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Archivi tag: la perquisizione

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La perquisizione” di Baldomero Lillo

14 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Tag

Baldomero Lillo, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, la perquisizione, Racconti, TRADUZIONI

C I L E

LA PERQUISIZIONE

(1917)

Baldomero Lillo (1867-1923)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato il principale esponente del naturalismo sociale nella letteratura cilena. Il suo stile preciso ed espressivo, dai chiari echi modernisti, con descrizioni minuziose dei paesaggi, risente dell’influenza dei grandi naturalisti europei, quali: Honoré de Balzac, Émile Zola, Lev Tolstoj. Collaborò con varie riviste e giornali, tra i quali la rivista “Zig-Zag” e i quotidiani “El Mercurio” e “Las Últimas Noticias”. I suoi personaggi appartengono ai ceti sociali più poveri e sfruttati, irretiti nel loro destino, in una squallida miseria. Al lavoro nelle miniere e all’aspra vita delle comunità minerarie dedica una raccolta di racconti, intitolata “Sub Terra”, pubblicata nel 1904. L’opera è il frutto della conoscenza delle dure condizioni di vita dei minatori di carbone del suo villaggio, fatta attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, e dell’esperienza che Lillo stesso fece in uno spaccio di una miniera negli anni giovanili. Il racconto proposto è tratto dalla seconda edizione della raccolta, pubblicata nel 1917, con l’aggiunta di cinque racconti, tra cui “El registro”, ovvero “La perquisizione”.

La mattina era fredda e nebbiosa, una sottile pioggerella bagnava i grossi cespugli di vecchi boldi (1) e di litracee (2) rachitiche. L’anziana donna, con la gonna arrotolata e i piedi scalzi, andava a passo svelto per l’angusto sentiero, evitando per quanto possibile l’unghiata dei rami, dai quali scorrevano grossi goccioloni, che foravano il terreno molle e spugnoso della scorciatoia. Era un sentiero solitario e poco battuto che, deviando dalla strada scura, conduceva a un piccolo insediamento distante una lega e mezza dall’imponente stabilimento carbonifero, le cui costruzioni apparivano, di tanto in tanto, fra le radure della boscaglia, nella distanza sfocata dell’orizzonte.

Nonostante il freddo e la pioggia, il viso della donna era intriso di sudore e il suo respiro, rotto e affannoso. Stretto al petto, portava un fagotto avviluppato tra le pieghe del logoro scialle di lana.

Piccola, esile, rinsecchita. Il suo volto, pieno di rughe con occhi scuri e tristi, aveva un’espressione umile, rassegnata. Si mostrava molto inquieta e sospettosa, e man mano che gli alberi diventavano più radi, si faceva più visibile la paura e l’agitazione.

Quando sboccò sul margine del bosco, si fermò un istante a guardare con attenzione lo spazio scoperto che si estendeva davanti a lei, come un immenso lenzuolo grigio, sotto il cielo d’ardesia, quasi nero in direzione del nordest.

La pianura sabbiosa e sterile era deserta. A diritta, interrompendo la loro monotona uniformità, si alzavano i muri bianchi dei capannoni coronati dalle lisce soffittature di zinco, che scintillavano sotto la pioggia. E più in là, toccando quasi le pesanti nubi, saliva dall’enorme ciminiera della miniera il nero ciuffo di fumo, contorto, sbrindellato dalle raffiche furibonde del settentrione. L’anziana donna, sempre timorosa e irrequieta, dopo un istante di osservazione fece passare il suo corpo sottile tra i fili di ferro della recinzione che delimitava da quel lato i terreni della struttura, e si incamminò in linea retta verso le abitazioni. Di tanto in tanto si chinava a raccogliere il biodo umido, stecchi di legno, rametti, radici secche disseminate nella sabbia, con cui realizzò un piccolo fastello che fissò con uno spago e adagiò sulla testa.

Con questo trofeo fece il suo ingresso lungo i corridoi degli alloggi, ma gli sguardi ironici, i sorrisetti e le parole a doppio senso indirizzate al suo passaggio, le fecero capire che lo stratagemma era noto e non ingannava gli occhi penetranti delle vicine.

Sicura del riserbo di quella brava gente, non diede importanza a quelle frecciatine e si fermò solo quando si trovò davanti la porta del suo alloggio. Infilò la chiave nella serratura, fece girare i cardini e una volta dentro passò il catenaccio.

Dopo aver sistemato in un angolo il fastello e adagiato accuratamente il fagotto sul letto, si tolse lo scialle e lo appese a una cordicella che attraversava la stanza all’altezza della testa.

Più tardi, diede fuoco a un mucchietto di sterpi e di carbone che era pronto nel camino e sedendosi su una piccola panca davanti al focolare, attese. Una fiamma scintillante si alzò e illuminò la stanza sui cui muri nudi e freddi si disegnò l’ombra surreale e spigolosa dell’anziana. Quando credette che il calore fosse sufficiente, mise sui ferri la teiera con l’acqua per il mate, afferrò il pacco sul letto, lo slegò e collocò il suo contenuto, una libbra di erba e una libbra di zucchero, sull’estremità della panca, dove si trovavano già la tazza di maiolica sbreccata e la cannuccia di latta.

