• ABOUT
  • CHI SIAMO
  • AUTORI
    • MARIA ALLO
    • ANNA MARIA BONFIGLIO
    • EMILIO CAPACCIO
    • MARIA GRAZIA GALATA’
    • ADRIANA GLORIA MARIGO
    • DEBORAH MEGA
    • FRANCESCO PALMIERI
    • ANTONELLA PIZZO
    • LOREDANA SEMANTICA
  • HANNO COLLABORATO
    • ALESSANDRA FANTI
    • MARIA RITA ORLANDO
    • FRANCESCO SEVERINI
    • RAFFAELLA TERRIBILE
    • FRANCESCO TONTOLI
  • AUTORI CONTEMPORANEI (letteratura e poesia)
  • AUTORI DEL PASSATO (letteratura e poesia)
  • ARTISTI CONTEMPORANEI (arte e fotografia)
  • ARTISTI DEL PASSATO (arte e fotografia)
  • MUSICISTI
  • CONTATTI
  • RESPONSABILITÀ
  • PRIVACY POLICY

LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Anna Maria Bonfiglio

LA POESIA PRENDE VOCE: MARIA PIA QUINTAVALLA, ANNA MARIA BONFIGLIO, PATRIZIA SARDISCO, GIOVANNA ROSADINI, ALBA GNAZI

08 mercoledì Mar 2023

Posted by maria allo in La poesia prende voce, Podcast

≈ Commenti disabilitati su LA POESIA PRENDE VOCE: MARIA PIA QUINTAVALLA, ANNA MARIA BONFIGLIO, PATRIZIA SARDISCO, GIOVANNA ROSADINI, ALBA GNAZI

Tag

Alba Gnazi, Anna Maria Bonfiglio, Giovanna Rosadini, Maria Allo, Maria Pia Quintavalla

La poesia prende voce

DONNE IN POESIA

Maria Pia Quintavalla

Maria Pia Quintavalla, autrice del testo ” I tuoi foulard” tratto dal video del regista Giorgio Longo

fotografo Michele Corleone

Anna Maria Bonfiglio

poesia “Canto Minimo” di Anna Maria Bonfiglio, da “Di tanto vivere”, Caosfera, 2018, legge la stessa autrice

Patrizia Sardisco

poesia di Patrizia Sardisco, da “Sìmina ri mmernu”, Cofine 2021 ( pag.21), legge la stessa autrice

Giovanna Rosadini (ph. di Dino Ignani)

poesia “Ritorna la mia luna” di Giovanna Rosadini, da “Unità di risveglio” , Einaudi, 2010, legge la stessa autrice

Alba Gnazi

poesia di Alba Gnazi da “In quel minimo che cade”, Il convivio Editore (2021), legge la stessa autrice

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Una vita in scrittura: Anna Maria Bonfiglio

01 mercoledì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Una vita in scrittura

≈ Commenti disabilitati su Una vita in scrittura: Anna Maria Bonfiglio

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Una vita in scrittura

omaggio a un poeta, Giorgione, 1505

Col titolo “Una vita in scrittura” Limina mundi avvia un’iniziativa partecipativa che, come dice lo stesso titolo, vuole mettere in luce quanta dedizione richiede la scrittura e quanto lega a sé diventando fulcro di un’esistenza, compagna di vita

L’iniziativa è rivolta ad autori che scrivono da tempo, che hanno quindi un’ampia esperienza in scrittura, una carriera letteraria alle spalle, possono testimoniare l’atto di fedeltà alla parola. E’ quindi  un invito, ma nel contempo un omaggio.

L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto”, il suo saper fare anche oltre l’atto della scrittura in qualunque ambito sente appartenergli: professionale, creativo, artigianale, degli affetti… senza limiti, in linea con lo spirito del sito.

Libertà anche nella forma: un racconto autobiografico romanzato, un “automatismo ritratto”, cioè un proprio ritratto in scrittura automatica, un flash su un episodio o persona importanti o significativi del proprio percorso,  un’intervista nella quale le domande sono formulate e le risposte sono date sempre dallo stesso autore, persino una singola poesia o raccolta di poesie che l’autore riconosce come “autobiografiche” sono modi possibili con cui cor-rispondere oppure rispondendo semplicemente alla domanda: Ci racconti la tua vita in scrittura?

L’invito è stato rivolto Anna Maria Bonfiglio che l’ha interpretato come segue

Grazie infinite, Anna Maria.

La scrittura è sangue che mi scorre nelle vene. Scrivere e leggere, leggere e scrivere sono stati i miei comandamenti ab ovo, e tuttavia più leggo e più scrivo, da cinquant’anni, più mi accorgo di essere una piccola cosa insignificante nella vastità di un mondo abitato da ben altre personalità. Ho iniziato dal basso, da carta e penna, per passare poi a carta e Olivetti Lettera 24 e infine a carta e pc. Il primo racconto che inviai ad una rivista era scritto a mano e naturalmente venne ignorato. Ero naive, sprovveduta e ingenua, ma continuavo a scrivere: poesie, pensieri, sfoghi, racconti, fino a quando nel 1978 vide la luce il mio primo libretto di poesie giovanili, ingenue, certo, ma molto vissute. Se c’è qualcosa che si ricorda più del primo amore è sicuramente il primo libro. Di questa emozione non posso e non voglio dimenticarmi mai. Poi vennero altri libri, e non solo di poesia, e pure una collaborazione giornalistica con novelle. Enumerare le pubblicazioni, i premi e i vari riconoscimenti non serve a nessuno, sono state solo tappe del mio percorso e presa di coscienza dell’importanza e della responsabilità che avevo, e ancora mi sento, nei confronti di una disciplina che si rivolge al pubblico dei lettori. E perciò considerai che avevo, e ho, il dovere di approfondire il mio studio con letture sempre più propedeutiche ad un possibile miglioramento.
Fra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta cominciai ad interessarmi alle attività culturali che avevano luogo a Palermo, dove vivevo e vivo, che era in quegli anni una città ricca di fermenti, dove fiorivano le associazioni e gli artisti, poeti, scrittori, pittori, musicisti, che si riunivano per leggere, ascoltare, esporre, suonare. All’interno di queste associazioni con il tempo ho ricoperto vari ruoli: nei consigli direttivi, nella stesura dei programmi culturali, nella conduzione di incontri e recital, nelle performances personali, nell’istruire a Palermo uno dei primi laboratori, se non il primo, di scrittura creativa. La scrittura, e la poesia in particolare, sono state per me la libertà e la possibilità di dialogare con interlocutori ignoti. Attraverso la poesia ho cercato il senso del mio vivere, ho provato ad arrestare il flusso migratorio delle emozioni vissute, ho tentato di vincere il vandalismo e le piraterie di cui l’essere umano è spesso vittima. Ma nel momento in cui ho deciso di renderla pubblica, la mia poesia mi è appartenuta solo in parte, perché il silenzio di cui si era nutrita si era fatto voce che chiedeva di essere ascoltata e dunque atto sociale e, se vogliamo, anche dono di sé. Andando avanti si spogliava del tono malinconico e solipsistico, dismetteva il suo abito in qualche modo autoreferenziale per cercare di avvicinarsi all’astrazione del simbolo universale in cui ciascuno potesse ritrovarsi, perché “il canto del poeta non appartiene a nessuno ma ciascuno può farlo suo”.

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Canto presente 52: Anna Maria Bonfiglio

03 giovedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Anna Maria Bonfiglio

CANTO MINIMO

Ora che la vita stride nelle ossa
ammalorate
la viola incide l’arco minimale
del canto che vorrebbe lievitare.
E l’accompagna un suono
come d’incanto
un incendio che esplode e si fa verso.

Venne sull’ala ubriaca della notte
la voglia di cantare
e fu subito festa
distesa geometria di voli
impennati all’albero più alto
un gioco pazzo
di cui t’accorgi tardi e che tradisce
segreto che ti sguscia dalle mani
prima dell’allegria, prima del sogno.

Abiti la più nuda fra le case
vesti la più impossibile menzogna
e ti fai strada chiusa
anello inciso di desideri e date
età del disincanto
stella che irradia inutili bagliori
profeta di stagioni di declino.

ASSENZA

Forse è naturale consegna
quest’assenza che nessuno reclama
l’ombra solo a me visibile
negli occhi di chi mi parla.

L’azzurro è svolato
verso cieli che ignoro
la notte è segreto
che taglia il respiro.

Ovunque, la pena.

Attendere lune chiare
fra i rami secchi del platano
mentre tu navighi altre barche
e tendi a svalutare
l’oro del mio cuscino.

Svegliarsi e sentire
la vita che torna ―
un grembo profondo
per nascere ancora.

IL TEMPO BREVE
(a Carmelo Pirrera, in memoria)

Dicemmo ci sarebbe stato tempo.
Eppure sapevamo
che alle nostre spalle
tramavano i pirati
che i giardini sarebbero sfioriti
e i campi maturato altro grano.

“Che tempo è, signore?”
“Tempo di solitudine, amico”

La pioggia di febbraio
ha sciolto il miele del tuo canto
e maggio sarà un mese come un altro
solo più lungo forse
e un po’ più solitario
senza colombe e glicini sui muri.

“Che tempo ora sarà, signore?”
“Tempo che fa più breve il nostro, amico”.

GIORNO DEI MORTI

Al mattino era la cerca agli angoli
più oscuri delle stanze ―
forse i Morti ci avrebbero premiati
entrando nella notte a piedi scalzi
o tramutati in misteriosi insetti.
La mosca, per esempio, era zio Gino ―
dieci anni ed una polmonite.

La nonna raccontava della guerra
da cui zio Raffaele tornò dopo
tanti anni dentro una teca lignea

(ombre del nostro immaginario
custoditi dai Lari della casa)

Lo scotto era salire alla collina
e pregare in ginocchio ―
mestizia a sacrificio
e per ringraziamento

Ci accompagnano ora altre assenze
brandelli scomposti della nostra vita
che un giorno ― pare ―
saranno ricomposti

nessuno sa se è vero.

IN ALTRO LUOGO
(a mio padre)

Muti d’abbracci i nostri giorni
si persero nel tempo di un respiro.
Vicini nella resa
ci prendemmo le mani
-fievoli le tue, percorse
da ingrossati rivi pallidi,
le mie rapaci, ancora a reclamare
crediti legittimi e insoluti.

E’ un’altra volta autunno
e nell’umida luce
che taglia il silenzio della stanza
torni anche tu
nella quietezza antica che mi manca.
Potessi avere almeno la certezza
di ritrovarti ad aspettarmi
-quando chiuderò per sempre la mia casa-
e insieme finalmente camminare.

L’APPARENZA

Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata
e l’inversione.

MATTUTINO

Sei tornato nel sonno
dell’ora mattutina
-piccolo dono estorto a mani avare-
e avevi sulla bocca
l’oro del tuo silenzio risolino.
Ti frugavo nel cuore con le mani
per trovare di me qualche frammento
una scaglia rimasta conficcata
nella tua carne d’uomo.

Poi ti oscurò la luce
e fu di nuovo giorno.

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

TRE DONNE

31 mercoledì Mar 2021

Posted by marian2643 in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su TRE DONNE

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Il profumo del mandorlo


ALBA

Dopo un inverno interminabile, flagellato da piogge e nevicate, finalmente era arrivato il sole. Dentro l’auto la temperatura era alta, nonostante dal finestrino aperto entrasse qualche refolo di vento. Era la prima volta che si incontravano, dopo un paio di mesi trascorsi nella burrasca di eventi che avevano turbato l’armonia della loro amicizia. Fra di loro, adesso, aleggiava un silenzio fatto di parole vuote, di frasi stereotipate, e infarcito di commenti banali sul traffico domenicale. Parole che nascondevano la paura di dire o di ascoltare altro da quel repertorio di idiozie che si stavano scambiando. Saveria guidava sbuffando, grattava le marce ed inviava occhiate preoccupate all’indicatore del carburante. Gloria mostrava il suo solito sorriso accomodante e tentava di distrarre Saveria dal suo nervosismo raccontando che aveva fatto la pulizia del viso, che la sua collega Gisella era affetta da una labirintite e che le piante del suo terrazzo si stavano riprendendo dopo le gelate subìte. Le piante (ma avrebbe potuto essere qualunque altra cosa) avevano riportato Diego alla mente di Alba. La floricoltura era un interesse che lui e Gloria condividevano, chissà quante volte Diego le aveva portato piantine e bulbi e aveva colto per lei le rose del suo piccolo giardino, così come una volta, non troppo tempo fa, le raccoglieva per lei, confidandole che raramente si risolveva a strappare i fiori dalle piante se non per casi eccezionali e assegnando al gesto un valore ben più grande di quello che gli si potesse attribuire. Emozionata, Alba s’inebriava al profumo di quel mazzetto di fiori e, appena appassiti, ne riponeva qualcuno fra le pagine di un libro. Chissà se anche Gloria conservava i cadaveri degli omaggi floreali di Diego.

