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LIMINA MUNDI

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LIMINA MUNDI

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PUNTI DI VISTA 7: La Gioconda

26 lunedì Feb 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI VISIVE, Punti di vista

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Deborah Mega, La Gioconda, Leonardo da Vinci

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.

Oggi analizziamo La Gioconda di Leonardo da Vinci.

La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, è un dipinto a olio su tavola di legno di pioppo  di dimensioni 77×53 cm, realizzato da Leonardo da Vinci. Fu dipinto  tra il 1503 e il 1506 ed è conservato nel Museo del Louvre di Parigi. Si tratta del ritratto più celebre e mitizzato della storia della pittura: oggetto di ammirazione quasi feticista, di tentativi di vandalismo e di furto e perfino bersaglio di deformazioni giocose e irridenti.

Il sorriso enigmatico del soggetto, col suo alone di mistero, ha ispirato tantissime pagine di critica, letteratura, opere di immaginazione e persino studi psicoanalitici; sfuggente, ironica e sensuale, la Monna Lisa è stata di volta in volta amata e idolatrata ma anche derisa o aggredita. La donna rappresentata è stata identificata con Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo da cui il nome di “Gioconda”. L’opera è citata in un documento del 1525,  Giorgio Vasari scrisse che il ritratto impegnò Leonardo per quattro anni e che si trovava fin dal 1542, presso il re Francesco di Francia nella Salle du bain del castello di Fontainebleau. Lo stesso Vasari ci descrive così la Monna Lisa: «Gli occhi presentavano quell’aspetto lucido e umido che si vede dal vero; e attorno a essi c’erano quelle venature rosse e i peli che si possono dipingere solo con grande perizia. Le ciglia non potevano essere più naturali…». Ci parla della peluria delle sopracciglia e di fossette sulle guance, in realtà assenti, ciò è spiegabile con la particolare storia del dipinto, che venne ritoccato per anni e anni dall’artista. Vasari potrebbe aver attinto la sua descrizione da una memoria dell’opera com’era visibile a Firenze fino al 1508; analisi ai raggi X hanno dimostrato che ci sono tre versioni della Monna Lisa, nascoste sotto quella attuale. Esiste anche un altro appunto del 1503 del cancelliere fiorentino Agostino Vespucci, a sostegno delle testimonianze del Vasari, in cui si afferma l’esistenza di un ritratto di Lisa del Giocondo. Altre identificazioni proposte sono state Isabella d’Este, Caterina Sforza, la madre stessa di Leonardo, Caterina Buti del Vacca, Isabella d’Aragona, Bianca Giovanna Sforza, figlia legittimata di Ludovico il Moro, Monna Pacifica, madre di Ippolito de’ Medici, morta dandolo alla luce, ipotesi affascinante, anche se non condivisa da molti. Potrebbe trattarsi anche di Costanza d’Avalos, nobile dama spagnola stabilitasi con la sua famiglia a Napoli. In seguito Luigi XIV fece trasferire il dipinto a Versailles, ma dopo la rivoluzione francese venne spostato al Louvre. Napoleone Bonaparte lo fece collocare nella sua camera da letto, ma nel 1804 tornò al Louvre. Tra il 20 e il 21 agosto del 1911, la Gioconda venne rubata. Della sottrazione si accorse un copista,  che aveva avuto il permesso di riprodurre l’opera a porte chiuse. Del furto fu sospettato il poeta francese Guillaume Apollinaire,  anche Pablo Picasso venne interrogato ma, come Apollinaire, fu in seguito rilasciato. Un ex impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, convinto che il dipinto appartenesse all’Italia e non dovesse quindi restare in Francia, lo aveva rubato, si era rinchiuso in uno sgabuzzino ed era riuscito ad allontanarsi dal museo senza destare sospetti. Custodì l’opera per ventotto mesi e successivamente la portò nel suo paese d’origine, Luino, con l’intenzione di “regalarlo all’Italia”. Si rivolse all’antiquario fiorentino Alfredo Geri, e con l’allora direttore degli Uffizi Giovanni Poggi si accorse che si trattava dell’originale e se la fecero consegnare per “verificarne l’autenticità”. Nell’attesa il Peruggia se ne andò a spasso per la città, ma venne rintracciato e arrestato. Il dipinto recuperato venne esibito in tutta Italia; prima agli Uffizi a Firenze, poi a Palazzo Farnese a Roma, infine alla Galleria Borghese, prima del suo definitivo rientro al Louvre. Sicuramente il furto contribuì alla nascita del mito della Gioconda e così entrò decisamente nell’immaginario collettivo.

