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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Pier Maria Galli

l’origine del nudo

sarebbe un delitto terreno non dire, e non diffondere
sulle dita rimaste a parlare d’altro
l’orlo tagliente di una poesia.
dovremmo conversare sul modo in cui
i pomeriggi eccetera eccetera, oppure
sul perché in quel film loro fanno all’amore
senza toccarsi e gettandoci nel
panico eccetera eccetera; dovremmo
prepararci separatamente il mio caffè e
le tue foglie e posare le tazze sul tavolo
e metterle in discussione prima che le bocche
le svuotino e disegnino quella forma dell’alba
che hanno le tazze dopo che le abbiamo
scavate con la prima bocca che la mattina
ci ha dato; dovremmo spogliarci in luoghi
che si staccano dai corpi cadendo per terra
insieme a noi, mentre i vestiti restano ad osservarci
dall’alto disordinato di una sedia; dovremmo
passare più tempo ad ascoltare il rumore
delle labbra che si screpolano; dovremmo
abbandonare i tuoi seni ed il mio sesso
sui posti a sedere di un cine abbandonato
sopra la locandina dove 2 corpi siedono
sopra la stessa sedia e si vede solo la sedia
e nel film non c’è nessuno; dovremmo
ripetere mille volte il gesto di entrare in una
vasca vuota e uscirne ripuliti e con la pelle
bagnata da quell’aria che sappiamo inventare;
dovremmo prepararci con meno bianco assoluto
quei frammenti di burrasca che sono i parcheggi
sotterranei di un ipermercato nelle ore deserte
della notte; dovremmo cambiare ogni sera
il corso delle vene sui polsi, rimescolando
l’orientarsi della mappa sui nostri corpi;
dovremmo scambiarci gli specchi del bagno
per scoprire i nostri visi appena svegli e
senza concluderli mai; dovremmo confessare
la pagina nera quando ci asciughiamo gli occhi e
portarci il cibo alla bocca con le mani sotto il tavolo;
dovremmo spiegare a chi ci ha amato o ci ama
la casa che hanno costruito sull’altro lato della strada
dove non ci sono mai state case ma solo un fiume
ed ora l’inizio di un lago e perché nessuno
ci ha mai visto prima di addormentarci affacciati alle finestre
e chiudere le persiane come una tremenda notizia personale;
dovremmo sederci sulle ginocchia e nello stesso istante
io sulle tue e tu sulle mie, e ancora così, e non finire
di salirci sopra, crescendo nei corridoi di quei rami
in un prato dove c’è solo erba che entrano dalla finestra
graffiandoci la pelle e spesso l’impalcatura dove operai
senza un progetto in cima alle dita ci fabbricano il cuore

[primo frammento concreto dal vivo]

quasi sempre
restano seduti, ubbidienti
al rumore delle cose,
all’esatto rumore
delle forme di ogni cosa,
come una giornata di vento
che non si protegge il viso
con le mani

[secondo frammento concreto dal vivo]

non potremmo farci superare dalla scena, l’individuo
invernale in anticipo sulle sue macerie s’arrampica
sul rumore di un angolo infiammato della sedia,
lo spigolo dove sediamo, e possiamo scrutare
dietro le finestre finali la foglia,
la preda di quella sola foglia che fissa
il vuoto in qualche pausa del giardino,
quel giardino che rimasto tra i rami
è una patria poverissima, e noi più recenti
che mai, citati dal vivo di una stanza
che costeggia frutteti inventati da un acuto umano,
noi comodamente appoggiati sull’
infiammazione di un angolo ed a tratti
belli di noi, di quella terribile bellezza
che è un colpo di spugna sul paesaggio

[terzo frammento concreto dal vivo] (o forse solo un esteso appunto uscito da immagini)

la diva del tuo sguardo
passeggia lungo i refettori
di quest’inverno. qui
dove mettono piede
nelle basse stagioni
le tue bambine addormentate,
2 lampioni a enormità di certe mattine
abbassate dal vento e che la sera
ammette, perché nessuna differenza
scrive tra te e me, di ricordare come
quel pomeriggio in cui cercammo
di sorvegliare il solo punto di origine
delle onde, quell’infanzia ventilata
che ci spingeva al largo della sponda
dove ora siamo. a volte comprendere
la necessità di una sola poesia
è un sentimento lieve, una mattina
di donne che dalle finestre
ci osservano passare e trasalire
come i posti a sedere di una sala
cinematografica finiti nei tasti disusati
di una macchina da scrivere,
perché nessuna differenza tra te
e me, ma un sentimento ancora
più lieve, il modo in cui fugge
il chiaro dei nostri volti sotto il terreno
mettendo illuminazione alla luce,
la natura violentemente umana
di ogni luogo abbandonato
che infittisce i nostri respiri,
il battito antichissimo dei cuori
che accompagna sopra di noi
il corpo senza ferite degli annegati