            Fra strappi e frenate erano giunte sul viadotto San Michele. A destra, invisibile ma perfettamente delineato nella sua memoria, sorgeva il rustico di Diego, il loro rifugio; era il luogo della loro intimità, dove, dopo l’amore, restavano a parlare a lungo, di poesia, di esoterismo, di amici comuni. In uno di quei pomeriggi Diego aveva portato con sé un mazzo di tarocchi e aveva cercato di istruire Alba sulla loro simbologia. Le aveva raccontato di suo nonno, che “leggeva le carte” ed aveva avuto fra i suoi clienti nientemeno che Mussolini. Lei lo ascoltava e si appassionava ai racconti di lui, le si apriva la visione di un mondo infinitamente lontano da quello che era stato ed era il suo. Ora provava una fitta di nostalgia al pensiero che non avrebbe mai più ritrovato quelle ore rubate al monotono fluire delle sue giornate. E si diceva che era strano come quei gesti comuni potessero, in retrospettiva, apparire assoluti e insostituibili.

Imboccato il vialetto d’accesso, ecco la casa che Saveria e Gloria da due anni avevano preso in affitto per trascorrervi le estati. Mancavano da sette mesi, da quel settembre che le aveva viste, entusiaste, organizzare grigliate e country-party. Era stato durante l’ultimo di quei party che lei aveva avuto le prime avvisaglie di quello che sarebbe accaduto. Diego si era mostrato annoiato, manifestando attenzioni solo per Gloria. Alba si era accusata di essere la solita sospettosa, si rimproverava la sua mancanza di fiducia e la sua ossessione nei confronti di Diego.

            Dopo avere indossato i grembiuli e i guanti da giardinaggio, Gloria e Saveria si erano date da fare con zappe e rastrelli per sistemare le aiuole e piantare le nuove talee. Alba stava distesa sulla sdraio con il viso rivolto verso il cancello. Sul vialetto transitavano le macchine dei vicini e ad ogni passaggio lei trasaliva immaginando di stare aspettando Diego. Sapeva che non sarebbe successo, Diego non le avrebbe più raggiunte. La sua era diventata una presenza negata che pure s’imponeva con il peso dell’assenza. Forse ci sarebbe stata meno amarezza se fra loro tre avessero potuto parlarne, ma parlarne avrebbe significato sollevare la cortina dell’ignoto, aprire il vaso di Pandora ed essere pronte a sopportarne i venefici vapori.

Alba si domandava perché mai aveva acconsentito a trascorrere questa giornata proprio lì, dov’era più presente il ricordo delle recenti vicende, con Saveria e Gloria, testimoni e complici del sovvertimento che aveva investito la sua vita.

            Mentre Gloria si allontanava per una doccia, Saveria si dedicava alla preparazione del barbecue e, mentre spezzava legnetti e ammucchiava foglie secche, rivolgeva ad Alba uno sguardo affettuosamente indagatore: “Allora, come va?” E in questo interrogativo si affollavano una quantità di domande. Alba sapeva che Saveria avrebbe voluto aiutarla, che avrebbe voluto condividere il suo disagio e darle i giusti consigli, ma non voleva leggere nello sguardo e nelle parole dell’amica il larvato compatimento, preferiva sorriderle e dirle che andava tutto bene.

GLORIA

Quell’aria da vedova inconsolabile che aveva assunto Alba la irritava. Certo, avrebbe voluto farla sentire in colpa e lei detestava sentirsi in colpa. La rodeva la curiosità di sapere se stava ancora con Diego o se avevano rotto, ma Gloria era decisa a non cadere nella sua trappola. Temeva di lasciarsi prendere dal nervosismo e non voleva che succedesse, sarebbe stato fare il suo gioco. Sotto la doccia, mentre lasciava che l’acqua le scorresse addosso, pensava che  non era possibile far finta che non fosse successo niente e dimenticare le ore che lei e Diego avevano trascorso in quella casa. Era stata un’estate bellissima. Arrendersi alle attenzioni di Diego era stato sorprendente. Anche se aveva cercato di non prenderlo troppo sul serio, alla fine aveva vinto lui.

Alba e Saveria si stavano occupando del fuoco, le vedeva vicine vicine a parlottare. Immaginava che anche Saveria avrebbe voluto scavare nella sua vita e ricevere le sue confidenze. Quando aveva saputo di lei e Diego si era mostrata contenta, ma ora le sembrava che tutta la sua comprensione fosse per Alba. Perché alla fine sono i perdenti che stuzzicano quella parte pronta alla commiserazione, sono quelli che suscitano simpatia e per i quali si parteggia, ma Gloria a questa simpatia rinunciava volentieri, preferiva essere considerata fredda e inattaccabile e non tutta sospiri e malinconie, reclinata come un ciclamino moribondo.  Guardava il rametto di lunaria appeso alla maniglia della finestra che le aveva portato Diego in un meriggio di grilli. In ognuna di quella piccole foglie argentee le sembrava fosse rimasta impigliata la luce dei suoi occhi, quella luce che le aveva regalato attimi di stupore.

 

SAVERIA

Le faceva rabbia che Alba e Gloria non stessero assaporando il gusto di quella giornata che avrebbe potuto dissipare la tensione. Mostravano un atteggiamento innaturale, ed era chiaro che fra di loro l’ombra di Diego aveva scavato un percorso buio che nessuna delle due voleva percorrere. Forse se avesse  raccontato loro di quella mattina di dicembre in cui Diego le aveva chiesto d’incontrarla, sarebbero riuscite a ritrovare un briciolo di buonsenso e avrebbero smesso di pensare a Diego come al più grande bene perduto.

Quella mattina, seduta di fronte a lui al tavolino di un bar, dopo averlo ascoltato aveva pensato che la sua anima era come il suo corpo, scarna, sdutta, in una parola: minuscola. E come il suo corpo si raggomitolava e scompariva nel cavo della poltroncina che lo accoglieva, così la sua anima si avvolgeva su se stessa e si ricopriva per rendere invisibile il poco di sé.

            Diego l’aveva guardata con uno sguardo nuovo, diverso da quello che conosceva e lei aveva cominciato a sentirsi a disagio.

            “Ebbene- aveva detto ad un certo punto- di cosa volevi  parlarmi?”

            “Ho una storia con Gloria – aveva risposto lui senza indugio- ma è una cosa che non sta in piedi, iniziata per noia e continuata per inerzia. Qualcosa a cui non ho dato nessuna importanza.”

            “E perché allora me ne stai parlando?”

            “Perché è con te che vorrei stare.”

            “E Alba?”

            Lui aveva alzato le spalle con noncuranza.

L’indifferenza ed il cinismo con i quali stava mettendo in gioco i sentimenti di Alba e di Gloria l’avevano sconcertata. Aveva sempre pensato a lui come ad un uomo leale, lo aveva considerato un amico, una persona di cui fidarsi ed ora invece le appariva un gran bastardo che non si faceva scrupolo di usarle per riempire i suoi vuoti.

Prima di avviare il motore Saveria aveva dato un’ultima occhiata al cancello,  aveva abbracciato con lo sguardo casa e giardino per assicurarsi che tutto fosse a posto, infine aveva imboccato il vialetto per tornare sulla carrozzabile. Lungo la strada bar e pizzerie avevano acceso le insegne, il mare aveva preso il colore del piombo fuso ma, al largo, residue macchie di smeraldo ricordavano il lucore mattutino. In fondo era stata una buona giornata, calma e riposante, solo percorsa da una segreta vena di malinconia.

Saveria adesso guidava tranquillamente, in silenzio. Gloria aveva poggiato la testa allo schienale ed aveva chiuso gli occhi, Alba teneva ostinatamente lo sguardo al di là del finestrino. Si stava lasciando alle spalle, questa volta per sempre, il viadotto San Michele, il rustico di Diego e l’estate di un anno da dimenticare. Diego era un fantasma, un’ombra che non sarebbe sparita alla prima luce della nuova stagione, l’avrebbero incontrata ancora, nelle parole che avrebbero taciuto, negli occhi degli amici che avrebbero domandato di lui e forse l’avrebbero portata a lungo dentro come un dolore incarnito. Saveria pensava che qualcuno avrebbe dovuto spezzare quella specie di incantesimo che le teneva inchiodate come statuine di cartapesta sul loro trono di gesso e quel qualcuno non poteva che essere lei. Allora aveva fermato l’auto sulla prima piazzola di sosta che aveva incontrato e aveva detto: “Bene, ragazze, è arrivato il momento che vi racconti una storia.”

Anna Maria Bonfiglio

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

IL DOLORE DEL VIVERE ~ Note sulla poesia di Camillo Sbarbaro

24 mercoledì Feb 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su IL DOLORE DEL VIVERE ~ Note sulla poesia di Camillo Sbarbaro

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Camillo Sbarbaro

 

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicoli

carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia

mobile di un rigagno…

 

Questo è l’incipit dell’epigramma che Eugenio Montale scrisse per Camillo Sbarbaro in esergo al suo libro Poesia e prosa, curato da Vanni Scheiwiller e prefato dallo stesso Montale, una sestina in cui è racchiusa tutta la potenza simbolica che l’autore assegna alla poetica del ligure: un universo esplorato con l’occhio limpido del fanciullo che gioca “con carta colorata” alla rappresentazione di una vicenda esistenziale intessuta di piccole cose. In Fuochi Fatui lo stesso Sbarbaro parlò di se stesso assimilando i suoi repentini stupori a quelli di un fanciullo “ammesso a far man bassa in un emporio di giocattoli”. Nella sua prosa frammentistica, che non raramente tocca punte di autentica liricità, il poeta ritorna sovente al suo mondo di fanciullo come a un’isola dove solo è possibile spegnere quel disagio nei confronti della vita che è la costante espressione della sua poesia.
L’arte di Sbarbaro ha una genesi indecifrabile, è un nodo di autobiografismo vago, privo di qualsiasi sostegno documentale, nasce e “si fa” voce di un sapere lucido, disincantato, espressione sostanziale di un’esistenza che ha un solo punto fermo, la natura, al cui contatto l’uomo-Sbarbaro approda ad un’autentica emozione. La natura, sola presenza benefica in un mondo che lo lascia indifferente, riscatta la povertà di avvenimenti della sua vita, cura gli stati di nevrosi che a periodi lo colgono, lo riconcilia con una realtà che, pur nel suo fondo di avarizia, può dargli ancora qualcosa: (Benedetto amore. Oggi che ho il piede sulla soglia, pochi passi bastano per raggiungere l’uliveto sul mare, dove per ore, in silenzioso a tu per tu con una muriccia di fascia, passerò di gioia in sorpresa…).
La sua vita è come divisa in due corpi: da una parte la letteratura, dall’altra la scienza, che pratica come lichenologo, e nello stesso tempo unica, quando dall’una e dall’altra si distacca per contemplare con pena irreversibile il sentimento del dolore: (Vedo allora che nulla nella vita/ è buono e nulla è triste, ma che tutto/ è d’accettare nello stesso modo;/ e penso che convenga rassegnarsi/ ché tutto eguaglia la necessità).

Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure nel 1888. Il padre Carlo, ingegnere e architetto, è un militare a riposo, la madre è Angiolina Bacigalupo. Ammalatasi di tubercolosi, Angiolina morirà nel 1893 affidando i suoi due figli Camillo e Clelia alle cure della sorella Maria (la Benedetta a cui Sbarbaro dedicherà le poesie di Rimanenze). Dopo un breve soggiorno a Voze, nel 1894 la famiglia si trasferisce a Varazze, dove Camillo frequenta le scuole fino al ginnasio. Nel 1904, incoraggiato dallo scrittore Remigio Zena, inizia la sua attività poetica. Frequenta il liceo a Savona dove ha l’occasione di conoscere il filosofo Adelchi Baratono, fratello del suo futuro amico Pierangelo.
Dopo aver conseguito il diploma Sbarbaro si impiega nella Società Siderurgica di Savona. Nel 1911 la società viene assorbita dall’Ilva di Genova e Sbarbaro è costretto a trasferirsi nel capoluogo ligure. In quello stesso anno, grazie ad una sottoscrizione dei compagni di liceo, viene stampata Resine, la sua prima raccolta di liriche. Successivamente le sue poesie e la sua prosa lirica compaiono sulle maggiori riviste letterarie italiane: La Riviera Ligure, Lacerba, La Voce.
Allo scoppio della prima guerra mondiale decide di abbandonare la mal sopportata vita impiegatizia e si arruola volontario nella Croce Rossa Italiana. Alternandosi tra le trincee e le retrovie scrive le prose più belle dei suoi Trucioli. Nel 1927 comincia ad insegnare all’Istituto genovese Ariecco dei Padri Gesuiti, ma lascia improvvisamente l’incarico per non dover subire la tessera del Fascio che gli era stata imposta. L’anno seguente escono nel volume Liquidazione alcune delle prose scritte negli anni postbellici, che testimoniano il definitivo passaggio da un gusto vociano-frammentista ad una più costruita e complessa prosa d’arte. Nel 1928 Sbarbaro vende a Stoccolma un primo importante erbario di muscinee. Nel 1931 esce la rivista Circoli, fondata da Adriano Grande, che nel primo numero ospita i suoi splendidi Versi a Dina, piccolo canzoniere amoroso. Il rapporto col regime si complica e l’anno successivo la censura esige tagli e soppressioni dalle bozze del suo nuovo libro, Calcomanie, che non vedrà la luce se non nel 1940 in una versione dattiloscritta allestita per gli amici in venti copie. In seguito al bombardamento navale di Genova (9 febbraio 1941) si trasferisce a Spotorno con la zia e la sorella. Vi resterà fino al novembre del 1945, iniziando una feconda attività di traduttore dei classici greci e francesi. Nel 1914 per conto de La voce era stata pubblicata a Firenze la silloge Pianissimo. La raccolta è un monologo dal tono dimesso, quasi soffocato, espresso in endecasillabi. La tematica esistenziale presenta ampi squarci di tormento interiore articolato senza alcuna violenza linguistica, i testi si offrono al lettore come pronuncia scabra ed essenziale di un’angoscia che non trova conforto. Il poeta si vede come sdoppiato, un uomo che cammina portandosi appresso un’anima che “la sirena del mondo” non può incantare; tutto ciò che lo circonda è quello che è, nessuna illusione, ma la rassegnazione a una condizione di vita segnata dall’indifferenza.

