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I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Alda Merini

La poesia che ho scelto, a mio avviso, è una delle più belle e significative della poetessa dei Navigli. E’ tratta da Testamento, raccolta edita da Crocetti nel 1988, nella cui prefazione Giovanni Raboni parlò dei versi della Merini come di “crepe istantanee e terrificanti, bagliori di un altro mondo”. Rappresenta quasi un manifesto poetico, in essa infatti si mette in evidenza il ruolo del poeta : egli lavora di notte perché l’atmosfera notturna è misteriosa, silenziosa, affascinante, foriera di ispirazione. Si tratta in effetti di un momento proficuo e favorevole alla scrittura perché tace il rumore della folla, il tempo sembra sospeso, tutto tace, la razionalità dello scrittore viene per un attimo messa da parte ed emerge l’interiorità del poeta. Data l’assenza di luce e di rumori, il poeta diventa un rapace o un usignolo dal dolcissimo canto, diviene dunque cantore dell’anima, dà ordine al magma che fuoriesce da sé. Durante il giorno qualsiasi istinto o estro è sopito e trattenuto, la notte invece rappresenta un rifugio capace di trasportarlo in una dimensione senza tempo, lontano da sguardi indiscreti. I poeti, gli unici in grado di cogliere quelle sensazioni indefinite che solo la notte sa donare, temono di offendere la divinità di turno, ma non sanno che quando scrivono sarebbero in grado di produrre un silenzio più fragoroso di una cupola dorata di stelle. La poesia del resto è una forma espressiva che presuppone una condizione di silenzio,  per sua natura infatti è in antitesi rispetto allo stress e al caos. Dal momento in cui uscì la raccolta Testamento, iniziava per la Merini un crescendo mediatico che ad un certo punto divenne incontrollabile. Tutti quei riflettori accesi su di lei da una parte hanno permesso alle sue poesie di raggiungere un pubblico piuttosto vasto e al suo pubblico di raggiungere lei ; dall’altra hanno accresciuto le invidie e la diffidenza di molti intellettuali nei suoi confronti. Certamente gli ultimi anni, il successo finalmente raggiunto dopo il dramma dell’internamento, l’hanno risarcita di molta sofferenza. Peccato che molte sue poesie, anche quelle non riuscite, perché capita a tutti di scriverne così, anche alla Merini, siano state prontamente pubblicate. Da quanto ho letto nel web, negli ultimi anni della sua vita pare che bastasse farle una telefonata e implorarla per ottenere una poesia sotto dettatura, spesso anche a interlocutori sconosciuti o appena incontrati. Di conseguenza è incommensurabile la quantità di testi attribuiti alla poetessa. Anche le edizioni stampate  o private spesso pubblicate da editori diversi, contengono versioni diverse della stessa poesia o addirittura dediche a persone differenti, a volte per rimaneggiamenti dell’autrice, altre per interventi arbitrari degli editori. Un valido tentativo di mettere ordine nella produzione della Merini è stato compiuto da Ambrogio Borsani che nel 2010, per Mondadori, ne ha curato l’opera omnia di 1040 pagine, intitolata Il suono dell’ombra. Setacciando bene e scandagliando nella sua ingente produzione, la Merini ha scritto delle vere e proprie perle di poesia, come questa appunto. Del resto aveva cominciato a scrivere poesie durante l’infanzia: aveva dieci anni quando vinse il premio Giovani Poetesse Italiane, consegnato dalla regina Maria Josè in persona. Grazie alla sua insegnante di Italiano nella scuola di Avviamento al Lavoro, fu in quegli anni che incontrò Romanò e Spagnoletti. Frequentando la casa di quest’ultimo, ebbe modo di conoscere letterati e intellettuali del tempo come Maria Corti, David Maria Turoldo, Giorgio Manganelli, con cui visse una grande passione, Luciano Erba. Il vero scopritore del suo talento poetico però fu proprio Giacinto Spagnoletti che nell’antologia Poesia italiana contemporanea 1909-1949 pubblicò i due testi Il gobbo e La luce. In seguito più volte le varie antologie di Scheiwiller o di Spagnoletti accolsero suoi testi. Dopo la pubblicazione di Tu sei Pietro che ottenne il premio Gambarogno, iniziò un lunghissimo silenzio, nonostante la Merini proponesse le sue opere infatti ricevette diversi rifiuti. Nei quattordici anni successivi internamenti più lunghi si alternarono a brevi periodi di dimissioni fino a quando nel 1979 venne definitivamente dimessa e ricominciò a scrivere. Descrisse la sua esperienza nell’ospedale psichiatrico in quello che da molti è ritenuto il suo capolavoro, La Terra Santa e in prosa ne L’altra verità. Diario di una diversa. Finalmente ricevette importanti riconoscimenti pubblici fino alla sua morte, avvenuta nel 2009. Come scrisse la Corti, spesso scriveva a scopo liberatorio, di getto, su consiglio dei medici e in questo modo nacquero alcuni testi poetici di grande valore e altri più comunicativi. Mi piace pensare però che ogni volta che la Merini scriveva lo abbia fatto di notte, “quando tace il rumore della folla / e termina il linciaggio delle ore”, in un tempo sospeso che apparteneva solo a lei, a lei soltanto.

Deborah Mega