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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Ossi di seppia

“Maestrale” di Eugenio Montale

30 lunedì Giu 2025

Posted by Deborah Mega in POESIA

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Tag

Eugenio Montale, Maestrale, Ossi di seppia

foto di Deborah Mega, Padula Bianca, 29.6.25

 

Quest’anno ricorrono cento anni dalla pubblicazione, da parte di Piero Gobetti, nel giugno del 1925, di Ossi di seppia, prima raccolta di poesie di Eugenio Montale, opera memorabile che rappresenta un’importante testimonianza letteraria e umana della poesia italiana del Novecento. “Maestrale” è tratta dalla quarta sezione, Meriggi e ombre, fa parte di un trittico intitolato L’agave su lo scoglio, testo dedicato ai principali venti di terra e di mare fortemente presenti in Liguria e nella poesia di Montale. Maestrale  è presentato dopo Scirocco e Tramontana e rappresenta la calma ritrovata dopo la burrasca, come accade in natura quando il vento cessa di soffiare da nord-ovest e consente all’agave di rifiorire. Il protagonista assoluto è il mare, elemento naturale amatissimo dal poeta, la cui osservazione, alla fine di una tempesta e di fronte all’alzarsi in volo di uno stormo, gli suscita profonde riflessioni sul senso della vita e sulla condizione umana: l’immensa distesa azzurra rappresenta la vita ideale cui l’autore aspira, pur con la consapevolezza che il suo desiderio è irrealizzabile. L’incessante stato di alternanza del mare fra calma e tempesta riflette proprio la condizione umana, costretta a tentare di superare le avversità che la vita inevitabilmente comporta. Lo sguardo del poeta fa riemergere brandelli di verità, lati dell’esistere talvolta soffocati o dimenticati insieme al suo consueto invito a non fermarsi alle apparenze, a ciò che si vede, ma di guardare al futuro, andando oltre perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”!

 

MAESTRALE

 

S’è rifatta la calma

nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.

Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma

a pena svetta.

 

Una carezza disfiora

la linea del mare e la scompiglia

un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora

il cammino ripiglia.

 

Lameggia nella chiaria

la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata

e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia

vita turbata.

 

O mio tronco che additi,

in questa ebrietudine tarda,

ogni rinato aspetto coi germogli fioriti

sulle tue mani, guarda:

 

sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:

“più in là”!

*

(Eugenio Montale, Ossi di Seppia)

 

***

 

Con questa poesia significativa la Redazione di LIMINA MUNDI vi saluta e vi augura

BUONE VACANZE!

Arrivederci al 1° settembre!

 

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“Mediterraneo” di Eugenio Montale

02 domenica Lug 2023

Posted by Deborah Mega in SINE LIMINE

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Tag

Eugenio Montale, Mediterraneo, Ossi di seppia

 

Il sito LIMINA MUNDI vi saluta e vi augura

 BUONE VACANZE

 

con le suggestive poesie di “Mediterraneo”, sezione tratta da Ossi di seppia di Eugenio Montale, dedicata interamente al mare. Torneremo il 1° settembre con nuove idee, originali progetti, accattivanti proposte di lettura e rinnovato entusiasmo e con la speranza e l’augurio vicendevole che mai ci abbandonino l’amore per la lettura e la scrittura e il desiderio di arte, bellezza, poesia.

 

LA REDAZIONE di LIMINA MUNDI

 

A vortice s’abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d’agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
che s’ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

*

Antico, sono ubriacato dalla voce
ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

*

Scendendo qualche volta
gli aridi greppi ormai
divisi dall’umoroso
Autunno che li gonfiava,
non m’era più in cuore la ruota
delle stagioni e il gocciare
del tempo inesorabile;
ma bene il presentimento
di te m’empiva l’anima,
sorpreso nell’ansimare
dell’aria, prima immota,
sulle rocce che orlavano il cammino.
Or, m’avvisavo, la pietra
voleva strapparsi, protesa
a un invisibile abbraccio;
la dura materia sentiva
il prossimo gorgo, e pulsava;
e i ciuffi delle avide canne
dicevano all’acque nascoste,
scrollando, un assentimento.
Tu vastità riscattavi
anche il patire dei sassi:
pel tuo tripudio era giusta
l’immobilità dei finiti.
Chinavo tra le petraie,
giungevano buffi salmastri
al cuore; era la tesa
del mare un giuoco di anella.
Con questa gioia precipita
dal chiuso vallotto alla spiaggia
la spersa pavoncella.

*

Ho sostato talvolta nelle grotte
che t’assecondano, vaste
o anguste, ombrose e amare.
Guardati dal fondo gli sbocchi
segnavano architetture
possenti campite di cielo.
Sorgevano dal tuo petto
rombante aerei templi,
guglie scoccanti luci:
una città di vetro dentro l’azzurro netto
via via si discopriva da ogni caduco velo
e il suo rombo non era che un sussurro.
Nasceva dal fiotto la patria sognata.
Dal subbuglio emergeva l’evidenza.
L’esiliato rientrava nel paese incorrotto.
Così, padre, dal tuo disfrenamento
si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
Ed è vano sfuggirla: mi condanna
s’io lo tento anche un ciottolo
róso sul mio cammino,
impietrato soffrire senza nome,
o l’informe rottame
che gittò fuor del corso la fiumara
del vivere in un fitto di ramure e di strame.
Nel destino che si prepara
c’è forse per me sosta,
niun’altra mai minaccia.
Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,
e questo ridice il filo della bonaccia.