L’accostamento alla tematica di ispirazione leopardiana, di cui si è parlato a proposito della poesia sbarbariana, si arena quando più si fa evidente la reale differenza che intercorre fra le pulsioni dei due autori: la poesia di Camillo Sbarbaro condivide con quella del Leopardi il sentimento di sordo dolore nei confronti della vita, ma se ne distanzia per la fondamentale disposizione dell’anima. Sbarbaro non piange i sogni perduti, le illusioni tradite, il desiderio di ciò che non è possibile possedere, che nel Leopardi sono filosofica affermazione di una condizione di vita comune a tutti gli uomini, ma si fa testimone di una sua personale solitudine interiore, generata dall’aridità che lo circonda, e scioglie il dolore che lo raggela in un canto cupo e impietrito. La sua poesia è sfiducia nei confronti della vita ma allo stesso tempo segno di un forte attaccamento ad essa anche nell’epifania del dolore. (Per la felicità grande di piangere/per la tristezza eterna dell’amore/per non sapere e l’infinito buio…/per tutto questo amaro t’amo, Vita).
Sbarbaro vuole scontare la vita. Inerte, atono di fronte all’esistenza non ne rifiuta neanche la più piccola parte, sa che il vuoto attorno a sé sarà per sempre ma di questo non piange. Non semplice accettazione, dunque, ma meditata resa ad una condizione che non può essere diversa. La solitudine di Sbarbaro è una reclusione fatale che gli permette di osservare la realtà con occhio oggettivo. Il suo canto di dolore si innerva su due motivi: lo sconforto universale, generato dalla consapevolezza che nessuno può sottrarsi all’ineluttabilità dell’esistenza, e la pena privata, una sofferenza tutta personale, radicata nel fondo della coscienza. A questo dolore il poeta non può e non vuole rinunciare perché in esso configura la vita stessa: (perché quando non soffro neppur vivo). Quella che egli stesso definisce “la condanna d’esistere” investe tutta l’umanità ed ecco che la sua pena diviene dolore del mondo e dei tanti condannati sorridenti che vanno verso l’abisso dell’esistere, egli “s’impaura”.

A proposito di Pianissimo si è parlato anche di matrice culturale baudelairiana e non è difficile rilevare che alcune liriche offrono molti spunti che autorizzano un accostamento alla poesia di Baudelaire. La tematica di Sbarbaro apre un varco verso la concezione della poesia moderna del secondo Novecento, così come quella di Baudelaire fu uno spartiacque fra la poesia del primo Ottocento e quella che si avviava a rappresentare un modello di umanità calata nell’era della prima rivoluzione industriale. L’atonia vitale, la pietrificazione interiore dell’individuo che assiste da spettatore inerte alla vita, la frantumazione della propria identità nei rapporti con il mondo esterno, sono la misura del disagio che l’uomo Sbarbaro avverte nei confronti di un’esistenza che subisce.

I sentimenti del poeta si sciolgono solo nel canto che gli affetti familiari gli sanno suscitare e al padre egli rivolge il suo pensiero purificato dall’immanente presenza di quel dolore che suscita la consapevolezza della perdita: “Padre che muori tutti i giorni un poco/e ti scema la vita e più non vedi/con allargati occhi che i tuoi figli…”, versi che implicano il senso dell’impotenza escatologica e la pena della solitudine senza speranza alla quale l’indifferenza della vita condanna l’uomo. Il rimpianto di non aver saputo esprimere concretamente i sentimenti che lo legano alle persone care corrode l’anima del poeta che cerca riscatto e salvezza nella propria capacità di ancorarsi al dolore: “Voglio il Dolore che mi abbranchi forte/e collochi nel centro della Vita”.

Elemento necessario e catartico, il sentimento del dolore è la struttura essenziale della poetica sbarbariana dalla quale l’autore si discosta appena nelle brevi pause di abbandono. Nei bellissimi Versi a Dina il canto di dolore si distende pur rimanendo latente nell’anima per il senso di provvisorietà che l’episodio d’amore non cancella. Il poeta ha consumato la sua ansia d’amore in anonimi letti di postriboli, ne ha assaporato il retrogusto amaro che ogni volta lo ha svuotato d’ogni voglia di vivere. A questa sensualità spesa troppo in fretta ha pagato il suo tributo di pena: nel momento stesso in cui sono stati placati i sensi sono scattati il vuoto e la desolazione, l’alienazione al diritto di soffrire: “Sento d’esser passato oltre quel limite/nel qual si è tanto umani per soffrire”.
Ma, oltrepassata la frontiera dei sensi, ecco, a rischiarare un’esistenza di trame povere e a rendere vivi fantasmi e immagini di una giovinezza consumata nella fantasia, palesarsi il sentimento che coniuga amore e pulsione erotica. La vita che prima era stata un deserto si anima di una presenza viva: “E la vita sapessi a me che fu,/Amore, prima che ti conoscessi…/Un deserto la terra; a volte, il mondo/come sfocata immagine che trema”. L’inquietudine si scioglie nella certezza della realtà nuova, spezza l’amara solitudine e riporta l’uomo a contatto con l’altro. Il tempo di stupirsi, di placare il tormento interiore in una pausa riconciliatrice ed ecco che tutto è già rimpianto. L’Immagine, fatta vita e ritornata oscurità, si fa ricordo, memoria che trasmuta fatti e luoghi, risorsa vitale per l’anima consumata dalla pena del vivere; ritorna il dolore, generato dal senso di perdita. “Oh come poca cosa quel che fu/da quello che non fu divide!”I termini del vissuto si confondono fra emozioni provate e realtà immaginate e riportano al passato suscitando suggestioni che si risolvono nell’icasticità di immagini scarne e strazianti: “(…) non era che un crudele immaginare”.
Quella di Sbarbaro, secondo Emilio Cecchi, è “un’arte di autoanalisi”; la vita del poeta ligure è il segreto che ciascuno custodisce in sé e la sua poesia, di cui Giovanni Boine scrisse che “a capirla basta il cuore e l’aver vissuto”, ne è la sola certezza. Sbarbaro fu uomo che non rifuggì la povertà, si tenne lontano da mode e conventicole e non seguì che la sua sensibilità. Il suo dettato poetico è una partitura nitida dalla quale si sprigiona la forza erompente dell’arte. Il suo fu un mondo chiuso che gli permise spazi altissimi dove le sue sensazioni di cupo sconforto si sciolsero nella manifestazione espressiva. Il dolore del vivere, che sempre lo accompagnò, non gli impedì di provare uno stupore quasi infantile ogni qualvolta la sua anima colse gli aspetti benevoli della natura, al cospetto della quale provò l’ineffabile sensazione della libertà: “(…) e come per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…
Se Baudelaire vede il poeta come l’albatro che caduto in mano alla ciurma insensibile ne diviene lo zimbello, Sbarbaro lo assimila alla fanciulla che se ne va da sola nient’altro possedendo che il suo canto. “A noi che non abbiamo/ altra felicità che di parole(…)/se non è troppo chiedere, sia tolta/prima la vita di quel solo bene”.

Camillo Sbarbaro muore all’Ospedale S.Paolo di Savona il 31 ottobre del 1967, dopo un lungo periodo segnato da gravi crisi depressive.

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

100 ANNI DI LEONARDO SCIASCIA ~ METAFORE E CONTRADDIZIONI

13 mercoledì Gen 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su 100 ANNI DI LEONARDO SCIASCIA ~ METAFORE E CONTRADDIZIONI

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Leonardo Sciascia

Nei primissimi anni ’80 del secolo scorso venni invitata dal Comune di Porto Empedocle, mio luogo di origine, a partecipare come “giovane poetessa”  ad un convegno letterario che radunava alcuni degli autori del territorio agrigentino. Mi ritrovai dunque in un contesto di personalità della cultura non solo siciliana ma di carattere nazionale fra cui Antonino Cremona, Federico Hoefer, Alfonso Gaglio, Andrea Camilleri e Leonardo Sciascia. Di Hoefer e Camilleri, quest’ultimo non ancora nel solco del successo dovuto alla serie montalbaniana, conoscevo qualcosa, essendo stati entrambi amici di gioventù dei fratelli di mia madre, gli altri mi erano pressoché ignoti, salvo Sciascia di cui avevo letto Il giorno della civetta e qualche altro titolo. Di lui ho un ricordo visivo vago, in particolare un mezzo sorriso fra l’ironico e il compiaciuto. Timida e alle prime armi nel campo della scrittura, non osai interloquire con nessuno di loro, in seguito ebbi modo di presentare a Palermo sia Hoefer, col quale si stabilì una bella amicizia, sia Camilleri, che al contrario non ebbi più modo di incontrare. Di Leonardo Sciascia continuai a leggere molti altri libri, con un interesse sempre maggiore ma in difficoltà nell’inquadrare la sua opera in una categoria letteraria, fin quando non giunsi alla lettura di La Sicilia come metafora, un libro-intervista della giornalista francese Marcelle Padovani, che mette a fuoco la persona e l’opera sciasciana.  Ma chi è Leonardo Sciascia?

“Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia-Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva preso da sua madre insieme agli occhi azzurri, mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire «velo del capo». Una volta, il console di Libia a Palermo mi ha detto che, per indicare un’amicizia strettissima, nel suo paese si parla di «due teste in una stessa sciascia”.

Nato a Racalmuto, paese dell’agrigentino, si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove il padre inizia a lavorare come amministratore in una zolfara nissena. Frequenta il corso magistrale dove insegna Vitaliano Brancati, suo professore e primo riferimento culturale, consegue il diploma e inizia ad insegnare.

“Il pomeriggio lo passavo da uno zio sarto. Per apprendere il mestiere. Il mio trasferimento a Caltanissetta fu casuale. Se mio padre non avesse avuto il posto ad Assoro, non ci saremmo trasferiti a Caltanissetta. È stata una fatalità che ha inciso molto sul mio destino. Se fossimo rimasti a Racalmuto, io avrei fatto il sarto.”

Per fortuna delle patrie lettere la vita di Leonardo Sciascia ebbe diversa sorte. Per tutta la seconda metà del Novecento fu lo scrittore che attraversò la storia civile italiana, con le sue opere segnò l’inizio di quella letteratura che metteva il dito nella piaga del sistema mafioso la cui struttura si era insediata anche nell’apparato politico. La sua non fu denuncia, ma analisi lucida e impietosa della connivenza tra Stato e potere illegale, esercitata fin dal regno borbonico. Da uomo attento e analitico, lo scrittore è consapevole della difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di giungere alla realizzazione di un perfetto sistema politico e sociale, tuttavia ritiene un dovere vivere e lottare perché questo possa essere raggiunto.

“Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: «Ha contraddetto e si è contraddetto», come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante «anime morte», a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano.”

Riferendosi al ruolo dell’intellettuale, Sciascia sostenne che in Sicilia gli intellettuali costituiscono un corpo estraneo che il tessuto sociale rigetta in quanto rappresentano la coscienza del passato e la preoccupazione per l’avvenire.

“C’è stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e poco alla volta non mi sono più sentito siciliano, o meglio, non più solamente siciliano. Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia, e che continua a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno. Date queste condizioni, sono ancora uno scrittore siciliano? E che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.”

