para as minhas ideias e vendo o meu rebanho, E sorrindo vagamente como quem não compreende o que se diz E quer fingir que compreende. Saúdo todos os que me lerem, Tirando-lhes o chapéu largo Quando me vêem à minha porta Mal a diligência levanta no cimo do outeiro.
Saúdo-os e desejo-lhes sol, E chuva, quando a chuva é precisa, E que as suas casas tenham Ao pé duma janela aberta Uma cadeira predileta Onde se sentem, lendo os meus versos. E ao lerem os meus versos pensem Que sou qualquer cousa natural – Por exemplo, a árvore antiga À sombra da qual quando crianças Se sentavam com um baque, cansados de brincar, E limpavam o suor da testa quente Com a manga do bibe riscado.
PREGHIERA
Signore, la notte viene e l’anima è vile. Tanto fu lo sconquasso e la bramosia! Ci rimane oggi nel silenzio ostile il mare universale e la nostalgia.
Ma la fiamma, che la vita in noi creò, se ancora ha vita, ancora non è spenta. Il freddo morto in cenere la occultò: la mano del vento può darle altra spinta.
Dia il soffio, la brezza – rovina o trepidanza – affinché la fiamma dell’ardire venga in mostra, e conquisteremo di nuovo la Distanza – del mare o un’altra, ma che sia la nostra!
PRECE
Senhor, a noite veio e a alma é vil. Tanta foi a tormenta e a vontade! Restam-nos hoje, no silencio hostil, o mar universal e a saudade.
Mas a chamma, que a vida em nós creou, se ainda há vida ainda não é finda. O frio morto em cinzas a ocultou: a mão do vento pode erguel-a ainda.
Dá o sopro, a aragem – ou desgraça ou ancia – com que a chamma do esforço se remoça, e outra vez conquistemos a Distancia – do mar ou outra, mas que seja nossa!
NON BASTA APRIRE LA FINESTRA
Non basta aprire la finestra per vedere i campi e il fiume. Non basta non essere ciechi per vedere alberi e fiori. È necessario anche non avere alcuna filosofia. Con la filosofia non ci sono alberi: ci sono solo idee. C’è soltanto ognuno di noi, come una caverna. C’è soltanto una finestra chiusa e il mondo là fuori; e un sogno di ciò che si potrebbe vedere se la finestra s’aprisse, che mai è ciò che si vede quando la finestra s’apre.
NÃO BASTA ABRIR A JANELA
Não basta abrir a janela para ver os campos e o rio. Não é bastante não ser cego para ver as árvores e as flores. É preciso também não ter filosofia nenhuma. Com filosofia não há árvores: há ideias apenas. Há só cada um de nós, como uma cave. Há só uma janela fechada, e todo o mundo lá fora; e um sonho do que se poderia ver se a janela se abrisse, que nunca é o que se vê quando se abre a janela.
Con questa rubrica si vorrebbe dare ‘voce viva’ a testi di diverso genere e ad autori noti e meno noti che di solito vengono conosciuti tramite lettura personale e spesso silenziosa. Senza nulla togliere alla profondità dell’esperienza soggettiva di immersione nel testo, con questo tentativo si vuole porre l’accento sulla modalità dell’ascolto e della compartecipazione acustica dell’espressione letteraria, così come accade quando assistiamo ad uno spettacolo teatrale o, più semplicemente, quando dialoghiamo. La scelta di autori e testi sarà a cura della redazione, tuttavia non si esclude che potranno essere prese in considerazione proposte di lettura su iniziativa di esterni alla stessa redazione, avendo cura di inviare copia del testo proposto. Solo un’avvertenza: la voce narrante è quella di un lettore comune e non l’espressione professionale di un attore, così come l’ambiente operativo che non è uno studio di registrazione.
Sì, so bene
Sì, so bene
che mai sarò qualcuno.
So d’avanzo
che mai avrò un’opera.
So, infine
che mai saprò di me.
Sì, ma adesso,
finchè dura quest’ora,
questa Luna,
questi rami,
questa pace in cui stiamo,
lascino che mi creda
quel che mai potrò essere.
Presi il mio cuore
Presi il mio cuore
e lo posi nella mia mano
Lo guardai come chi guarda
grani di sabbia o una foglia.
Lo guardai pavido e assorto
come chi sa d’essere morto;
con l’anima solo commossa
del sogno e poco della vita.
Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta,
dicendo che è un mio emissario,
non credergli, anche se sono io;
ché il mio orgoglio vanitoso non ammette
neanche che si bussi
alla porta irreale del cielo.
Ma se, ovviamente, senza che tu senta
bussare, vai ad aprire la porta
e trovi qualcuno come in attesa
di bussare, medita un poco. Quello è
il mio emissario e me e ciò che
di disperato il mio orgoglio ammette.
Apri a chi non bussa alla tua porta.
(Fernando Pessoa)
Questa terza poesia della rubrica Forma alchemica l’ho scelta a caso. Ho aperto un file word della mia raccolta di poesie preferite ed è apparsa questa. La scelta casuale mi è piaciuta molto.
In verità nella mia raccolta non c’è poesia che non mi piaccia, si tratta di mie selezioni, per cui non possono essermi che gradite, ciò che muta invece è la voglia di dire qualcosa su una specifica poesia. Questa tuttavia si è rivelata la scelta giusta per questo particolare momento che direi di significativo lavorio mentale e complessità.