*

Giunge a volte, repente,
un’ora che il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
M’affisso nel pietrisco
che verso te digrada
fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
franosa, gialla, solcata
da strosce d’acqua piovana.
Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.
Questo pezzo di suolo non erbato
s’è spaccato perché nascesse una margherita.
In lei tìtubo al mare che mi offende,
manca ancora il silenzio nella mia vita.
Guardo la terra che scintilla,
l’aria è tanto serena che s’oscura.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

*

Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno: smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s’esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un’eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l’erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.

*

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace – uomo che tarda
all’atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d’una leva che arresta
l’ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d’un sentiero m’ebbi
l’opposto in cuore, col suo invito; e forse
m’occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

*

Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento;
dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare: –
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura.
Non ho che queste parole
che come donne pubblicate
s’offrono a chi le richiede;
non ho che queste frasi stancate
che potranno rubarmi anche domani
gli studenti canaglie in versi veri.
Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
azzurra l’ombra nuova.
M’abbandonano a prova i miei pensieri.
Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

*

Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che traudii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d’uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall’ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.

 

Eugenio Montale, Ossi di seppia, -Mediterraneo-, Piero Gobetti Editore, Torino, 1925.

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Gloria del disteso mezzogiorno

01 mercoledì Set 2021

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA, Poesie

≈ 3 commenti

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Eugenio Montale, Gloria del disteso mezzogiorno, Ossi di seppia

foto di Deborah Mega

Limina Mundi riprende la sua programmazione con la pubblicazione di un celebre testo di Eugenio Montale dedicato all’estate e tratto dalla raccolta Ossi di seppia. Come in Meriggiare pallido e assorto, il poeta descrive il paesaggio assolato e riarso dal sole durante il mezzogiorno, nelle ore più calde di una giornata estiva. Il verso iniziale ha l’andamento di un inno squillante. Il sole occupa la sua posizione più alta nel cielo, tanto da non permettere agli alberi di creare l’ombra. La luce acceca, rende incerti i contorni delle cose e inaridisce la terra. Il motivo dell’aridità diventa emblema di una condizione metafisica ed esistenziale, ritornando con insistenza nel resto della poesia: un secco greto, l’arsura, in giro, una reliquia di vita. Solo un martin pescatore vola sui resti di un animale e annuncia il sollievo della pioggia futura. Emerge però la fiducia nella possibilità della sopravvivenza (Il mio giorno non è dunque passato) e della speranza (della buona pioggia, che verrà dopo lo squallore). Ma la vera gioia, come già aveva affermato Leopardi nel Sabato del villaggio, non è nell’appagamento del desiderio, ma nell’attesa dell’ora più bella di là dal muretto”. In relazione al lessico Montale ricorre a parole auliche e rare, latinismi (occaso) e termini letterari, come falbe, scialbato (aggettivo usato anche da D’Annunzio) e compìta (usato da Dante). La descrizione del paesaggio fa riferimento, come sempre, alla terra ligure.

Metro: tre quartine di endecasillabi (il v. 2 è un novenario sdrucciolo, il v. 11 è un dodecasillabo) con rime ABAB, CDCD, EFEF.

 

Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora piú bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.

 

EUGENIO MONTALE, Ossi di seppia (Torino, Piero Gobetti, 1925).

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Meriggiare pallido e assorto

01 sabato Set 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA, Poesie

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Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto, Ossi di seppia

Limina Mundi riprende la sua programmazione ordinaria con la pubblicazione di un celebre testo di Eugenio Montale dedicato all’estate e tratto dalla raccolta Ossi di seppia. Il poeta descrive il paesaggio ligure assolato e riarso dal sole durante le ore più calde di un pomeriggio estivo. Gli elementi della natura diventano emblemi della sofferenza e del male di vivere che accomuna tutte le creature: il frusciare delle serpi, il movimento incessante delle formiche, il suono quasi metallico del mare sono tutte espressioni del brancolare privo di senso, dietro le quali si annida prepotentemente il nulla. Lo stesso vivere è come camminare costeggiando un muro invalicabile, che ha in cima “cocci aguzzi di bottiglia”, si mette in evidenza così l’impossibilità di sfiorare e comprendere il vero senso dell’esistenza. Meriggiare è il primo di una lunga serie di infiniti e forme impersonali come “ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”, “seguitare” che ricorrono nel componimento, per rappresentare una situazione di desolante staticità. I suoni aspri e secchi della c velare, della s e della r insieme al gruppo gl (“abbaglia”, “meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”) che ricorrono per tutta la poesia, ricordano le scelte stilistiche dell’Alighieri delle “rime petrose”. L’immagine del muro è qualcosa di invalicabile, più che ad una barriera fisica si fa riferimento ad una condizione metafisica ed esistenziale. La poesia si compone di tre quartine e una strofa conclusiva di cinque versi (di varia misura, dall’endecasillabo al novenario) con rime secondo lo schema: AABB CDCD EEFF GHIGH.

foto di Deborah Mega

 

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

EUGENIO MONTALE, da Ossi di seppia

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POESIA SABBATICA : Non chiederci la parola

14 sabato Gen 2017

Posted by Francesco Palmieri in LETTERATURA, Poesia sabbatica

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Eugenio Montale, Ossi di seppia

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Eugenio Montale, da Ossi di seppia

1

 

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