Di tanto vivere è l’ultima opera in versi di Anna Maria Bonfiglio, edita da Caosfera nella collana Alabaster. Fin dai primi versi è possibile rendersi conto della qualità dell’offerta poetica indubbiamente dovuta ad una ricca formazione e ad un’assidua frequentazione della poesia. La silloge si articola in diverse sezioni: Discorsi di 27 componimenti, Stanze di 12, Atterraggi di 11, Miserere di 11. I vari testi appaiono d’immediato impatto comunicativo, vi avverto, fin dalla prima lettura, l’elegantissima nobiltà della forma e l’incanto di sensazioni sottili. La poesia è gremita di oggetti espressi in un ricco plurilinguismo espressionista che mira a comporre una lirica prosastica. Una puntualità lessicale al limite del tecnicismo persegue una poetica dell’oggetto evocativa e visionaria. Le formule sono assertive, eloquenti, nette, spiazzanti perché spontanee ma allo stesso tempo sempre finemente cesellate. Il controllo della forma è evidente mentre, dal punto di vista del contenuto, colpisce l’inconsueto contrasto tra partecipazione sentita e distacco controllato che mira a sublimare ed equilibrare la materia poetica.
Diversi sono i riferimenti culturali presenti, Bonfiglio attinge a piene mani al proprio patrimonio interiore, ai ricordi, agli affetti. A mio avviso sarebbe un errore leggere ciascuna poesia separatamente, oltre che da un suono all’altro, è evidente infatti il richiamo da una poesia all’altra. L’elemento di coesione e di uniformità è il carattere narrativo, l’apertura metrico-stilistica verso la prosa che connota la raccolta e che ricorda il flusso di coscienza introdotto da Virginia Woolf, metafora esistenziale dell’atonia e dell’aridità dell’uomo moderno. Il testo d’apertura Canto minimo appare già una dichiarazione d’intenti, si vive l’età del disincanto mentre si fondono passato e presente, riflessione e sentimento, mentre sogneremo l’ennesima evasione/saltellando fra i cactus quotidiani. La poesia coinvolge e cattura il lettore, oggetto del tu, interlocutore di montaliana memoria; anche la mitologia, più volte richiamata, esercita il suo potere di coinvolgimento e condivisione di reminiscenze classiche.
I Discorsi sono bozzetti descrittivi, resoconti a volte tutti interiori di stati d’animo e di esperienze di vita. Le Stanze rappresentano una sorta di topos ou-tòpos, un “nessun-luogo” cioè uno spazio non spazio, luogo che offre il conforto della solitudine, della meditazione e dell’osservazione, in cui il poeta si isola per creare una condizione ottimale che gli permetta di interagire con il mondo delle idee, quel tessuto di visioni e immagini che rappresentano il rovescio della trama del reale. La stanza rappresenta anche lo spazio della dinamica interiore da cui si origina la parola poetica e infine la forma che assume, tramutandosi in scrittura. Gli Atterraggi rappresentano invece i resoconti delle offese e dei furti subiti ma anche di quelli arrecati inconsapevolmente, le ingannevoli previsioni astrologiche di amuleti e cartomanti, il crollo di ogni certezza per l’amore che / non verrà / ad ornare/ di muschio e di corallo / l’orlo del pozzo. La sezione finale, Miserere, raccoglie invece le lamentazioni che rievocano drammatiche tragedie di migranti, il giorno della memoria, l’esecuzione capitale di Reyhaneh Jabbari, colpevole di omicidio per legittima difesa, dopo aver subìto violenza dal suo aggressore, l’uccisione a Teheran durante una manifestazione pacifica di Neda Agha Soltan. In versi musicali sempre controllati dal punto di vista formale, in linea con la migliore tradizione classica, l’autrice riesce a congiungere la leggerezza e la scorrevolezza visionaria con una profondità di sentimenti ed emozioni che coinvolgono il lettore attraverso la suggestiva potenza espressiva di metafore e personificazioni. Cosa resta dunque di tanto vivere? Senza dubbio alcuno la parola.
© Deborah Mega
*
Canto minimo
Ora che la vita stride nelle ossa
ammalorate
la viola incide l’arco minimale
del canto che vorrebbe lievitare.
E l’accompagna un suono
come d’incanto
un incendio che esplode e si fa verso.
Venne sull’ala ubriaca della notte
la voglia di cantare
e fu subito festa
distesa geometria di voli
impennati all’albero più alto
un gioco pazzo
di cui t’accorgi tardi e che tradisce
segreto che ti sguscia dalle mani
prima dell’allegria, prima del sogno.
Abiti la più nuda fra le case
vesti la più impossibile menzogna
e ti fai strada chiusa
anello inciso di desideri e date
età del disincanto
stella che irradia inutili bagliori
profeta di stagioni di declino.
A ricomporre il cerchio
Più triste sulla pietraia
il passo
dopo la canzone degli abbracci
e la parola ombra sul filo
dell’assennata verità
(dell’indagata geometria
alga segreta
nei discoperti contorni)
Non basta a ricomporre
il cerchio
la misura del volo
il cappio sciolto
il ramo di ginestra
ad infiorare il seno.
*
Assenza
Forse è naturale consegna
quest’assenza che nessuno reclama –
l’ombra solo a me visibile
negli occhi di chi mi parla.
L’azzurro è svolato
verso cieli che ignoro
la notte è segreto
che taglia il respiro.
Ovunque, la pena.
Attendere lune chiare
fra i rami secchi del platano
mentre tu navighi altre barche
e tendi a svalutare
l’oro del mio cuscino.
Svegliarsi e sentire
la vita che torna –
un grembo profondo
per nascere ancora.
*
L’apparenza
Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata
e l’inversione.
*
Minimo ed infinito
Lasciatemi tutti i miei fiori finti
il mio salotto retrò
il Pupo antropomorfo
róso da ragnatele autarchiche.
Li chiamo per nome uno per uno
uomini e cose e piccole creature
del minimo mio bosco ed infinito
– senza confini e reti –
nell’inquietezza di perdere
il loro nome e il volto
nella cupa foschia di un tempo morto.
*
Un distacco
Qualche volta si muore –
di silenzio o di parole che non vuoi sentire
e non ti basta
sapere che nell’ombra del distacco
s’annida ancora un rantolo di vita.
Si può morire
per una foglia secca e calpestata
per l’anòdino unguento di un ricordo
si può morire cento e cento volte
nelle frasi banali di un saluto.
Altra cosa
saperti per i viali di Mondello
o in un bar del centro di Palermo
(una canzone ruffiana e caffè freddo
aspettando le brume)
Fra due c’è sempre uno
che resta appeso al gioco degli abbracci
(e non sai s’è meglio andare o rimanere)
La nave ha già mandato i tre segnali:
ci salutiamo con occhi di sale
e ricami d’amore sulla pelle.
Quelli che noi non siamo
vivranno in episodi ricorrenti
la realtà dicibile –
l’altra è un sussurro
che sfiata dalla mia alla tua bocca.
Non ti chiedo neppure cosa sono
nella tua vita di ferite e rughe.
Ti leggo sulle mani
i segni dei ritorni ripetuti
e so che sei per me pianto e carezza
stazione provvisoria ove si torna
mosca impazzita
nel dedalo dei sogni capovolti.
Anna Maria Bonfiglio, Di tanto vivere, Caosfera Collana Alabaster, 2018
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