Pessoa infatti è un autore complesso e multiforme che ha manifestato la sua vena creativa letteraria imputandola a vari eteronimi che rappresentano ben più di uno pseudonimo, essendo ciascuno dei nomi scelti una figura avente una propria storia e biografia autonome da Pessoa stesso che le ha create. Lo scrivere di Pessoa come fosse un altro, realizza la spersonalizzazione psichica dell’autore, della quale egli è perfettamente consapevole, avendola tuttavia resa innocua nella sua vita reale canalizzandola nell’ invenzione di figure creative. Egli ha scritto dissimulato dietro oltre cento pseudonimi, di questi però quelli dotati di un’autonoma storia e personalità sono: Alberto Caeiro, Alvaro de Campo, Ricardo Reis e Bernardo Soares. Quest’ultimo è autore del “Libro dell’inquietudine”, una delle maggiori opere della letteratura portoghese del XX secolo. Alberto Caeiro tuttavia è il principale degli eteronimi, sia perché lo stesso Pessoa lo considerava un maestro, ma soprattutto perché è per suo tramite Pessoa ha vissuto il giorno trionfale, nel quale in una sorta di trance scrisse oltre trenta poesia in preda all’esaltazione creativa, il giorno liberatorio quindi della sua articolata personalità.
Un esempio della complessità di Pessoa è la famosa strofa sul dolore e l’ambiguità del poeta nella quale Pessoa sviluppa il suo pensiero in periodare circonvoluto e sorprendente.
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente
La poesia che propongo oggi come esempio di forma alchemica presenta a mio avviso una costruzione similmente complessa. Se potessi rappresentarla con un’immagine sarebbe una spirale, se dovessi immaginarla con un’azione penserei al movimento che compie la navetta contenente la spoletta del telaio meccanico. Questa navetta viene lanciata velocissimamente verso un alloggiamento al capo opposto dal quale viene respinta indietro stendendo il filo che si intreccia alla trama e crea il tessuto. Allo stesso modo Pessoa, lancia l’ordito di affermazioni, negazioni, contraddizioni che si susseguono come lanciati, verso dopo verso, a tessere nell’insieme il tessuto.
Al bussare di un emissario che si dica inviato dall’io poetante il tu interlocutore non deve aprire la porta, fosse anche il poeta stesso. E’ un fatto di orgoglio evidente per cui certo il poeta mai verrà alla “porta del cielo” (la porta topica del componimento) a bussare presentando scuse o elemosinando perdono o richiesta di amore o chiarimento, lavoro, bisogno, compagnia, desiderio.
Cosa mai si può chiedere bussando a una porta? Di tutto si può chiedere, ma principalmente che essa si apra.
Ecco che allora è possibile l’incontro delle volontà in contrasto, non un aprire per un bussare, ma un aprire per caso, per una felice intuizione senza che lui, l’emissario o il poeta, abbiamo mai fatto il gesto di bussare, non l’abbiano mai compiuto interamente per lo meno, mentre è accettabile per la vanità dell’io poetante che l’abitante della casa, senza che mai abbia sentito il tocco alla porta, perché appunto mai compiuto il gesto di bussare, apra per caso, per intuito, per volontà indipendente, per desiderio di correre dall’amico, dall’amante o congiunto o comunque da quell’essere assente e desiderato. Solo in quel caso, in quel felice attimo di incontro, in quell’ incantesimo di una figura alla porta col pugno sollevato nel gesto sospeso di bussare alla porta e dell’altro essere al di qua dell’uscio che in gesto improvviso spalanca la porta, solo allora l’emissario poetico si materializza ed ammette la sua voglia di bussare, ammette questo slancio verso la persona che sta oltre la porta.
Apri a chi non bussa alla tua porta. In quest’ultimo verso io leggo ancora una richiesta di attivare l’attenzione, similmente all’esortazione di prestare attenzione agli altri ben presente nella stella di Rostand commentata nella forma alchemica 1, ma in questo caso è un’attenzione più individualista, più centrata al singolo, più innamorata d’ego che cerca riconoscimenti nel cedimento dell’altro, meno connotata quindi di un’aura caritatevole. Non è un’attenzione configurata come forma più alta di generosità, volendo ricordare il pensiero di Simone Weil sull’attenzione, è più un’ invocazione, una manifestazione di bisogno, un’ esaltazione del sentire e dell’attaccamento all’altro, più una denuncia della propria debolezza, incapace di ammettere l’errore, il pentimento, di chiedere scusa o di dichiarare un sentimento. Ancora più a fondo è la confessione spudorata e sofferta (fingendo che sia dolore il dolore che davvero sente) che si cede al proprio orgoglio e non si ha la forza di muoversi fino a giungere o parlare all’altro in disarmata umiltà, ma che, al massimo possibile sforzo, si ammette il compromesso, l’incontro al centro del ponte che congiunge le sponde.
Un gesto di uomini non propriamente giganti, ma più piccoli, e se anche non propriamente nani, semplicemente di una statura ordinaria, fatta di centimetri che non si comprimono in una scatola, ma si espandono nella parola che scava nella più profonda, nuda, autentica e fragile umanità.
Questa è proprio l’umanità contorta disincantata e antieroica che può essere espressa bene da chi ha mille volti e capacità straordinaria di immedesimazione “trasformista”, come Fernando Pessoa, prestigiatore del suo ambiguo, complesso, fantasmatico mondo.