Durante la prima e la seconda guerra mondiale, il dipinto venne di nuovo rimosso dal Louvre e conservato in luoghi sicuri. Nel 1956, la parte inferiore del dipinto venne seriamente danneggiata a seguito di un attacco con dell’acido. Diversi mesi dopo qualcuno lanciò un sasso contro il dipinto; attualmente viene esposto dietro un vetro di sicurezza. Studi del 2006 hanno rilevato che in un primo tempo tutto il volto della donna pare fosse ricoperto da un sottile velo, che, all’epoca era portato dalle donne in dolce attesa o che avevano appena partorito. Il dadaista Marcel Duchamp, aggiunse ad una riproduzione del dipinto i baffi; Andy Warhol riprodusse il dipinto in serie, Botero la ridipinse paffuta. Numerosissimi sono stati gli utilizzi e le citazioni nel mondo del cinema, della musica, della televisione e della pubblicità.

La donna è ritratta a mezza figura, rivolta a sinistra, ma con il volto frontale, ruotato verso lo spettatore. Le mani sono adagiate in primo piano, mentre sullo sfondo, si apre un paesaggio fluviale. Indossa una pesante veste scollata, con maniche in tessuto diverso; in testa indossa un velo trasparente che tiene fermi i lunghi capelli sciolti. Per quanto riguarda la luce, questa arriva dal fondo, diventa sempre più debole man mano che si avvicina alla donna, sembra dissolversi e scomparire tra i suoi capelli, restando molto intensa sulle mani e sul volto e conferendo grande vitalità alla donna. La particolare luminosità impedisce di oggettivare i particolari fisici e favorisce la proiezione fantastica dello spettatore così come il sorriso che anima il volto della donna restando indefinibile sul piano delle emozioni e degli stati affettivi. Considerando la grande cura di Leonardo per i dettagli, molti esperti ritengono che non si tratti di uno sfondo inventato, ma che rappresenti un punto della Toscana, là dove l’Arno supera le campagne di Arezzo e riceve le acque della Val di Chiana. Sulla destra della Gioconda c’è un ponte antico, di stile romanico, identico al ponte di Buriano, che scavalca tutt’oggi l’Arno.  Se si risale il corso di questo canale, andando a ritroso, bisogna superare una serie di meandri e poi ci si infila in una gola, la Gola di Pratantico. I rilievi a sinistra della Gioconda sono aguzzi, scavati dall’erosione e in effetti, oltre il ponte, si possono osservare i calanchi. Alcuni ritengono che i paesaggi di Leonardo siano prealpini, dei dintorni di Lecco, l’ambiente ritratto potrebbe assomigliare anche al Lago di Iseo.  Altri hanno affermato che i paesaggi sarebbero quelli del Ducato di Urbino. Il saggio di Alberto Angela intitolato Gli occhi della Gioconda tratta il mistero della Gioconda: tra esempi, citazioni colte e descrizioni, ci racconta che l’opera è molto più di un ritratto, è il simbolo di un’epoca di straordinaria importanza, il Rinascimento e del suo più grande rappresentante.

Deborah Mega

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Punti di vista 5: L’Ultima Cena

04 lunedì Dic 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI VISIVE, Punti di vista

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Deborah Mega, L'Ultima Cena, Leonardo da Vinci

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.

Oggi analizziamo L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci.

L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci rappresenta una delle opere d’arte più famose di tutti i tempi, non soltanto per la sua carica innovativa ma anche perché oggetto di innumerevoli imitazioni e riproduzioni da parte degli artisti di tutte le epoche.

E’ un affresco a tempera grassa su intonaco (460×880 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1495-1498 e conservato nell’ex-refettorio del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. L’opera è stata dichiarata nel 1980 patrimonio dell’umanità dall’Unesco. A causa dei materiali utilizzati, incompatibili con l’umidità dell’ambiente, confinante con le cucine del convento, versa da secoli in cattivo stato di conservazione tanto da essere sottoposta a uno dei più lunghi e certosini restauri della storia, durato dal 1978 al 1999. Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento, nell’agosto del 1943, venne bombardato: venne distrutta la volta del refettorio, ma il Cenacolo rimase miracolosamente salvo.

Leonardo rappresenta il momento più drammatico del Vangelo, quando Cristo annuncia il tradimento di uno degli apostoli e pronuncia le parole “In verità vi dico, uno di voi mi tradirà”, (Giovanni, 13,21). Al centro della scena è rappresentata  la figura di Gesù. Attorno a lui gli apostoli sono sistemati a gruppi di tre, secondo le diverse reazioni alle parole di Cristo. Nel 1494 Leonardo Da Vinci ricevette un’importante commissione da Ludovico il Moro, che stava avviando importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento della chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie, perché divenisse luogo di celebrazione della casata Sforza. Donato Bramante aveva appena finito di lavorarvi, quando si decise di procedere con la decorazione del refettorio. Sui lati minori sarebbero dovute essere rappresentate la Crocifissione e l’Ultima Cena.

