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Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.
Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l’orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.
Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna,
e già così presso agli scogli
sai la tua fragile barca –
venite, disserrate le labbra,
chi parla non è morto.
Gottfried Benn, trad. Ferruccio Masini
Gottfried Benn, nato a Mansfeld nel 1886, morto a Berlino nel 195, è stato poeta scrittore e saggista di lingua tedesca. Laureatosi in medicina all’ Accademia di Berlino nel 1910, appena due anni dopo esordì in letteratura con la sua prima pubblicazione, dal titolo di “Morgue e altre poesie” (morgue è il termine francese per indicare l’obitorio). La raccolta di poesie è caratterizzata da un linguaggio medico – scientifico, da descrizioni cadaveriche, narrazioni di malattie e corruzione dei corpi.
Prima di Benn, “Morgue” è una raccolta di Rilke che Benn certamente aveva letto, compiendo un balzo in avanti, verso i giorni nostri, nella raccolta Morgue di Benn si respira un’atmosfera molto simile a quella rappresentata in alcune scene di serie televisive di grande successo come CSI NSIS, acronimi per indicare a polizia scientifica di Las Vegas o Miami o altre grandi città americane dove sono ambientati gli episodi d’investigazione. Esse hanno ingenerato negli spettatori, una sorta di familiarità “mediata” con la sala autoptica, con i gesti e le operazioni, i referti dei professionisti che procedono alle dissezioni e ricomposizioni dei cadaveri.
Oggi perciò scrivere poesie descrittive ispirate all’esperienza medica di questo tipo farebbe molto meno scalpore, ma allora, agli inizi del 900, il libro fece scandalo e Benn entrò così nel mondo letterario della Berlino del 1910, diventando riconosciuto esponente dell’espressionismo; in quel periodo conobbe la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler con la quale ebbe una relazione.
Certo non è difficile immaginare che “Morgue” sia il frutto dell’esperienza professionale di Benn. Un impatto che squarciò la scorza lasciando fuoriuscire il magma creatore, trasformando il medico in scrittore, in una sorta di metamorfosi/catarsi purificatrice dell’impressione che l’orrido, la materialità di carne e sangue decomposti avevano prodotto sull’ uomo. Nel contempo sorprende come, nonostante il tema, Benn gestisca, sin da questa prima raccolta, la parola, rivelando una rara capacità di creare dal nulla scenari tanto luminosi che raccapriccianti, di modulare la lingua con quella padronanza che sa produrre piacevolezza di suono, purezza di significato in una sorta di inesprimibile azzurro: raggio laser che incide.
Nel 1926 scrisse il racconto – saggio “Cervelli”, nel 1917 pubblicò “Carne” una raccolta di liriche scritte durante le seconda guerra mondiale. L’evoluzione della sua scrittura registra il passaggio dal nichilismo, dissacrazione dell’uomo e critica della civiltà, che caratterizzano la sua prima produzione, all’esaltazione dell’io tragico che ha speranza di riscatto nell’io primordiale dell’uomo, un io in sintonia con la natura che, secondo Benn, riaffiora nel sogno dove sono neutralizzate razionalità e sovrastrutture.
Scrisse ancora “Scissione” e “Onda ebbra” nelle quali nonostante la nostalgia per l’essere originario e prelogico egli si esprime con razionalità ferrea manifestando una sicurezza e ricchezza espressiva che si rivelano in contraddizione con l’anelito al mito primordiale. Egli perciò si rende conto di dover superare lo iato ed afferma che la fusione di concetto e allucinazione, razionalità e sogno, produce arte, progredendo quindi dall’iniziale nichilismo verso la consapevolezza di una trascendenza creativa.
Proprio per questa nostalgia dell’uomo primordiale e del mito, all’avvento del nazismo Benn se ne lasciò affascinare, nella convinzione che si trattasse di una forza potente e irresistibile, votata all’estetica e rigenerante, che avrebbe ripristinato il valore della forma e realizzato, attraverso il totalitarismo, la sovrapposizione di potere e spirito, individuo e collettività. Il regime inizialmente apprezzò il suo entusiasmo, affidandogli l’incarico di gestire la sezione poesia dell’Accademia di Prussia. Poco più di un anno dopo però, Benn fu rimosso dall’incarico e allontanato, a causa di alcuni suoi scritti giovanili vicini al movimento espressionista, represso dal nazismo perché “arte degenerata”. Egli allora aprì gli occhi sulla realtà del nazismo.
Probabilmente il suo entusiasmo iniziale per il fascismo (come si è detto: collaborazionista che non ha mai collaborato) fu l’errore imperdonabile che ha impedito a Benn di occupare nello scenario della letteratura tedesca il posto che la sua potente ricca, espressiva scrittura avrebbe meritato. Fu scienziato, intellettuale, esteta, aristocratico. Usò magistralmente il linguaggio in modo nuovo, originale, intellettualmente superiore, facendo ricorso a molti sostantivi, stratificando versi, usando la parola per scardinare la realtà con cinismo, fin quasi crudeltà. Certe sue liriche indubbiamente sono tra le più spietate che la letteratura del 900 ci abbia regalato, ma, anche per questo, dense di coraggio, lontanissime dal plagio, dal compiacimento, permeate di una certa violenza verbale e rabbia che nascono dalla consapevolezza e avversione per la decadenza sociale. Una poesia definita “assoluta”, senza Dio, senza speranza o salvezza, che trasuda piacere creativo, procede per associazione di idee, lacera la propria essenza e travalica i contenuti morali o filosofici per essere solo forma ed espressione.
Fu anche scrittore di saggi, racconti e romanzi tra i quali “L’osteria Wolf”, “Romanzo del fenotipo”, “Il tolemaico”, scritti negli anni 40, oltre che di una autobiografia dal titolo “Doppia vita”. “Frammenti e distillazioni”, “Aprèslude”, “Giorni primari” sono le sue ultime raccolte poetiche.
La poesia che ho scelto in questa forma alchemica, mi sembra ben rappresenti quanto appena detto sulla scrittura di Benn. Irresistibile l’ invito a parlare, perché chi parla non è morto, dice Benn, parola che ci rende vivi, perché è così che l’io diventa noi e noi viviamo solo disserrando le labbra nella parola che ci sopravvive.
Chiudo questa forma alchemica con un’altra poesia che questa di Benn mi riporta alla mente. La poesia è di Arthur Rimbaud, tra le due non c’è apparentemente molta relazione, ma non escludo che Benn avesse letta quella di Rimbaud prima di scrivere la sua. Entrambe sono metapoetiche, cioè poesie che hanno ad oggetto la poesia, in entrambe sono citati i colori. Una citazione che, nella solenne, comune, potente drammaticità dei testi produce un singolare effetto straniante, di vivacità e illuminazione, evocando, nel contempo, sinesteticamente un ventaglio di sensazioni, sostantivi, scenari potenzialmente esprimibili in poesia.
Loredana Semantica
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Un giorno dirò la vostra origine segreta:
A, corpetto nero e peloso di mosche lucenti
ronzanti intorno a esalazioni crudeli
Golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori,
Lance di ghiacciai fieri, bianchi re, tremori d’ombrelle
I porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
Nella collera o nell’ebbrezza che si pente
U, cicli, vibrazioni divine di mari verdi,
Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
Che l’alchimia incide su ampie fronti da studiosi;
O suprema Tromba piena di strani stridori
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi
O l’Omega, raggio viola dei Suoi Occhi!
Arthur Rimbaud
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