Scettico e talvolta amaro, per lo scrittore racalmutese il cammino della Sicilia è stato sempre un percorso difficile ancorché illuminato da grandi civiltà e da importanti tradizioni etnico-culturali che non ne hanno purtroppo cancellato la connotazione di terra di conquista. E coglie una lancinante verità nell’affermare che il fasto lasciato come retaggio dagli spagnoli ai siciliani, che continuano a praticarlo, gli uni lo vivevano da padroni, gli altri da schiavi. Alcune delle tante considerazioni e prese di posizione di Sciascia suscitarono a suo tempo aspre critiche e pungenti polemiche, soprattutto dopo che egli scese in politica, prima con il PCI di Achille Occhetto, dal quale diede le dimissioni perché contrario al “compromesso storico”, e dopo con il Partito Radicale, in seno al quale fu eletto alla Camera dei Deputati. Dopo la pubblicazione de L’affaire Moro le polemiche si moltiplicarono. Nel suo pamphlet Sciascia lascia trasparire il suo dissenso per come si era concluso il tragico rapimento di Aldo Moro, addossandone implicitamente la colpa all’apparato dello Stato che non aveva acconsentito a trattarne il rilascio. Egli smonta la tesi che era stata adottata dall’establishment politico, secondo la quale le lettere che il sequestrato scriveva pregando di cedere alle richieste dei terroristi erano dettate da uno stato di offuscamento mentale derivato dalla carcerazione, e lascia trasparire la propria posizione di dissenso. Quando si apre la tragica stagione degli omicidi di stato per mano mafiosa è ancora lui che sferra attacchi contro il sistema del “pentitismo”, non ritenendo etico “premiare”, a fronte di una testimonianza accusatoria, chi si era materialmente reso colpevole di uccisioni e stragi. Da una parte il rifiuto della violenza, dall’altra una costante critica al potere costituito e ai suoi segreti inconfessabili. Furono atteggiamenti che gli alienarono parte dei consensi, ma la sua presenza letteraria non ne rimase offuscata e le sue opere continuarono ad essere apprezzate fin oltre oceano.

“Considero il potere, non già alcunché di diabolico, ma di ottuso e avversario della libertà dell’uomo. Sono tuttavia indotto a lottare perché, all’interno del potere, si abbiano ricambi, possibilità di “alternative”, novità, una migliore organizzazione della giustizia, una libertà sempre più ampia, ragion per cui mi impegno quando c’è una battaglia da combattere. Mi rendo perfettamente conto di essere animato da un certo spirito di contraddizione, ma so che ogni essere umano che esercita un’attività intellettuale non può non esserne animato.”

La bibliografia di Leonardo Sciascia è sterminata, egli ha scritto di tutto: poesie, racconti, romanzi, saggi, teatro, pamphlet, aforismi, articoli giornalistici, e curatela di volumi collettanei e monografici per grandi case editrici italiane. Ho letto recentemente che la sua linea letteraria è stata definita Realismo critico. Non so quanto questa definizione possa essere adeguata, forse è ancora troppo presto per le etichette di “corrente”, o più verosimilmente la sua opera sfugge a ogni precisa categoria letteraria, mantenendo una sua propria identità che assomma la lezione pirandelliana e l’illuminismo volterriano. Ma possiamo affermare che dal suo magistero sono stati certamente influenzati due altri grandi scrittori siciliani, Andrea Camilleri e Gesualdo Bufalino, l’uno per la felice creazione del commissario Montalbano, spigoloso e ironico, l’altro per le risonanze barocche della sua scrittura. Amato e odiato, apprezzato e criticato, con la sua presenza e con la sua opera Leonardo Sciascia ha segnato tutta la seconda parte del secolo ventesimo lasciando un’impronta indelebile.

Anna Maria Bonfiglio

Nota – Le parti in corsivo sono tratte da “La Sicilia come metafora”, intervista a Leonardo Sciascia di Marcelle Padovani, Mondadori 1979

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Ancora sulla violenza contro la donna

02 mercoledì Dic 2020

Posted by marian2643 in CULTURA E SOCIETA', LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Ancora sulla violenza contro la donna

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Cuore di preda, Loredana Magazzeni

Succede a volte che, seguendo le informazioni diffuse dai mass media, tv, radio, giornali, internet, sentiamo pronunciare una parola tanto ripetutamente che finiamo per assuefarci al suo suono e a svuotarla del suo vero e profondo significato. Diventa improvvisamente un topos, un luogo comune che tutti, per strada, nei salotti, nelle conversazioni fra amici, usano senza soffermarsi più di tanto sul valore e il peso che può avere. Credo che tutto questo possa essere applicato al termine femminicidio, che sentiamo pronunciare ogniqualvolta viene uccisa una donna. Femminicidio, o femicidio, secondo la primaria versione della parola che traduce il termine inglese femicide, è espressione dal significato terribile che definisce l’uccisione di un essere umano in quanto appartenente al genere femminile, quello che la filosofa De Beauvoire, chiamò provocatoriamente Secondo sesso. La donna è l’Altro, afferma nel suo famoso saggio la scrittrice, è quello che l’uomo, nel suo considerarsi Soggetto, colloca nella posizione di Oggetto. Su questa situazione di non riconoscimento si è fondato e si perpetua il concetto di subordinazione del genere femminile. A distanza di tanto tempo la riflessione della filosofa francese rimane attuale ed è ancora legittimo porsi la questione della gerarchia dei sessi e domandarsi se sia finalmente possibile accogliere in maniera definitiva nel contesto intellettuale e sociale l’idea di “genere” inteso come categoria che raggruppa la specie umana. Perché malgrado la conquista sul piano formale e ideologico dell’uguaglianza resta il problema dell’impostazione dei rapporti fra i sessi, problema perpetuato nel corso dei secoli ed ereditato dalla concezione biblica di Eva nata da un osso in soprannumero di Adamo, e cioè di un “essere occasionale”, come lo definisce San Tommaso. A metà degli anni ’90 del secolo scorso, la scrittrice e performer Eve Ensler pubblicò un libro dal titolo I monologhi della vagina nel quale, attraverso testimonianze femminili, denunciava una realtà di violenza espressa nelle manifestazioni più subdole. Il testo suscitò, com’era prevedibile, vaste polemiche, ma fu letto e rappresentato in forma teatrale in molte parti del mondo, compresa l’Italia, e recitato dalle più grandi attrici di teatro. Nel 2015 la stessa Ensler pubblica un documento in cui racconta le violenze esercitate dagli integralisti dell’Isis sulle prigioniere dissidenti o disobbedienti, episodi di una crudeltà inenarrabile, difficili da credere generati da mente umana e che fa paura persino riportare; in seguito Ensler pubblica il libro Se non ora quando? Contro la violenza e per la dignità delle donne, nel quale afferma: “abbiamo bisogno di scrittori in quest’epoca terribile di inganni e manipolazioni”. Cosa possono fare i poeti, retoricamente definiti esseri avulsi dalla realtà? Certo non sarà un libro di poesia a fermare  lo scempio che si compie sulle donne, né basteranno gli spettacoli, i documentari, le inchieste. Pure, tutto questo qualcosa fa: aiuta a capire. E capire significa prendere coscienza che quei fatti di cronaca che ci turbano fuggevolmente, fra una notizia e l’altra, sono vicini a noi più di quanto crediamo. Significa smuovere le acque ancora stagnanti di una cultura civile e sociale arroccata su concetti resistenti a morire. E significa anche aiutare le donne vittime di violenza a rendersi consapevoli che dall’oscurità del tunnel in cui sono cadute si può fuggire superando la paura e la vergogna, ribellandosi, accusando, denunciando. L’antologia Cuore di preda, curata dalla scrittrice Loredana Magazzeni, nasce  per volontà di Gianmario Lucini, poeta, critico e editore, uomo di grandissima sensibilità, intellettuale impegnato a combattere l’ingiustizia e il decadimento morale, scomparso purtroppo prematuramente, e  raccoglie i testi di ottantasei poetesse che declinano il tema del femminicidio e della violenza di genere dando voce al silenzio che accompagna il dolore delle vittime. Silenzio generato dalla paura, dalla mancanza di autostima, dal senso di colpa, dall’abitudine ad essere dominate. Scorrendo i testi di questa raccolta percepiamo i nuclei tematici più forti e più pervasivi dell’argomento violenza, legati da un filo rosso che attraversa vicende dolorose e traumatizzanti mutuate da fatti reali di cui quasi giornalmente veniamo a conoscenza. E non è fuori luogo o esagerato parlare al riguardo di una forma di “olocausto”, in ragione del fatto che si tratta di una violenza dettata dalla volontà di esercitare un potere che annulli, cancelli, estingua il genere femminile, non come esistenza fisica, ma come esistenza sociale e psicologica, come volontà di esprimere se stesso, come affermazione di entità non omologabile. Cuore di preda è il genere femminile, ancora raccolto “in un mondo di buio, nucleo di resistenza sacro, eredità lascata dalla madre”, come lo definisce la poesia di Anna Elisa De Gregorio. Perché è già dalle madri che si va configurando l’esistenza delle figlie, madri che subiscono percosse e tacciono per vergogna e dichiarano, per obbligo verso se stesse, di amare ancora il loro uomo.

Se questa è una donna

Con quale numero sarà ricordata

la violenza di ieri su una donna

nel quartiere taldeitali della tale città?

La voce che esce dal televisore,

mentre divagano periferie senza vita,

elenca cronache già dimenticate:

quella che era, l’altra che aveva…

donne raccolte in un mondo di buio.

 

Di donne destinate a subire parla la poesia di Nunzia Binetti :

Io già lo so

(…) Io cosa per editto maledetta, finto monile

Espio una condanna e sono anima lesa

silenzio indotto, resa, mai altro che utero o marsupio

che zagara sfiorita nel giardino a spingere il recinto

col mio canto morto.

 

E di una detenzione volontaria, determinata dall’impossibilità del corpo a ricercare un senso nuovo dopo il deturpamento, dopo l’oscurità di un abisso di cui ci si sente complici, parla il testo di Maria Teresa Ciammaruconi: L’uomo che ha vessato ha perso vigore, è ormai incapace di prendere e di dare, sarebbe facile fuggire, ma la violenza ha generato assuefazione, la paura ha svilito ogni desiderio di libertà, il danno è irreversibile:

Violenza non codificata

Non è per bontà che ora rinunci al sangue

e non è mite la carezza che doma la fera

ma paura che ha perso la traccia del desiderio

seminato lungo la nostra strada in regalo

a fare unica una vita qualunque.

La tua rinuncia è la mia prigione senza sbarre

violenza non codificata per detenzione a vita.

Incapace di cattura il predatore muore

e condanna la preda alla solitudine  della sicurezza.

 

Di Lella De Marchi

e poi mi hanno detto

e poi mi hanno detto:

il tempo aggiusta tutto

anche il tuo corpo offeso

e spaccato,

certo, non temere,

un giorno tutto questo

non ti farà più male

 

ed io ho pensato:

ho fatto davvero qualcosa di sbagliato

perché mi hanno di nuovo violentato.

 

Cuore di Preda è una delle tante operazioni che sono state realizzate per mettere a fuoco una problematica che non cessa di essere attuale e per sensibilizzare istituzioni e società civile a non abbassare la guardia. Tanto è stato fatto e tanto dovrà continuare ad essere perseguito. Confidiamo che alle voci poetiche di queste donne si uniscano tante altre voci ancora, anche maschili, perché si sciolgano fin gli ultimi nodi di un colpevole silenzio.

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

“Cadere, volare” di Clelia Lombardo, Avagliano Editore, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.

18 mercoledì Nov 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ Commenti disabilitati su “Cadere, volare” di Clelia Lombardo, Avagliano Editore, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo

 

Dopo la docustoria La ragazza che sognava la libertà, racconto di un femminicidio per decisione mafiosa, Clelia Lombardo, docente, poetessa e autrice di teatro, esce in libreria con il romanzo Cadere, volare, edito da Avagliano, storia di una giovane donna che si trova a dover affrontare le due realtà più importanti del proprio percorso di vita: l’inizio del viaggio nella concretezza del lavoro scelto e l’incontro con la possibilità di dare una svolta decisiva alla sua vita sentimentale. Nives insegna ai ragazzini di una scuola media di un piccolo paese dell’entroterra palermitano; giovani appena approdati alla prima adolescenza, figli di genitori impreparati alla propria genitorialità e perciò non in grado di indicare strade o trasmettere valori; madri vittime esse stesse di un’educazione retrograda e padri inesistenti, o violenti o invischiati nella minuta delinquenza locale. Un panorama scoraggiante per una giovane professoressa, Nives vorrebbe provare a scalfire l’indifferenza e il disinteresse dei suoi alunni, vorrebbe che potessero traghettare il guado verso l’età adulta consapevoli dell’importanza che può avere lo studio, dar loro la possibilità di vivere in modo migliore. Nella sua vita c’è Salvo, l’uomo di cui si è innamorata e che la ama, vive finalmente con fiducia il sentimento d’amore, dopo incontri vuoti e una prima giovinezza di solitudine affettiva. Poi Salvo le parla di matrimonio. Nell’incipit del romanzo ci troviamo in medias res, da questo punto inizia il racconto che, fra il presente vissuto con i suoi alunni e i loro problemi e gli incontri con l’amato, porterà Nives a ripercorrere la sua dolorosa storia di famiglia e a confrontarsi con un rapporto sentimentale che avverte come “una rete a maglie larghe da cui nella stessa misura l’amore entrava e usciva”.

