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Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo.

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Curzio Malaparte, La pelle, Aria d’Italia, 1949

L’incipit di oggi è tratto dal romanzo neorealista a sfondo autobiografico La pelle di Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erich Suckert (1898 – 1957), scrittore e giornalista italiano dallo stile  immaginifico.

Malaparte nacque a Prato nel 1898 da madre italiana e da padre sassone, frequentò il liceo classico Cicognini, lo stesso frequentato da D’Annunzio. Interventista nella Grande Guerra, partì volontario a sedici anni, fu  ammiratore di Mussolini e partecipò alla marcia su Roma. In questi anni diresse alcune case editrici tra cui La Voce di Prezzolini, successivamente si allontanò dal regime; dopo l’8 settembre 1943 si arruolò nell’Esercito Cobelligerante Italiano del Regno d’Italia e collaborò con gli Alleati nella lotta contro i nazisti e i fascisti della RSI. Fu co-direttore della Fiera Letteraria e direttore del quotidiano La Stampa di Torino e successivamente inviato del Corriere della Sera.

Nel secondo dopoguerra si avvicinò al Partito Comunista Italiano, stringendo amicizia con Palmiro Togliatti. Nel 1936 fece costruire a Capri, la suggestiva “Villa Malaparte”, che, arroccata su una scogliera a strapiombo sul mare, divenne ritrovo di artisti e intellettuali ed uno dei più esclusivi salotti mondani del periodo. Morì dopo essersi convertito alla Chiesa cattolica. Lo pseudonimo, che usò dal 1925, fu da lui ideato come paronomasia di “Bonaparte”. Caratteristica della sua letteratura è la mescolanza di fatti reali, spesso autobiografici, ad altri immaginari, talvolta esagerati fino ai limiti del grottesco. Il romanzo, uscito in forma provvisoria sulla rivista francese “Carrefour” alla fine del 1947, pubblicato nel 1949 presso le edizioni «Aria d’Italia», e nuovamente riproposto da Adelphi, si basa sulla sua esperienza di giornalista e ufficiale durante la seconda guerra mondiale: vi è descritto l’arrivo delle forze di liberazione americane a Napoli e il profondo stato di prostrazione della città partenopea nei giorni della Liberazione. Il titolo originale doveva essere La peste, ma venne cambiato per l’omonimia con il romanzo di Albert Camus, uscito nel 1947. L’opera, piuttosto realistica e caratterizzata da crude descrizioni di vita quotidiana, talvolta sconfinanti nel grottesco, nel macabro e nel surreale, venne messa all’Indice dalla Chiesa cattolica. Prima dell’incipit de La pelle, Malaparte appose la seguente dedica:

« All’affettuosa memoria del Colonnello Henry H. Cumming, dell’Università di Virginia, e di tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa. »
Definito da Gobetti “la più bella penna del fascismo” Malaparte fu un personaggio discusso dal punto di vista letterario e umano perché voltagabbana, provocatore e amante dei colpi di scena. I suoi cambiamenti politici, specialmente l’ultimo verso il comunismo, attirarono le critiche di larga parte della cultura italiana per la disinvoltura con cui mutava l’appartenenza ideologica e politica: era noto il suo comportamento 
istrionico e provocatorio, l’egocentrismo e narcisismo  di cui spesso venne accusato e che fece dire a Leo Longanesi: “A un matrimonio vuole essere la sposa, a un funerale il morto”.Come epigrafe al libro, utilizzò altre due frasi: una di Eschilo («Se rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno», riferimento critico al comportamento degli Alleati nei confronti della popolazione italiana e dei prigionieri tedeschi); l’altra di Paul Valéry. La sua prosa si collega alla tradizione europea di Proust, di Zola, di Maupassant e allo stesso tempo postmoderna:  Milan Kundera definisce il romanzo un “arciromanzo” e lo colloca tra le maggiori opere letterarie del Novecento.

La Napoli misera e devastata, occupata dagli americani, è raccontata da Malaparte attraverso una galleria di orrori nella quale i soldati vivi indossano le divise insanguinate dei soldati morti, i padri prostituiscono le loro figlie ai vincitori e poi vi sono descritti l’infamia, il tradimento, l’assassinio. Lo stile è quello del reportage, della cronaca storica e richiama Gomorra di Roberto Saviano. “Erano i giorni della peste di Napoli”, scriveva Malaparte nell’incipit e la peste era da intendersi come malattia dello spirito: “non è più la lotta per la libertà, per la dignità umana, per l’onore… oggi si soffre e si fa soffrire, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle”. Ne emerge il ritratto terribile di una Napoli lacerata e disumana, «nuda come l’antica metropoli mediterranea, medievale, rinascimentale, spagnolesca, rinascimentale e barocca, decadente e detritica, priva di una pelle che copra e dia forma alla straziata umanità pulsante del suo corpo sventrato». Napoli diventa metafora dell’intera Europa, il Vesuvio la forza purificatrice in grado di debellare il morbo penetrato nella civiltà europea.

Deborah Mega