Mentre il fuoco scoppiettava, la donna accarezzò con le dita secche l’erba sottile e lucida di un bel colore verde, pregustandosi la squisita bevanda che il suo palato goloso era impaziente di provare.

Era da molto tempo che il desiderio di assaporare un mate di quell’erba odorosa e fragrante era diventato un’ossessione, un chiodo fisso nel suo cervello di sessagenaria. Ma quanto le era stato difficile soddisfare quel “vizio”, come lo chiamava lei; perché suo nipote José, che faceva il custode della miniera, guadagnava appena quel poco per non morire di fame, ed era l’unico a lavorare.

L’erba dello spaccio era scadente e aveva un cattivo gusto, mentre nel villaggio, ce n’era una finissima, con foglioline così pure e aromatiche che solo a ricordarla veniva l’acquolina in bocca. Ma costava quaranta centavos (3) alla libbra! È vero che per l’erba dello spaccio pagava il doppio, ma il pagamento lo poteva fare con fiche o buoni che poteva trarre dallo stipendio del nipote, mentre per acquistare l’altra erba era necessario moneta sonante.

Ma questo non era l’unico problema. C’era anche il severo divieto per tutti i lavoratori della miniera di comprare anche un solo spillo, al di fuori dallo spaccio della Compagnia. Ogni articolo che proveniva da un’altra fonte veniva immediatamente dichiarato di contrabbando e confiscato, e il contrabbandiere punito con l’immediata espulsione dalle residenze.

Per lunghi mesi aveva accumulato centavo dopo centavo, in un angolo del letto, sotto il materasso, la somma che le occorreva. Aveva badato che a suo nipote non fosse mancato l’essenziale, privandosi lei stessa del necessario e, a poco a poco, la quantità di monete era aumentata fino a quando finalmente la somma raccolta fu sufficiente non solo a comprare un chilo d’erba, ma anche un po’ di zucchero, di quello bianco e cristallino che nello spaccio non si vedeva mai.

Dopo, però, sarebbe venuta la parte più difficile. Andare fino al villaggio, fare la spesa senza destare sospetti nei guardiani, che come degli Argo sorvegliavano con cento occhi il viavai della gente.
Al pensiero, la donna si impauriva. Perdeva tutto il coraggio. Che ne sarebbe stato di lei e del ragazzo in quell’inverno che si presentava così crudo se li avessero buttati fuori dalla stanza, lasciandoli senza pane e senza un tetto dove ripararsi?

Ma il denaro era lì, che la tentava, come a sussurrarle:

— Andiamo, prendimi, non aver paura.

Scelse un giorno di pioggia, in cui la sorveglianza era meno attenta, e alle prime luci del mattino. Non appena il ragazzo se ne fu andato alla miniera, prese le monete, diede un giro di chiavi alla porta, e si addentrò nella pianura, portando il rotolo di cordicelle che le serviva per legare i fastelli di legna, quando andava a raccoglierla di tanto in tanto nel bosco.

Ma una volta che si fu allontanata abbastanza, scavalcò la recinzione di fili di ferro e prese lo stretto sentiero che, evitando il lungo giro della strada, conduceva in linea retta verso il villaggio. La distanza era lunga, molto lunga per le sue povere gambe; ma la percorse senza troppa fatica grazie al clima gradevole e all’eccitazione nervosa che la possedeva.

Non fu così al ritorno. La via le sembrò aspra, interminabile, e dovette fermarsi più volte per riprendere fiato. Poi sperimentò una grande angoscia per il compimento di quel reato a cui la coscienza colpevole dava proporzioni inquietanti.

La presa in giro del temuto divieto di fare acquisti fuori dallo spaccio, la terrorizzava come se avesse commesso un latrocinio mostruoso. E a ogni istante le sembrava di vedere dietro un albero la sagoma minacciosa di qualche sorvegliante che improvvisamente si gettava su di lei e le strappava il pacchetto.

Più volte fu tentata di gettare l’involucro compromettente a un lato della strada per liberarsi di quell’angoscia, ma la fragranza aromatica dell’erba che attraverso la carta solleticava il suo olfatto, la faceva desistere dal prendere una decisione così dolorosa. Perciò, quando si trovò da sola dentro la stanza, al sicuro da qualunque sguardo indiscreto, la colse un attacco d’infantile allegria.

E mentre l’acqua pronta per bollire diffondeva il gorgoglio che precede l’ebollizione, con le mani incrociate sulle ginocchia seguiva con gli occhi le tenui volute del vapore che cominciavano a uscire dal becco curvo della teiera.

Nonostante l’atroce stanchezza della lunga camminata, provava una dolce sensazione di contentezza. Stava per gustare nuovamente gli squisiti mati di un tempo, che erano stati la sua delizia quando ancora c’erano intorno a lei le persone che le furono sottratte da quell’insaziabile divoratrice di giovani: la miniera, che sotto le piante, nel profondo della terra, stendeva la nera rete dei suoi passaggi, inferno e ossario di tante generazioni.