Cadere, volare è un libro “onesto”, non fa l’occhiolino al lettore trattando questioni di carattere moralistico o pruriginoso, è una storia privata in cui la protagonista si mette in discussione e si pone a confronto con la realtà e con il proprio modo di intendere la vita. Ha creduto di avere trovato il suo ubi consistam nel lavoro e nell’amore, di aver superato la desolata solitudine dell’adolescenza e la morte prematura della madre, ma il passato che torna alla memoria ha perso il gusto amaro e ha portato una languida malinconia. Cosa vuole Nives? Non lo sa bene, sa però che se deve scegliere non deve essere una scelta di comodo o di opportunità, ma piuttosto “la sua scelta”. Sente l’urgenza di vivere in un mondo migliore di quello che le gira attorno, “questo non è il mondo che voglio”, pensa, e non pretende di poterlo cambiare ma di vivere come se ciò fosse possibile. Pensa che Salvo, nel corso di quell’anno in cui si sono amati, ha mostrato dei tratti caratteriali che la inquietano, è rigido, sfuggente, e lei ha paura, di sbagliare, di ritrovarsi sola. Nives ha paura di perdere coloro che ama.

Quello di Clelia Lombardo è uno stile netto, sempre in equilibrio nel tratteggiare il carattere dei personaggi che appartengono a sfere socio-culturali diverse e che tuttavia  si intersecano nel tessuto della storia; l’autrice adotta la forma narrativa della terza persona, mantenendo il giusto distacco nel definire il punto di vista delle varie figure del romanzo colte nei  momenti più significativi del racconto: gli alunni nella loro specificità di creature ancora spaesate in un mondo di cui conoscono solo il volto amaro, Nives nella fase in cui aveva sperato di trovare quel “qualcosa che nessuno può offrire all’altro”, e Salvo fra il desiderio di concretizzare il rapporto con lei e la difficoltà di comprenderne del tutto la sensibilità. Una storia peculiarmente psicologica, che tratteggia finemente i personaggi e si sofferma sulla delicata realtà degli adolescenti e sulle loro problematiche connesse all’ambito sociale cui appartengono. Un romanzo, questo della Lombardo, che la colloca fra le più promettenti narratrici del panorama contemporaneo.

 

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

L’IMPOSSIBILE VERITÁ DEI “SEI PERSONAGGI” PIRANDELLIANI

21 mercoledì Ott 2020

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su L’IMPOSSIBILE VERITÁ DEI “SEI PERSONAGGI” PIRANDELLIANI

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

Dalla sua prima rappresentazione in stesura definitiva, avvenuta il 18 maggio del 1925 a Roma, Sei personaggi in cerca d’autore è senza dubbio l’opera pirandelliana più replicata. Considerata il dramma più emblematico di tutta la drammaturgia di Luigi Pirandello e al contempo il più aperto ad ogni possibile lettura ed interpretazione, esso ci pone di fronte all’irrisolta questione dell’Essere e dell’Apparire, mantenendo nel tempo la sua vitalità ed il suo carattere originale. Il ruolo di Pirandello, che nell’epoca fra le due guerre mondiali sostituisce quello totalizzante dello scrittore-demiurgo, incarnato dal D’Annunzio, è quello dell’intellettuale che possiede la capacità di mettere a nudo le contraddizioni dell’età del primo capitalismo industriale. Il drammaturgo siciliano riesce a cogliere i primi aspetti di quella che sarà la massificazione dell’umanità: il meccanizzarsi della vita quotidiana e la solitudine dell’individuo che vede frantumarsi la propria personalità vivendo una realtà diversa da quella che percepisce con l’anima. Simbolo della condizione oggettiva di una umanità priva di certezze e ricca di contraddizioni e di illusioni, il personaggio pirandelliano cerca la liberazione da una società disumanizzante e una consistenza alternativa che gli dia l’identità a cui ambisce ma che non riesce a raggiungere se non nelle forme del suo inseguirla. Egli è tutt’uno col dramma che vive e rappresenta, i conflitti di cui è attore sono la sua stessa natura, il suo agire è guidato dal dilemma che la vita gli propone, e nell’incertezza della possibilità di risolverlo egli si vede sdoppiato divenendo il fulcro del contrasto stesso; si radicalizza nella convinzione che l’infelicità propria è la stessa che accomuna tutti gli esseri umani e perciò nessuno può sfuggirla.

Paradigma del conflitto tra l’aspirazione a comunicare con l’altro e l’impossibilità ad essere costituiti nella loro verità, i Sei personaggi senza autore, Padre, Madre, Figlio, Figliastra e  due bambini,  irrompono sul palcoscenico, dove una compagnia teatrale sta allestendo uno spettacolo, e chiedono di essere rappresentati nel loro dramma umano. Questo è l’unico modo perché le loro vite, nate dalla fantasia dell’autore, possano trovare un’identità. Ma la loro aspirazione a essere riconosciuti nella verità che raccontano si scontra con l’impossibilità da parte degli attori di far vivere la loro storia sul palcoscenico. Tuttavia la difficile trasposizione sulla scena della loro vicenda solletica la vanità del regista il quale avverte che il dramma di quella famiglia borghese, a tratti banale, a tratti tragico, merita di essere rappresentato. I sei personaggi raccontano la loro verità, che non è mai univoca, ma non riescono a riconoscersi negli attori che entrano nelle loro parti. Personaggi, dunque, condannati a restare “senza autore”, a peregrinare da un teatro all’altro con l’unica speranza di vedere rappresentata solo una parte della realtà che li sostanzia. E senza autore è, del resto, il personaggio pirandelliano in genere, affidato ad ogni possibilità di interpretazione, celebrato proprio per l’impossibilità di essere collocato in uno standard che ne faccia un’entità definita. Il contrasto fra la Vita e la Forma, che resta il nucleo di tutta la problematica pirandelliana, sfiora ne I sei personaggi il problema dell’arte. Agli attori che devono recitare il loro dramma è delegato il compito di sciogliere in forma compiuta la vita e di condurla alla dimensione dell’arte. Ma quella vita che vanno a rappresentare sfugge dalla loro comprensione e si rivela necessità di movimento, trasformazione, incompiutezza. Altri attori se ne approprieranno per farla rivivere in altre Forme, in un gioco dilatato fino all’impossibile. La tragedia dei sei personaggi sta nella disperata consapevolezza di non poter far mai giungere agli altri la loro Verità; il loro raccontarsi resta un tentativo senza risposta, una voce che può essere ascoltata ma non accolta, un inutile denudarsi. La Verità sarà sempre un passo indietro, sarà sempre un grido taciuto.

Anna Maria Bonfiglio

 

(Fonte dell’immagine)

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Angelo Maria Ripellino – La buffoneria del dolore

16 mercoledì Set 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

≈ 2 commenti

Tag

Angelo Maria Ripellino, Anna Maria Bonfiglio

Darling, lo so, il mio continuo lamento ti attedia,

questa eterna altalena tra ebbrezza e malore.

Il mio rammarico è forse volontà di commedia.

Grande è la buffoneria del dolore.

 

Angelo Maria Ripellino nasce a Palermo il 4 dicembre del 1923, da Carmelo, insegnante di Lettere, poeta e scrittore di drammi teatrali, e Vincenza Maria Trizzino, titolare di una farmacia. Ha appena sette anni quando la famiglia si trasferisce a Mazara del Vallo, dove il padre ha ottenuto un incarico presso il locale Liceo Parificato e dove Angelo frequenta le scuole fino al completamento delle classi ginnasiali. Nel 1937 a Carmelo viene assegnata una cattedra al liceo “Giulio Cesare” di Roma e la famiglia si sposta nella Capitale, che diverrà la città di adozione del poeta, quella dove continuerà gli studi e inizierà, ancora studente, la sua attività letteraria scrivendo per alcuni giornali e pubblicando poesie, racconti, recensioni e brevi saggi. Iscritto alla Facoltà di Lettere, sceglie di interessarsi dell’universo letterario slavo e diventa allievo di Ettore Lo Gatto, uno dei primi studiosi di letteratura russa in Italia. Ancora giovanissimo, viene aggredito da una infezione tubercolare che, sebbene curata con applicazioni di pneumotorace, in seguito lo costringerà a sottoporsi ad una pneumectomia. Continuerà tuttavia la sua attività letteraria e intensificherà il suo impegno per gli studi di slavistica soggiornando a Praga dove incontrerà Ela Hlochová che diverrà sua moglie e sua collaboratrice e gli darà due figli, Milena e Alessandro.

Dal 1948 al 1952 Ripellino insegna all’Università di Bologna Filologia slava e Lingua ceca; con l’incarico di Lingua e Letteratura russa al Magistero di Roma ritorna nella sua “città” dove inizia un felice percorso come traduttore di alcuni poeti russi, lavorando al contempo alla Storia della poesia ceca contemporanea. Pariteticamente si dedica al teatro e alle arti cosiddette “minori”: critica cinematografica, teatro delle marionette, musica, trasmissioni radiofoniche.  Il suo percorso erratico fra le varie tipologie di studi e di scritture ne fa trasparire il proposito di inseguire una sorta di sincretismo fra tutte le espressioni artistico-letterarie. Continua a scrivere poesia e nel 1960 pubblica la sua prima raccolta, Se non ora quando, ma, seppure accolti dalle migliori riviste letterarie, i suoi versi restano indietro rispetto a quella che si va configurando come figura di slavista, etichetta che prevarrà sempre sulla sua qualità di artista delle lettere. “Slavista! Mi gridano donne con  frappe sul capo./ (…) Slavista! Mi beffano da un carro funebre/ (…) Chiedo perdono. E’ deciso. La prossima volta/ farò un altro mestiere”, scrive nella poesia n.2 di Notizie dal diluvio.

Nel 1964 Ripellino viene aggredito da una recrudescenza tubercolare e ricoverato nel sanatorio di Dobříš, vicino Praga, sotto le cure del primario Petr Ostrý che lo recupera alla vita. Da questa esperienza nasce la raccolta di poesie La fortezza d’Alvernia, poematico diario della vita che fugge, declinato attraverso rimandi letterari e figurativi della sua multiculturalità, che egli definisce “teatro d’ombre” e “cartolina illustrata della speranza”. La silloge, proposta a Einaudi per la pubblicazione, viene rifiutata, presumibilmente per lo scarso interesse suscitato in Italo Calvino che definirà Ripellino “un poeta fuori del tempo” e “un futurista in ritardo”, e, dopo ulteriori rifiuti da parte di altri editori, sarà pubblicata da Rizzoli nel 1967.

 (…)  Sebbene io sia imbrattato delle fuliggini della Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico. Torno giù a precipizio sovente dal continente all’isola amara, irrorata di luci di agrumi, ai giorni lontani in cui sereno viaggiavo con una modesta famiglia nel caldo di una casetta domenicale, come nel ventre di un ciprino carpio. Poi si versò una giara di olio in soffitta. L’olio colava per gli scalini. Ebbero inizio le sciagure. Il letto si coprì di infausti cappelli. Ancor oggi essi ingombrano la mia poesia. Dell’infanzia insulare mi porto dietro un fagotto di emblemi: il ricordo di dolci comprati alla ruota del monastero, le stanze mortuarie con le salmodianti comari in nero, i presepi con arance e lumie, il basso continuo della tristezza, che pende dai nostri occhi come le cispe di un tracoma e una certa pagliacceria fanfarona.” Così il poeta Angelo Maria Ripellino, “imbrattato” di cultura mitteleuropea, rivendica la sua ascendenza isolana, in uno scritto ad apertura della pubblicazione di Sinfonietta. “Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le «meraviglie» del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga.(…).

Nel 1969 Ripellino pubblica, questa volta sì con Einaudi, la raccolta di poesie Notizie dal diluvio, costituita da settantasette poesie divise in due parti, da lui stesso definita “diario di un anno calamitoso”, riferendosi sia alla sua salute che va sempre peggiorando che alla tragica conclusione di quel movimento politico e sociale che fu la Primavera di Praga e che egli aveva seguito come inviato de L’Espresso. Il libro è una specie di “arca” nella quale il poeta raccoglie persone, animali e fatti che hanno costituito il suo mondo per eternizzarli nella sua storia privata restituendoli in metafore, allegorie, analogismi e neologismi, in un rutilante universo semantico di strabiliante ricchezza. Tutta la poesia ripelliniana è un vortice di opulenza lessicale, una partitura di infinite significazioni nella quale vorticano la musica, la pittura e i pittori, il teatro e i teatranti, i mùsici e i pagliacci, gli animali di ogni specie, e i colori di un arcobaleno personale dove primeggia il giallo, il colore del sole.

“Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica /come le cicogne dello Zwin./ Ancora mi affligge la sua effigie gotica./Non resisto agli occhi verdi che mi amano,/ io, principe carpatico in rovina”. Sono i versi della terza parte della poesia n.67 della raccolta Sinfonietta, uscita ancora per Einaudi nel 1972. Qui i testi assumono una coloritura plumbea, con chiari riferimenti alla salute che va aggravandosi, e tuttavia ancora accompagnata da metafore di “luce” nell’assunzione di lemmi quali fuoco, candele, angeli; una raccolta definita “ostica” per il lessico e la sintassi, e catalogata come risultato di “un oscuro barocchismo”. E’ quella che più mette l’accento sulla vicenda personale dell’autore, sulla sua consapevolezza di non aspettarsi più niente altro che sofferenza e tuttavia restando “in una grande allegria funebrina”. “Alla tua età si può ricominciare,/ma io, bambina, ormai devo raccogliere/ le somme del passato, ristoppare/ con giorni avventicci il mio destino,/ con spilorcia avarizia fare i conti, / io che giuoco sempre a rimpiattino/ col disfavore di Domineddìo.”  Egli stesso in un’intervista aveva dichiarato: “Gran parte della mia scrittura è diventata il vezzeggiamento di questo eterno malessere.”