Alla Crocifissione lavorò Donato Montorfano, sulla parete opposta invece Leonardo avviò l’Ultima Cena, che in quel periodo, lo risollevò dalle preoccupazioni economiche.  Come è noto Leonardo non amava la tecnica dell’affresco, perché lo costringeva a  stendere velocemente i colori prima che l’intonaco si asciugasse e non consentiva ritocchi e piccole modifiche.  Scelse così di dipingere su muro come dipingeva su tavola: la preparazione era composta da una mistura di carbonato di calcio e magnesio uniti da un legante proteico; prima di stendere i colori l’artista interponeva un sottile strato di biacca. In seguito venivano stesi i colori a secco, composti da una tempera grassa.  Questa tecnica permise la raffinata stesura tono su tono e una cura estrema dei dettagli ma fu anche all’origine dei problemi conservativi. Tra i materiali sono stati usati anche lamine metalliche d’oro e d’argento, per impreziosire le figure. Nel 1498 l’opera era già terminata. Nel 1977, dopo diversi studi e ricerche, fu avviato il grande e impegnativo progetto di restauro. L’affresco era ormai ovunque scrostato e lesionato; ci si è resi conto che il Cenacolo era stato spalmato di cera per essere predisposto al distacco, che non fu mai eseguito. L’impiastro di colle, resine, polvere, solventi e vernici, sovrapposte nei secoli, avevano peggiorato notevolmente le condizioni del dipinto. Una volta eliminate le ridipinture e ritrovata l’opera originale di Leonardo, i restauratori si erano posti il problema di come riempire le parti mancanti; in un primo tempo queste erano state riempite con un colore neutro, poi si è deciso di riprendere i colori leonardeschi, basati sui frammenti ritrovati  e sulle copie d’epoca del Cenacolo. Tra le tante scoperte, si è trovato il buco di un chiodo piantato nella testa del Cristo: qui Leonardo aveva appeso i fili per disegnare l’andamento di tutta la prospettiva (punto di fuga). Si sono riscoperti i piedi degli apostoli sotto il tavolo, ma non quelli di Cristo, distrutti nel XVII secolo dall’apertura di una porta che serviva ai frati per collegare il refettorio con la cucina. La stanza è illuminata da tre finestre sullo sfondo e, con l’illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all’antica finestra del refettorio, Leonardo rappresentò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura di Cristo. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione. Nessuno è riuscito a capire cosa ci fosse esattamente sul piatto dei commensali. I tecnici che hanno restaurato il dipinto per vent’anni, guidati da Pinin Brambilla, hanno pensato che il menù fosse a base di pesce, anche se nel momento rappresentato nessuno dei commensali sta toccando cibo. Dal punto di vista geometrico l’ambiente, pur essendo semplice, è ben calibrato. Attraverso alcuni espedienti prospettici come il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola, si ottiene l’effetto di trompe l’oeil. Il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso. Leonardo rappresentò i “moti dell’animo” degli apostoli  sconcertati di fronte all’annuncio dell’imminente tradimento di uno di loro. Alle parole di Cristo gli apostoli manifestano diversi stati d’animo: Pietro (a sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell’ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni per avere spiegazioni; Giuda, stringe la borsa con i soldi e nell’agitazione rovescia la saliera. Andrea mostra i palmi, Giacomo e Bartolomeo sono sgomenti e increduli. All’estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone pure esprimono con gesti concitati il loro smarrimento. Giacomo Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto. La figura di Tommaso, a sinistra di Gesù col dito puntato verso l’alto, è anatomicamente sproporzionata, con un braccio troppo lungo, e pare aggiunta successivamente in modo un po’ posticcio. Alcuni particolari della composizione sono probabilmente stati suggeriti dai domenicani, forse dallo stesso priore  Vincenzo Bandello. Sopra l’Ultima Cena si trovano cinque lunette che rappresentano  imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori, foglie e iscrizioni su sfondo rosso. La lunetta centrale è in buono stato di conservazione e contiene il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione.

Una diversa lettura del dipinto è stata compiuta dallo scrittore Dan Brown nel famoso romanzo giallo Il codice da Vinci. Secondo lo scrittore, il discepolo alla destra di Gesù Cristo sarebbe una donna, con cui Leonardo avrebbe voluto rappresentare Maria Maddalena, la possibile amante di Gesù, ipotesi respinta dalla Chiesa, in quanto priva di alcun fondamento. L’aspetto di Giovanni fa parte dell’iconografia dell’epoca, riscontrabile in tutte le “ultime cene” : l’apostolo più giovane (il “prediletto” secondo lo stesso quarto vangelo) era rappresentato come un adolescente dai capelli lunghi e dai lineamenti dolci.

I quattro gruppi formano delle piramidi concatenate fra loro; piramidale è anche, al centro, Gesù, con le braccia allargate, isolato rispetto ai discepoli, perché è solo nel momento del sacrificio supremo. Leonardo esprime la consapevolezza di chi sa che sarà abbandonato da tutti, ma al tempo stesso la serenità di chi ha accettato una missione che sta per concludersi. C’è dunque distacco fra la concitazione degli altri e la nobile calma di Cristo, altro elemento che rende certi del suo altruismo e del suo amore per l’umanità.

Deborah Mega

 

 

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