All’improvviso un colpo brusco alla porta la strappò dalle sue meditazioni. Una paura terribile si impossessò di lei e quasi senza accorgersi di ciò che stava facendo, prese il pacco e lo nascose sotto la panca. Un secondo colpo più forte del primo, seguito da una voce ruvida e imperiosa che gridava: “Aprite, nonna, presto, presto!”, la tirò fuori dalla sua immobilità. Si alzò in piedi e girò la serratura.

Il padrone dello spaccio e il suo giovane dipendente furono i primi a oltrepassare la soglia, seguiti da due inservienti con alcuni sacchi sulle spalle che depositarono sul pavimento ammattonato. L’anziana si lasciò cadere sulla panca.

Paralizzata, guardava davanti a sé con un’espressione da ebete; la bocca semichiusa e la mascella appesa rivelavano il culmine della sorpresa e dello spavento. Mentre il suo corpo si liquefaceva, si riduceva fino a diventare qualcosa di piccolissimo e impalpabile, l’imponente figura di quell’uomo dalla barba bionda e dai baffi attorcigliati, avvolto nel suo lussuoso cappotto, assumeva proporzioni colossali, riempiva la stanza, impedendo ogni tentativo di sgattaiolare via e di nascondersi.

Nel frattempo, il dipendente, un giovinastro sveglio e agile, aiutato dagli inservienti, aveva iniziato la perquisizione. Dopo aver gettato da un lato le coperte del letto, girato il materasso e tastato la paglia attraverso il tessuto, aprirono il piccolo baule e, a uno a uno, gettarono al centro della stanza gli stracci che vi erano contenuti, lasciandosi andare ad apprezzamenti sgradevoli per quei vestiti, talmente strappati e cenciosi, che non si sapeva come afferrarli. Poi, rovistarono negli angoli, rimossero i pochi e miseri utensili dal loro posto e d’improvviso si fermarono a guardarsi disorientati.

Il padrone, in piedi davanti alla porta, in atteggiamento severo e distinto osservava i movimenti dei suoi subalterni senza scucire una parola.

Il giovane dipendente si rivolse a uno degli uomini, chiedendogli:

— Sei sicuro di averla vista passare attraverso il filo spinato?

L’interpellato rispose:

— Sicuro, signore, come ora sto vedendo voi davanti ai miei occhi. Spuntava dalla scorciatoia e scommetterei dieci a uno che veniva dal villaggio.

Ci fu un breve silenzio, poi la voce del padrone dello spaccio proruppe:

— Beh, perquisite lei.

Mentre i due uomini afferrarono l’anziana per le braccia e la tennero in piedi, il giovane eseguì in fretta la ripugnante operazione.

— Non ha nulla – disse, asciugandosi le mani che si erano inumidite nei risvolti dei vestiti bagnati.

E tutto sarebbe finito bene per la donna se quel giovane, nel suo desiderio di perquisire in ogni luogo, non si fosse avvicinato alla panca e guardato sotto.

Appena si fu abbassato, si voltò verso il padrone con sguardo raggiante.

— Guardate dove l’ho trovata, signore, questa vecchia dei diavoli!

Il padrone ordinò secco:

— Requisite il pacco e uscite.

Quando il giovane dipendente e gli inservienti se ne furono andati, il padrone osservò un istante la piccola e misera figura dell’anziana, raggomitolata sulla panca, poi, assumendo un aspetto imponente, avanzò di qualche passo e con voce severa la rimproverò:

— Se non foste una povera vecchia, vi farei sbrattare la stanza, gettandovi in strada. E questo, in coscienza, sarebbe giusto, perché lo sapete bene che comprare qualcosa fuori dallo spaccio è un furto che si fa alla Compagnia. Per ora, poiché è la prima volta, voglio essere indulgente, ma se dovesse accadere un’altra volta, adempirò rigorosamente al mio dovere. Andate con Dio e chiedetegli di perdonarvi questo peccato indegno per i vostri capelli grigi.

L’anziana rimase da sola. Il suo petto traboccava di gratitudine per la bontà del padrone e sarebbe caduta in ginocchio ai suoi piedi se la sorpresa e la paura non l’avessero paralizzata. Senza alzarsi dalla panca, si girò verso il camino e piegò pesantemente la testa.

Fuori, il maltempo aumentava a poco a poco; una raffica aprì la porta e alimentò il fuoco morente, scompigliando sulla nuca della donna le rade ciocche grigie che mettevano a nudo il collo lungo e sottile, con la pelle raggrinzita attaccata alle vertebre.


[1] Alberello spontaneo, sempreverde, originario del Cile, con fiori bianchi e foglie aromatiche, ruvide e ricoperte di peluria.

[2] Famiglia di piante erbacee o legnose, diffuse in tutto il mondo, principalmente nelle fascia tropicale e temperata. Vivono indistintamente in ambienti aridi, umidi e acquei, con caratteristiche peculiari, per ogni specie, in relazione a tali ambienti.

[3] Unità di misura di diverse monete dell’America Latina, corrispondente alla centesima parte. Si traduce letteralmente “centesimo”.

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