Sempre da Einaudi nel 1976 viene pubblicato Lo splendido violino verde, raccolta ripartita in due sezioni: Das letzte Varieté (L’ultimo Varietà), e Don Pasquale (con riferimento all’opera di Donizetti); opera della piena maturità che assomma tutti i temi della poetica ripelliniana  rinominando personaggi, musiche, artisti, ora con vis ironica ora con clownesca malinconia. Pervade tutto il testo un andamento antitetico fra la gioia di vivere e la coscienza del male che lo opprime: “L’eterna altalena tra ebbrezza e malore(…)il miele del male”, dove il male accostato al miele rivela l’aggressione del sopravvenuto diabete, che in seguito lo costringerà all’amputazione delle dita di un piede. Come sempre il campo semantico usato da Ripellino è ad ampio spettro, aggomitola il contingente con la memoria del passato attraverso accostamenti incompatibili, metafore e paronomasie; all’oscuro barocchismo di Sinfonietta fa eco un tono di gioiosità malinconica, come di chi si appresti ad invecchiare per il processo naturale della vita. “Piano piano anche tu ti sfilerai dalla stretta/ cruna della rivolta/ per diventare un vecchietto benpensante che sgretola/ croste di massime ottuse (…) sarai raggricchiato, minuscolo, nano/ nella luce palustre della tua notte che avanza,/ avrai tanto freddo, come Varsavia a novembre.” Nell’acrobatico ordine linguistico di Ripellino vive tutta una folla di soggetti e contenuti che riemergono nuovi, liberati dalla cenere del vissuto.

Il 21 aprile del 1978 un collasso cardiocircolatorio, causato dall’aggravarsi delle patologie di cui era afflitto, spegne, ad appena cinquantaquattro anni, Angelo Maria Ripellino. La sua raccolta Autunnale barocco esce nel 1977 e vince il Premio Prati; è l’ultima sua presenza nel mondo delle lettere, ma in precedenza aveva pubblicato altri lavori in prosa: nel 1965 Il trucco e l’anima, sui grandi registi del teatro russo, che gli vale il Premio Viareggio; nel 1973 Praga magica, la sua opera più conosciuta; nel 1975 Storie del bosco boemo. Postumo, a cura di Giacinto Spagnoletti, viene stampato Scontraffatte chimere, che raccoglie tutti gli inediti, anche quelli giovanili, del grande poeta siciliano. Sebbene appassionato cultore, traduttore e saggista di opere della letteratura russa e boema, Angelo Maria Ripellino si ritenne sempre primariamente poeta e lo amareggiò che, nella società letteraria del tempo,  non venisse messo mai al primo posto questo suo ruolo. Solo all’inizio di questo nuovo secolo alcuni giovani studiosi hanno intrapreso un percorso di recupero e di studio dell’opera poetica ripelliniana e curato nuove edizioni delle sue raccolte edite e delle sue poesie inedite.

Anna Maria Bonfiglio

 

Poesie

 

Verrai ogni tanto a visitarmi sottoterra
come una bionda Persefone
in mezzo alle larve baritonali.
Ricordi: già ne parlammo a Wiesbaden.
mi promettesti che quando prenderò alloggio dall’orco
di tanto in tanto verrai
per un breve soggiorno
a consolare la mia malinconia,
il mio desiderio della terra,
a narrarmi degli amici.
E non importa se figli
ti prenderanno per matta, pensando
che ciò che è morto va dimenticato
e che è assurdo questo lugubre turismo.

* * *

Non si accorgeranno nemmeno
di quello che hai scritto.
Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi.
Resterai sguattero, guitto
in questa fiera di gattigrù delle lettere:
Sei un viluppo di piume, una balla di fieno,
carica di gorgheggianti uccellini.
Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta?
Merda. Sarebbe meglio scrivere
novelle per pennivendoli, romanzi zuccherini,
storielle piovose, canzoni da balera.
Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi,
questa feccia di vino che nessuno vuole bere.

 

* * *

Tu pensi che, quando cresce il tuo male,

si spengano i fuochi, le barche non prendano il mare,

si proibisca ai cani di latrare,

i figli si incantino come sculture di sale.

 

Oh no, lascia perdere. Osserva

la ghiandaia azzurra che ruba

il suo ultimo cucchiaino d’argento.

Ferma lo sguardo sgomento

Sull’estranea bellezza di questa caraffa in cui luccica

tutto il ghiaccio del mondo.

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Nota di lettura di Anna Maria Bonfiglio su “Nei giorni per versi” di Anna Maria Curci, Ed. ArcipelagoItaca, 2019

20 mercoledì Mag 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ Commenti disabilitati su Nota di lettura di Anna Maria Bonfiglio su “Nei giorni per versi” di Anna Maria Curci, Ed. ArcipelagoItaca, 2019

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Anna Maria Curci

Ci sono libri che leggi per interesse, libri che leggi per piacere, libri che leggi per imparare. Poi ci sono libri che non smetti mai di leggere, libri che ti accompagnano per tutta la vita e che ogni volta che li leggi ti trasmettono qualcosa di nuovo e di diverso. E’ a questa categoria, che per comodità definirei evergreen, che appartiene Nei giorni per versi della poetessa, scrittrice e traduttrice Anna Maria Curci. Ho incontrato la scrittura di Anna Maria leggendo delle pagine di prosa nelle quali, attraverso i colori degli abiti indossati, venivano ricordati figure e fatti della vita dell’autrice e ne sono rimasta affascinata. E’ passato qualche anno ma ricordo ancora l’emozione che quella lettura mi ha trasmesso, rinviandomi ad un tempo che anche io avevo vissuto e ricordandomi nella figura della madre la mia stessa madre. Così ho iniziato a seguirla, ammirando lo stile della sua scrittura, la professionalità nell’espansione del proprio “sapere”, sempre misurata e profonda, e la generosità nella promozione della poesia degli altri. Tutto ciò ha trovato ulteriore compimento nella lettura della sua silloge poetica di cui affettuosamente mi ha fatto prezioso dono.

Nei giorni per versi  mi ha catturato subito ma mi ha anche messo un po’ di soggezione: cosa potevo dire io di una così perfetta operazione di stile, dove significato e significante si intersecavano e la parola poetica, tanto criptica quanto suggestiva, apriva un mondo infinito di interpretazioni? E più leggevo più mi sentivo immersa in un universo di significazioni. La voce poetica di Anna Maria Curci “netta la parola come sfogliando un cespo fino al suo cuore tenero”, scrive nella accurata e illuminante prefazione Patrizia Sardisco, sottolineando proprio la capacità dell’autrice di fulminare con il verso l’attimo cogente che spetta al lettore decodificare. Già il titolo della silloge si pone come primo nucleo generativo di indagine: nei giorni per versi, anaforico e musicale; trascorrere i giorni inseguendo i versi, dedicando tempo ai versi; ma anche nei giorni per-versi, laddove il tempo si manifesta nella sua valenza persecutoria. Le centosettantatré quartine di endecasillabi che compongono la raccolta si snodano senza soluzione di continuità riferendoci un quadro diaristico che fulmina riflessioni, ricordi, squarci di ironia e fustigazioni di costume in un ensamble (e uso questo termine a ragion veduta per l’intrinseco innesto musicale dei versi) di risonanze che coniugano motivi di cronaca quotidiana e colti riferimenti letterari. Il genere letterario che Anna Maria Curci declina in questa raccolta è l’epigramma, canone dominante per l’espressione poetica che traduca in rapida sintesi un’arguta e mordace critica:

 

“Quei rondinotti rannicchiati all’Elba

sono cresciuti, si son fatti corvi.

Non gracchiano, starnazzano eleganti,

librano versi telecomandati”.

 

Metafora del proliferare versificatorio, la quartina ricorda le novecentesche schermaglie di poeti quali, solo per citarne alcuni, Caproni, Montale e Flaiano che se le mandavano a dire tanto in maniera manifesta quanto in metafora. E ancora Curci:

 

“Si affanneranno nuove schiere d’api

a degustare (già mutato il gene)

sputando il seme, trattenendo il vago.

Il festone chiassoso empie le gote.”

 

Garbo ed eleganza accompagnano l’ironia e il rammarico per l’uso-abuso del genere poesia, parola che può ritorcersi contro:

 

“Quando mi troverai già sfilacciata

dalla tua attesa inerte, mio poeta,

bollandoti la fronte penserai

che mai io sono innocua, io parola.”

 

Sferzante monito al doveroso riguardo che  esige l’espressione poetica. Ma l’obiettivo della nostra poetessa zooma anche su altre realtà, indaga la contemporaneità, gli affetti, l’arte, ha sguardi di tenerezza per il passato:

 

“A fine luglio, nei giorni di pioggia,

giocavamo a Monopoli o a Carriere.

Meteo e tempo ci erano propizi.

Mai più sarebbe stato come allora.”

 

Andando avanti nella lettura incontriamo quartine di carattere intimo, la poetessa a confronto con se stessa, un’eva versus eva, donna, figlia, moglie, madre, docente, che si ritrovano infine in un unicum.

“Mi cullo in quello che di me dicevi;

          metà e metà, formica e poi cicala,

          un ibrido che ascolta, stipa e canta.

          Ti cerco nella sera sopraggiunta.”

 

E allora i versi si abbandonano  all’umbratile malinconia, alla tentazione di una resa dei conti, ai fatali distacchi, “oggetti smarriti alla dogana”. La lettura ci aggancia alle pagine e una dopo l’altra non sai più quale quartina scegliere da citare per chiudere questa mia breve nota di lettura:

“Man mano che si accende lume a lume

           Sostiamo nel silenzio che rapprende

           Lo squarcio all’improvviso rivelato.

           Noi che veniamo al mondo lacerando.”

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

 

 

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

VITE ORDINARIE di Franca Alaimo (Ladolfi Editore)

22 mercoledì Apr 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ Commenti disabilitati su VITE ORDINARIE di Franca Alaimo (Ladolfi Editore)

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Franca Alaimo

Il romanzo di formazione di una donna che voleva spezzare le catene del perbenismo

Questo denso romanzo è la storia di un rapporto di affetto e di complicità fra due donne, due cugine, attorno alle quali s’intrecciano le vite di molti altri personaggi, sia dell’ambito affettivo-familiare sia di carattere occasionale, che hanno in qualche modo contiguità con le protagoniste principali. La narrazione inizia con l’attesa di una fine: Giovanna aspetta una notizia che sa essere funesta e l’attende prendendosi cura delle sue rose e divagando con la mente su alcuni ricordi. Comincia così a delinearsi la natura di questo rapporto parentale, che non si spezzerà mai se non con la perdita fisica di una delle due parti. Giovanna è stata una bambina vivace, intelligente e creativa, dotata di grande volontà e di acuta sensibilità; ha conosciuto molto presto la verità sulla sua condizione di figlia adottiva, ma ha taciuto, macerandosi nel desiderio di conoscere le sue reali origini e manifestando talvolta insofferenza verso i propri genitori adottivi. Ha un rapporto di affettuosa intimità con il padre, non così con Luisa, la madre, con la quale entra ben presto in conflitto. In questo triangolo familiare si configura il legame con la cugina Nina, di alcuni anni maggiore di lei, che con il tempo diverrà di reciproco scambio anche intellettuale. Iniziamo così ad entrare nell’apparato parentale di Giovanna, costituito da nonni, zii, cugini e affini, che cominciamo a conoscere man mano che sfilano davanti al corpo senza vita di Nina, riportando alla memoria di Giovanna tutto il passato. Rivedere la signora Cannella, amica della madre, apre il primo spaccato di ricordi: Giovanna, che è appena una ragazzina, accompagna la madre dall’amica e, non vista, ascolta le loro conversazione; scopre così che la mamma mette in discussione il suo aspetto fisico che ritiene affatto attraente. La giovane entra in conflitto con la madre, il suo carattere si fa indipendente e determinato, ribelle all’educazione repressiva che le si vuole imporre. E’ Nina, la cugina più grande, che la protegge e  le permette di vivere con lei le esperienze di donna adulta. In queste pagine, come in molte altre, l’autrice mostra una notevole vocazione  per la descrizione dei particolari: luoghi, figure fisiche, natura, tutto viene filtrato dal suo occhio attento ai minimi dettagli e questo definisce il codice stilistico del romanzo.