[quarto frammento concreto dal vivo] (per g.)

scrivo la parola pioggia
questa mattina che non piove
ma pare soltanto sia inverno
o un remoto aspetto del lago
che scolora in un grido.

scriverti che piove
nel corso di un cielo
emerso laggiù, distante da noi,
accantonato tra i rami sciolti,
inaffrontabile e delicato.

durante la parola pioggia
mettere dunque a disagio
la sciagura della dolcezza;
la certezza mortale
che il cielo sia uno.

forse solo per leggerti
l’inverno dei tappeti erbosi
dove spuntano i tuoi capelli modulati
su un presagio di pioggia.

e scriverti l’enormità
delle nostre stanze al crepuscolo,
come ora piovesse
in una notte di luglio
per un eccesso di temi amorosi
che danno la caccia ai nostri volti
nel vano immenso di una scala,
lungo la paziente materia di un corridoio.

scriverti che piove
per metterci al rango di cosa,
di figure taglienti
nella gola delle parole.
quella pioggia che è una mattina immobile,
un vento che bagna,
un cielo scandalosamente terreno.

scrivere perché qualcosa
resti illeggibile.

di noi senza rimedio,
la sola ragione
(quell’unica ombra)
per cui siamo qui

[quinto frammento concreto dal vivo]

a)

scrivere poi
i tuoi capelli sul cuscino
questa mattina, figure intente
a prosciugarsi, ripetutamente,
finiscono per cadervi svelti,
i tuoi capelli, e quasi privi di pensieri,
sopra le sponde mattiniere e dentro
le prime panchine, perché qui
il lago ha le sue maree, e tutte
le facce distratte dei fogli sopra i quali
scriviamo poesie

b)

ed i tuoi capelli
svelti e quasi privi di pensieri
questa mattina, come
l’aprirsi di una mano, maree
alle finestre senza appassire
la mattina dei tuoi capelli
sul cuscino spalancato ed
i gesti per prendervi il cuore

c)

i tuoi capelli questa mattina
sono un libro che ho scritto
sotto altro nome, coperto da
quelle maree che qui ha il lago,
a velocità uguali e costanti,
come le altre facce di un foglio
che asciugano su un un pontile,
quel punto della voce, il mio
ed il tuo nome, chiamato a scriverci

d)

quasi io leggessi
che qui il lago ha le sue maree,
regolate dalle formule che scrivono
i tuoi capelli sul cuscino, disegni che
indovinano la posizione improvvisa
di una macchia sulla parete o nell’
affettuoso l’aprirsi di una mano
dove muoiono i vetri delle nostre finestre

(4 appunti, questa mattina)

(titolo d’inverno)

[quando sparisci ti spogli
che il tuo seno è
un mare di tempo, e
nient’altro di me dentro
la frequente erotica bellezza
del mondo, ma lentamente]

(appunto improvvisato d’agosto)

si fermava affinché potesse andare. e poi gli anni di una casa, una finestra sopra una piccola sedia, la schiena dei colori, il ciglio dei prati incontro al vento, una voce nelle mani come un seno che lo tocca, orti brevissimi di ringhiera sul lago, qualche favola prima di cena e un po’ di buio nelle ore assolate, tutta quella frutta dei capelli di lei mai a picco sul mare, il poco universo sotto gli occhi chiusi che faceva l’azzurro sterminato del cielo.

tutto questo gli restava, soltanto quello.
il permesso di un viso

29

le nostre dita lentamente, e le mani in una struttura
complessa di accelerate solitudini, la concretezza
di una probabilità su nessuna probabilità, il tema
pallidissimo delle braccia. le A delle nostre gambe
divaricate ed il loro modo di scrivere ti scriverò, i rami
senza traiettoria che cadono dalle foglie, gli indumenti
in un pomeriggio di sole bagnati dal vento, le lingue che
ci percuotono la volta piovosa dei palati, il montaggio terreno
di una sera bianchissima, i polsi analfabeti che si raccomandano
alla pelle delle labbra, un’opera d’arte mai presa in
considerazione che assume la ben nota forma
della nostra bocca, senza precedenti e lentamente
Pier Maria Galli