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L’amore rubato…muore… di Rosa Colacoci

 

Guardami: sono nuda. Dall’inquieto

languore della mia capigliatura

alla tensione snella del mio piede,

io sono tutta una magrezza acerba

inguainata in un color avorio.

Guarda: pallida è la carne mia.

Si direbbe che il sangue non vi scorra.

Rosso non ne traspare. Solo un languido

palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.

Vedi come incavato ho il ventre. Incerta

è la curva dei fianchi, ma i ginocchi

e le caviglie e tutte le giunture,

ho scarne e salde come un puro sangue.

Oggi, m’inarco nuda, nel nitore

del bagno bianco e m’inarcherò nuda

domani sopra un letto, se qualcuno

mi prenderà. E un giorno nuda, sola,

stesa supina sotto troppa terra,

starò, quando la morte avrà chiamato.

 

Antonia Pozzi, Canto della mia nudità, 1929

 

In questa carrellata di rose di poesia non poteva mancare l’intensa lirica di oggi, scritta da Antonia Pozzi nel 1929, per accompagnare la quale ho scelto uno scatto artistico molto adeguato e gentilmente concesso, L’amore rubato…muore… della talentuosa fotografa tarantina Rosa Colacoci.

Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912 e cresce in un ambiente colto e raffinato poiché figlia di un importante avvocato e della contessa Sangiuliani, pronipote di Tommaso Grossi. Sarà Pasturo (Lecco) dove la famiglia acquista nel 1917 una casa settecentesca, a rappresentare il luogo cardine, come disse Anceschi, della sua «geografia lirica».  Nel 1927 presso il liceo Manzoni conosce e resta affascinata dal suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, dalla sua moralità ed eccezionale cultura e con il quale scopre di avere molte affinità: l’amore per l’arte, per la poesia, per la letteratura, per il bello. L’amore sarà intenso ma tragico e impossibile perché ostacolato dalla famiglia di lei tanto che Cervi interromperà bruscamente la relazione nel 1933.

Nel 1930 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo milanese e vi si laurea nel 1935; in questi anni conosce i fratelli Treves, Vittorio Sereni, Maria Corti, Alberto Mondadori, Mario Monicelli. La disponibilità economica le permette di avere i migliori testi della letteratura europea e americana, perfino quelli proibiti dal fascismo. Avverte con angoscia il difficile clima italiano ed europeo dei suoi anni; le leggi razziali del 1938 infatti colpiscono e costringono all’esilio alcuni tra i suoi amici più cari. Durante gli anni del liceo e dell’università sembra condurre una vita normale per una giovane di rango alto-borghese come lei. Viaggia all’estero, si dedica alla poesia, alla musica, alla scultura e alla fotografia: è affascinata dalla natura, dalla montagna dove compie numerose escursioni e scalate e cerca di cogliere con l’obiettivo, il sentimento nascosto di persone e cose. I suoi scritti con le loro doti di linearità e chiarezza appaiono quasi poesie per immagini, rappresentano infatti la sua capacità di fotografare il reale, di fissarlo in istantanee capaci di cogliere il senso nascosto delle cose. Nel 1937 la Pozzi comincia a insegnare materie letterarie presso un istituto tecnico di Milano, nel tentativo di emanciparsi dai genitori. Durante l’estate del 1938, a Pasturo si dedica a traduzioni e a primi tentativi in prosa tanto da progettare la stesura di un romanzo. La normalità però è solo apparenza, la Pozzi vive un costante dramma esistenziale che nessuna attività riesce a placare. Così il 2 dicembre del 1938 saluta i suoi studenti e dopo aver raggiunto in bicicletta l’abbazia di Chiaravalle, ingerisce una massiccia dose di barbiturici e si stende, nuda, su un prato della campagna intorno a Milano. La famiglia negò il suicidio e attribuì la sua morte a polmonite; il padre manipolò anche le sue poesie e i suoi scritti, fino ad allora inediti. La lirica Canto della mia nudità tratta il tema della nudità fisica e psicologica; l’offerta di sé, nuda e totale, sembra restare priva di risposta, sarà accolta infatti solo dalla morte. Questo scriveva infatti la Pozzi a proposito della sua volontà di donarsi. “Il mio disordine. E’ in questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile. […] Donarsi è abdicare alla propria personalità.
L’autrice si presenta dalla capigliatura fino ai piedi come caratterizzata da una magrezza acerba, in una guaina di color avorio da cui non traspare il sangue, pallida come se il sangue non vi scorresse. Solo in mezzo al petto appare un palpito azzurrino. Ginocchia, caviglie e giunture sono scarne ma salde come quelle di un purosangue. L’altro tema che emerge nella chiusa è quello della solitudine: un giorno si inarcherà se troverà l’amore e un altro resterà nuda e sola, sotto troppa terra, quando la morte l’avrà chiamata. In questa lirica oltre alla disperata rassegnazione emerge la potenza dell’aggettivazione usata, quella riferita ad aspetti fisici di se stessa e di parti del corpo (nuda, snella, acerba, pallida, languido, incavato, incerta, scarne, salde) e quella riferita ad aspetti più psicologici da cui traspare inquietudine, tensione, languore, solitudine. Come è avvenuto a molte altre scrittrici, il suo talento non fu sostenuto e valorizzato; la Pozzi infatti è stata riscoperta solo da pochi anni. Anche il fatto di nascere nell’alta borghesia milanese da una parte le ha permesso di studiare e di viaggiare ma le ha impedito di amare chi e come avrebbe voluto. Anche gli idilli successivi mai pienamente vissuti furono causa di amarezze e delusioni, sia quello con Remo Cantoni che quello con Dino Formaggio. Infine pare evidente che la spinta al suicidio si nasconda proprio nei suoi versi: «Per troppa vita che ho nel sangue tremo nel vasto inverno…». Così è stato.

Deborah Mega