Il libro è suddiviso in venticinque capitoli, ognuno dei quali rilascia una tessera del mosaico che andrà a costituire il percorso di Giovanna dalla fase preadolescenziale alla maturità, e in questo senso uno snodo importante è il capitolo sette che descrive l’incontro della protagonista con la coetanea Costanza. Sono pagine particolarmente intense, che raccontano di un’amicizia vissuta come un’iniziazione in un’atmosfera di rigore mistico. Siamo nella settimana santa e Giovanna si trova con i genitori ad assistere alla processione del Venerdì Santo dai balconi della casa di Costanza. Chi ha avuto modo di conoscere e seguire almeno una volta questa pratica religiosa ritroverà in queste pagine la stessa emozione e la stessa contrizione che essa induce nell’anima di chi la segue. L’autrice ne fa una descrizione così dettagliata e partecipata, così figurativamente esatta da far sentire il lettore emotivamente presente. Tutto è rappresentato in forma minuziosa e realistica: i cestini con i petali di rose, il balcone adornato da una tovaglia di lino ricamata, la processione che esce dalla Cattedrale e sfila per il corso, il Cristo e l’Addolorata. Finita la processione, le due ragazzine si allontanano dai grandi per rifugiarsi nella camera di Costanza e scambiarsi le proprie confidenze. Qui si consuma metaforicamente il passaggio di Giovanna dalla condizione infantile allo stato dell’adolescenza; con l’acquisizione del drammatico segreto che Costanza confida all’amica e con la scoperta dei loro corpi nudi le due giovinette si avviano al loro destino di adulte.

Giovanna e Nina, pur amandosi, si scontrano sulle questioni dei principi morali e religiosi e sulla condotta di vita. La prima avverte fin dall’adolescenza l’esigenza di scavalcare l’educazione piccolo-borghese dell’entourage familiare, di affrancarsi dalla famiglia e di vivere nella libertà l’amore per l’arte; la seconda, pur avvertendo il cambiamento sociale in atto, non possiede l’energia intellettuale della cugina e resta imprigionata nei pregiudizi e nei tabù che le sono stati trasmessi. Il loro rapporto resta comunque integro e insieme attraversano la temperie del ’68, seppure con aperture diverse. Nina rimane permeata dal suo involucro convenzionale, Giovanna, ormai studentessa universitaria, frequenta i colleghi della contestazione e condivide i loro programmi, più per una forma di provocazione verso l’educazione ricevuta che per vero impegno politico. Il romanzo è anche la rappresentazione di una fetta di società piccolo borghese attraverso la cui esistenza è possibile conoscere, e per alcuni lettori ri-conoscere, usi e costumi di un tempo ormai superato ma anche la rete di affetti e di complicità che univa i componenti di una famiglia e i loro piccoli espedienti per la sopravvivenza e per il mantenimento dell’immagine sociale. La struttura formale di Vite ordinarie è organizzata in modo che ogni capitolo risulti una narrazione a se stante che, se estrapolata dal contesto, può essere letta come un racconto concluso. Costanza, La signora Cannella, La storia di Sebastian, Il giorno delle lumache, solo per fare degli esempi, vivono autonomamente pur essendo parte integrante del quadro d’insieme. Franca Alaimo compie con questo romanzo un percorso nel tempo, la sua Giovanna non fa bilanci, non si arroga nessun diritto di giudizio, prende atto del corso che ha avuto la sua esistenza e va avanti consapevole della ricchezza e delle perdite che la vita ha in serbo per ogni creatura e, alla fine, vince la scommessa.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Di Pirandello poeta

01 mercoledì Apr 2020

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Di Pirandello poeta

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Luigi Pirandello, POESIA

Di Luigi Pirandello romanziere e drammaturgo non si finisce mai di scrivere, poco invece si ricorda della sua modesta (per numero) produzione poetica della quale in definitiva non si è mai detto troppo bene. Personalmente ho avuto modo di parlarne in un convegno a lui dedicato in quel di Porto Empedocle, suo e mio paese d’origine, e nell’occasione portare alla superficie quella parte della sua opera considerata minore. Luigi Pirandello pubblica la sua prima raccolta di poesie, Mal giocondo, nel 1889 a Palermo e l’ultima, Fuori di chiave, nel 1912 a Genova. La sua produzione poetica copre quindi un arco di tempo a cavallo fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, periodo di transizione fra due secoli, momento storico caratterizzato dal tramonto della civiltà del positivismo e dal sorgere di un’epoca protesa alla ricerca di nuovi valori e altre certezze. Ciò genera nel poeta quello smarrimento morale che egli indaga nel saggio giovanile Arte e coscienza d’oggi, nel quale fra l’altro si pone questa domanda:”Quali saranno le norme della condotta, quali azioni saranno reputate giuste o ingiuste?” Interrogativo ancora attuale, per motivi certo diversi ma non per questo meno importanti. Il disorientamento di cui parla Pirandello in questo saggio investe soprattutto i giovani dei quali egli dice:”(I giovani) danno di sé uno spettacolo ancor più triste. Nei(loro) cervelli e nelle (loro) coscienze regna una straordinaria confusione“. Il passaggio da un secolo all’altro è quello che abbiamo vissuto e viviamo anche noi, poeti contemporanei che hanno varcato la soglia del duemila direi quasi con la stessa confusione, con gli stessi problemi di coscienza, sebbene di natura diversa e di altra provenienza. La crisi a cui si riferisce Pirandello è quella dell’Italia post-unitaria, della repressione dei Fasci siciliani, dello scandalo della Banca Romana che metteva il dito nella piaga della corruzione della classe dirigente ed è la crisi storica e la delusione giovanile che irrompono in Mal giocondo,  libro che già nell’ossimoro del titolo riconduce alla visione di tutta la tematica pirandelliana. In questa prima prova poetica dello scrittore agrigentino si rileva la sfiducia nelle classi dirigenti, negli uomini politici responsabili di mal governo, in uno stato rimasto sostanzialmente burocratico e poliziesco. L’amarezza che ne viene fuori per il fallimento delle speranze risorgimentali sarà poi espressa più compiutamente nel romanzo I vecchi e i giovani dove assume contorni più decisi e densi di significati simbolici. A questa tematica fa da contrappunto la polemica contro la repressione dell’eros, il desiderio di vita e la ribellione alla convenzionalità delle leggi moralistiche. La cifra stilistica è sostenuta da una lingua viva, lontana dal logorato uso letterario e rinnovata da un’espressione semanticamente essenziale.

A monte della seconda raccolta, Fuori di chiave, si intravede in filigrana la poetica del saggio L’umorismo, quel “sentimento del contrario” che nella poesia Preludio orchestrale riporta alla condizione dell’uomo che avverte la pena di non essere in armonia con se stesso e con il mondo, che si sente creatura alienata, appunto “fuori di chiave”. Il tema della dissociazione della personalità, delle molteplici espressioni dell’io, delle “forme” in cui vive l’individuo, gabbie che lo imprigionano e lo separano dall’altro se stesso, è ancora attuale e vissuto in certa poesia contemporanea che avverte il disagio di un’esistenza priva di certezze e d’ogni consolatoria illusione, vittima della cosiddetta società dell’immagine che ha costruito modelli fisici sempre più diretti alla perfezione fisica e sempre meno tesi alla vera ed autentica essenza dell’uomo. Nella poesia Ritorno, scritta a Porto Empedocle nel 1910, Pirandello affronta il legame che unisce l’uomo alle sue radici geografiche. Egli parla all’altro se stesso, al giovane che dal terrazzo della sua casa, “cassero d’una nave a cui volgea/prospera allora e lieta la fortuna“, sentiva la smania dell’attesa che lo allontanava da tutto ciò che lo circondava. La fisionomia del borgo marinaro, la realtà fisica e sociale del luogo (il porto, il mare, le banchine dalle quali gli zolfatari trasportavano lo zolfo sulle navi da carico) ritornano accompagnate dall’amarezza per l’avversa sorte che “cangiò la fortuna” della sua famiglia. Non sembri allora peregrino accostare questa tensione poetica all’attuale filone di tanta letteratura dell’emigrazione, spesso espressa nell’ambigua valenza di desiderio di appartenenza alla nuova terra e nostalgia dell’habitat originario.

Pirandello poeta avverte l’esigenza del rinnovamento del linguaggio, cerca una sua originale lingua che non percorra strade già sperimentate e sebbene molti dei temi affrontati siano fisiologicamente inattuali possiamo riconoscervi l’estetica baudelairiana della condizione poeta: un sovversivo che crede nella forza della poesia come atto d’accusa verso un sistema governato da leggi se vogliamo utopiche ma necessarie alla sopravvivenza dell’artista.

Anna Maria Bonfiglio

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Il mito del tango nella poesia di Borges

18 mercoledì Mar 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura

≈ Commenti disabilitati su Il mito del tango nella poesia di Borges

Tag

Anna Maria Bonfiglio, argentina, buenos aires, gaucho, Jorge Luis Borges, tango

Colin Staples 1959 – Argentine Figurative and Portrait painter

 

Nell’universo letterario borghesiano il tango è lo specchio della popolazione argentina, un simbolo che la identifica. “Identità” è infatti la parola chiave nei testi che il poeta argentino compone per il tango. Egli ha vissuto nel periodo in cui la popolazione del suo Paese era costituita da un coacervo di etnie e di culture e dunque alla ricerca di un’unità costituita; il tango, in quanto espressione di una tradizione secolare che univa molti popoli, era il mito che poteva identificarli. Il tango e il sainete, un componimento teatrale di origine spagnola che in un solo atto rappresentava in modo giocoso aspetti e costumi della vita popolare, sono le due voci a cui Borges assegnerà la valenza archetipa degli abitanti di Buenos Aires. La figura dell’eroe che iniziò il mito del tango è secondo Borges il Gaucho. Così egli lo descrive in una sua poesia:

“Figlio di qualche confine della pianura

Aperta, elementare, quasi segreta,

gettava il saldo laccio che trattiene

il saldo toro dalla cervice scura.

Si battè con l’indiano e lo spagnolo,

morì in alterchi di taverna e di gioco;

diede alla patria, che ignorava, la vita,

finché a forza di perdere, perse tutto.

Nomi non restano, ma il nome è rimasto.”

Da questa poesia, di cui ho citato solo l’incipit, comprendiamo che il gaucho era un elemento marginale della società, viveva nelle pampas, era allevatore o mandriano e, avendo combattuto su vari fronti, il coraggio e l’onore erano la sua fede. Gli elementi distintivi del carattere gauchesco che vengono citate nelle poesie del tango sono l’orgoglio dell’uomo che vive libero e fiero in mezzo alla natura e la sua abilità magistrale di maneggiare i coltelli. Il gaucho non riesce a riconoscersi con e nella città che cambia e si industrializza e perciò vive isolato, anche a costo di rimanere emarginato o di essere sfruttato.

La seconda figura-mito di questa tranche di poesie borghesiane è il compadre e più ancora il compadrito. Il compadre, che abita nei sobborghi della capitale, è il capo del quartiere, simbolo di autorità e coraggio, ricco d’orgoglio e pronto alla vendetta,  vive una gerarchia dove lui è il massimo esponente, sotto di lui vi sono i compadritos. Evoluzione del gaucho che va mutando veste per inserirsi nella nuova società urbana, egli è un soggetto ribelle, alla ricerca di libertà e di una terra senza leggi, l’unico valore a cui si attiene è l’amicizia e per essa è disposto a combattere fino ad uccidere o ad essere ucciso. Il compadrito è colui che trasforma in passi di danza il gioco di coltelli di cui è maestro e con cui esprime la propria virilità. L’immagine del coltello assieme al tema della morte si trova in tutte le milonghe scritte da Borges e pubblicate nella raccolta “Poesie per le sei corde”, ciascuna di esse è un documento di fatti di cronaca nera, di eventi storici o di vicende realmente accadute, “Dietro le pareti sospettose il Sud custodisce un pugnale e una chitarra”, scrive nel poemetto Il tango.

Nella poesia “Milonga de dos hermanos” è raccontata la tragica storia dei fratelli Iberra: entrambi maestri nel gioco del duello si sfidano coi coltelli ma uno dei due tradisce l’etica della competizione uccidendo l’altro con la pistola. Metafora delle lotte fratricide iniziate con la vicenda biblica di Caino e Abele, nel testo è sottesa l’accusa di tradimento e di vigliaccheria, perché nel codice morale del barrìo è il coltello l’unica arma prescritta per i duelli. Nella “Milonga di Don Nicanor Parades” viene tracciato il ritratto di un compadrito del rione Palermo, suo feudo, dove egli brilla per il suo aspetto elegante e per l’uso dei modi duri con cui risolve i contrasti, ucciso nell’anno ‘90 dell’Ottocento per mano di un altro capo. Così lo descrive Borges:

“Lisci e duri i capelli

E quell’aspetto da toro;

mantellina sulla spalla

e sfarzoso anello d’oro”.

Tutti i personaggi cantati nelle milonghe di Borges hanno in comune la lotta e la morte, la chitarra e il coltello. I testi sono racconti di storie individuali che si tramandano nel tempo, leggende a cui l’autore assegna un codice epico per caratterizzare la natura dell’uomo argentino. Il teatro in cui prendono vita i fatti narrati sono i luoghi più nascosti di Buenos Aires, l’arrabal, i suburbi, i luoghi della memoria, unici e straordinari, scaturigine dell’opera borghesiana.

Raccontando in poesia i miti e le leggende di una terra il cui popolo si è costituito dall’amalgama di civiltà e culture diverse fra loro, Borges ha creato un epos, una teoria sulla quale appoggiarsi per identificare nell’eroe del tango la figura che porta la matrice genetica degli argentini. Alcuni studiosi negano che Borges abbia creduto veramente a questa idea di identificazione, mentre altre voci sostengono che egli stesso, sentendo dentro di sé la necessità di trovare una radice comune con il suo popolo, si sia autoconvinto che all’origine della nuova popolazione argentina ci fosse questo eroe del tango, ruvido, smargiasso e sentimentale, pronto ad amare e a uccidere ma sempre fedele ai valori dell’onore e della solidarietà. La Buenos Aires dell’arrabal e del quartiere Palermo sarà sempre per lo scrittore il fulcro creatore dei miti leggendari del suo Paese e del suo popolo.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

8 MARZO, UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE

08 domenica Mar 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, CULTURA E SOCIETA'

≈ Commenti disabilitati su 8 MARZO, UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE

Tag

Anna Maria Bonfiglio

by Elif Sanem Karacoc

by Elif Sanem Karacoc

Succede a volte che seguendo le informazioni diffuse dai mass media, tv, giornali, internet, sentiamo pronunciare una parola tanto ripetutamente che finiamo per assuefarci al suo suono e a svuotarla del suo vero e profondo significato. Diventa improvvisamente un topos, un luogo comune che tutti, per strada, nei salotti, nelle conversazioni fra amici, usiamo senza soffermarci più di tanto sul valore e il peso che può avere. Credo che tutto questo possa essere applicato al termine femminicidio, che sentiamo pronunciare ogniqualvolta accade che venga uccisa una donna per mano dell’uomo che le è affettivamente e sentimentalmente più vicino. Femminicidio è espressione dal significato terribile che definisce l’uccisione di un essere umano in quanto appartenente al genere femminile, quello che la filosofa De Beauvoire, chiamò provocatoriamente Secondo sesso. La donna è l’Altro, afferma nel suo famoso saggio la scrittrice, è quello che l’uomo, nel suo considerarsi Soggetto, colloca nella posizione di Oggetto. Su questa situazione di non riconoscimento si è fondato e si perpetua il concetto di subordinazione del genere femminile. A distanza di tanto tempo la riflessione della filosofa francese rimane attuale ed è ancora legittimo porsi la questione della gerarchia dei sessi e domandarsi se sia finalmente possibile accogliere in maniera definitiva nel contesto intellettuale e sociale l’idea di “genere” inteso come categoria che raggruppa la specie umana. Perché malgrado la conquista sul piano formale e ideologico dell’uguaglianza resta il problema dell’impostazione dei rapporti fra i sessi, problema perpetuato nel corso dei secoli ed ereditato dalla concezione biblica di Eva nata da un osso in soprannumero di Adamo, e cioè di un “essere occasionale”, come lo definisce San Tommaso. Nel n.28 del Bollettino Archivio Pace Diritti Umani del 2004 è riportato testualmente: “Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza su donne significa mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno in quanto […] manifestazione di un rapporto tra uomini e donne, storicamente diseguali, che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne”. A questa sorta di “scellerata categoria” vanno ascritti crimini di varie specie: stupri, stalking, percosse, omicidi, vessazioni, abusi sessuali, maltrattamenti fisici e psicologici, prostituzione coatta; e possiamo anche aggiungere escissione ed infibulazione, pratiche ancora in uso in alcune popolazioni. In paesi come India e Cina il femminicidio si è concretizzato addirittura con gli aborti selettivi, impedendo alle donne di partorire figlie femmine. E’ una violenza che intacca i diritti umani, un impressionante segno patologico della civiltà contemporanea che si manifesta tanto nei paesi industrializzati  che nelle zone in via di sviluppo e che investe tutte le classi sociali e culturali e tutti i ceti economici. E nonostante il problema sia stato ed è affrontato attraverso interventi di varia natura, la società e la cultura si trovano ancora davanti ad un lungo cammino i cui esiti sono ancora molto deboli. Tuttavia bisogna perseverare a parlarne e a scriverne, per continuare ad incidere sulla società e sulle istituzioni, perché la violenza maschile sulle donne non è solo una questione privata ma anche sociale e politica, un fenomeno pericoloso in quanto espressione estrema di potere e di prevaricazione. A tutta la società civile è dunque demandato il compito di intervenire per non rischiare di abbassare la soglia di attenzione verso una piaga che sta diventando sempre più virulenta. Nella politica, nell’economia, nella cultura, nella scuola, metta ciascuno anche un piccolo mattoncino perché possa crescere e radicarsi l’idea di un Genere Umano svincolato dalle differenze. Cosa possono fare i poeti, retoricamente definiti esseri avulsi dalla realtà? Siamo consapevoli che un libro di poesia non fermerà  lo scempio che si compie sulle donne, né basteranno gli spettacoli, i documentari, le inchieste. Pure, tutto questo qualcosa fa: aiuta a capire. E capire significa prendere coscienza che quei fatti di cronaca che ci turbano fuggevolmente, fra una notizia e l’altra, sono vicini a noi più di quanto crediamo, significa smuovere le acque ancora stagnanti di una cultura arroccata su concetti resistenti a morire. E significa anche aiutare le donne vittime di violenza a rendersi consapevoli che dall’oscurità del tunnel in cui sono cadute si può fuggire superando la paura e la vergogna, ribellandosi, accusando, denunciando. Noi, donne e uomini, abbiamo il dovere e il diritto di prendere posizione, ciascuno con le proprie competenze. I poeti hanno la parola e di questa si servono per fare sentire la voce del loro dissenso. Ascoltiamoli. L’antologia Cuore di preda,  nata per volontà di Gianmario Lucini, poeta, critico e editore, intellettuale impegnato civilmente a denunciare e combattere l’ingiustizia e il decadimento morale, scomparso purtroppo prematuramente, raccoglie i testi di ottantasei poetesse che declinano il tema del femminicidio e della violenza di genere dando voce al silenzio che accompagna il dolore delle vittime. Scorrendo i testi di questa raccolta percepiamo i nuclei tematici più forti e più pervasivi dell’argomento violenza, legati da un filo rosso che attraversa vicende dolorose e traumatizzanti mutuate da fatti reali di cui quasi giornalmente veniamo a conoscenza. E non è fuori luogo o esagerato parlare al riguardo di una forma di “olocausto”, in ragione del fatto che si tratta di una violenza dettata dalla volontà di esercitare un potere che annulli, cancelli, estingua il genere femminile, non come esistenza fisica, ma come esistenza sociale e psicologica, come volontà di esprimere se stesso, come autoaffermazione di entità non omologabile. Cuore di preda è il genere femminile, ancora raccolto “in un mondo di buio, nucleo di resistenza sacro, eredità lasciata dalla madre”, come lo definisce la poesia di Anna Elisa De Gregorio, una delle poetesse inserite nell’antologia. Perché è già dalle madri che si va configurando l’esistenza delle figlie, madri che subiscono percosse e tacciono per vergogna e dichiarano, per obbligo verso se stesse, di amare ancora il loro uomo anche se confessano, come leggiamo nei versi di Marinella Polidori,  “il dovere coniugale fu la vera sofferenza, accettata con devota ripugnanza”. Di donne destinate a subire parla la poesia di Nunzia Binetti: “Io merce in tuo possesso, io cosa per editto maledetta, finto monile, silenzio indotto, resa, mai altro che utero o marsupio, che zagara sfiorita nel giardino…” E di una detenzione volontaria, determinata dall’impossibilità del corpo a ricercare un senso nuovo dopo il deturpamento, dopo l’oscurità di un abisso di cui ci si sente complici, parla il testo di Maria Teresa Ciammaruconi: L’uomo che ha vessato ha perso vigore, è ormai incapace di prendere e di dare, sarebbe facile fuggire, ma la violenza ha generato assuefazione, la paura ha svilito ogni desiderio di libertà, il danno è irreversibile. La donna confessa: “La tua rinuncia è la mia prigione senza sbarre, violenza non codificata per detenzione a vita. Incapace di cattura il predatore muore e condanna la preda alla solitudine della sicurezza.” E’ proprio dalle madri e dalla famiglia che inizia il percorso verso l’annientamento di sé; con il silenzio, con le giustificazioni, lasciando al più forte il potere di tenere sotto scacco la parte debole del nucleo affettivo si permette che si radicalizzi una condotta immorale e corrotta. “Come un ragno le teneva otto zampe sul suo corpo di bambina (…) Chiuse gli occhi che luce non vedesse la vergogna della tenera carne…” Così scrive Narda Fattori. Della crudeltà esercitata sulle donne bambine nei paesi arabi leggiamo nella poesia di Paola Turroni: “Quasi quindici anni e la stanchezza di essere già stata donna (…) bambina una volta…mia nonna mi ha preso di nascosto…mi portava dall’altra parte del villaggio. Mi ha tagliato con un vetro di bottiglia dice che ora sono aggiustata…” Aggiustata con la violenza per essere consegnata al marito, per diventare “vecchia senza pietà e rabbia, il tempo di fare un bambino se hai spazio per un feto”. “Lo so tu vuoi farmi affondare e temi la mia forza mi spingi giù per la china con i tuoi pregiudizi non ascolti non vedi non sopporti i miei NO”, sono i versi di Anna Zoli che sintetizzano ogni realtà di violenza, la verità ultima della questione: l’affermazione del potere maschile.

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Nota critica di Anna Maria Bonfiglio su “La ragazza che sognava la libertà” di Clelia Lombardo, Gruppo Editoriale Raffaello, 2020

10 lunedì Feb 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ Commenti disabilitati su Nota critica di Anna Maria Bonfiglio su “La ragazza che sognava la libertà” di Clelia Lombardo, Gruppo Editoriale Raffaello, 2020

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo

È il pomeriggio del 23 settembre del 1983 quando una giovane donna entra in un negozio di articoli sanitari di Palermo e chiede di fare una telefonata; sta componendo un numero telefonico quando un colpo di pistola la colpisce alle spalle, ferita e trasportata in ospedale muore dopo poche ore. L’assassinio viene rubricato come “omicidio a scopo di rapina”, la vittima viene seppellita nel silenzio e i colpevoli restano impuniti. Venti anni dopo il figlio di Lia Pipitone, questo il nome della giovane, riesce, con l’aiuto di un giornalista, a fare riaprire il caso e a portare alla luce la verità di quel crimine che alla fine risulta essere stato ordinato da una cosca mafiosa di borgata e autorizzato dal padre stesso della vittima.

Clelia Lombardo, scrittrice, docente in un liceo di Palermo e da lungo tempo impegnata socialmente per i diritti delle donne, raccontando la storia di Lia mette un tassello importante nel quadro di quelle operazioni che hanno mirato e mirano a liberare le menti giovani da quei lacci patriarcali e mafioseggianti in cui molte famiglie sono ancora impastoiate. La ragazza che sognava la libertà, recentemente premiato al Festival Itinerante Kaos 2019, risulta essere, oltre che un racconto di grande equilibrio narrativo, un testo che molte scuole dovrebbero adottare per far conoscere agli studenti la persistente realtà di chiusura mentale nei confronti delle giovani donne alle quali ancora non si perdona la libera scelta e l’autodeterminazione. Clelia Lombardo sfiora l’argomento con delicatezza, affidando alla storia di Lia il compito di trasmettere il giusto livello di comportamento per l’acquisizione della propria coscienza. Senza volere impartire “lezioni”, l’autrice conduce i lettori verso la riflessione e le deduzioni producendo un effetto didattico di ritorno.

L’io narrante del libro è Caterina, un’adolescente che vive, come tutti gli adolescenti, la realtà del suo tempo, è intelligente, curiosa di conoscere, ma anche timida, e insicura su quelli che vengono definiti “affari di cuore”. Un giorno ascolta casualmente una trasmissione televisiva in cui si parla dell’uccisione di una donna avvenuta venti anni prima e da quel momento inizia a fare pressione sui genitori per sapere di più su quel fatto di sangue che la inquieta. Si mette in moto, allora, un percorso di narrazione costituito sia dai fatti che dai percorsi fisici dei luoghi in cui essi sono accaduti, in modo da avvicinare la ragazzina alla comprensione di una vicenda orribile senza che ne sia totalmente sconvolta. È il primo atto di un’azione “educativa” svolta da due genitori maturi e consapevoli, disegnati dall’autrice con completezza e competenza psicologica, personaggi esemplari anche nella loro debolezza di ex-giovani a cui è mancata l’azione risolutiva dei problemi sociali e civili del loro tempo. Caterina viene un po’ per volta immessa nella realtà vissuta dai propri genitori, comincia a conoscerne il passato, le lotte e le delusioni, prende visione di una parte di mondo costituita da violenza e sopraffazione, in breve viene catapultata emotivamente “nella storia”. Allo stesso tempo si definisce in lei il rapporto con la sua città, Palermo, territorio problematico, ricco di arte e cultura ma depredato e invischiato in trame di sangue.

Ne La ragazza che sognava la libertà Clelia Lombardo narra in prima persona, una scelta impegnativa che potrebbe portare a focalizzare essenzialmente il punto di vista del narratore ma che l’autrice scansa con scaltrezza affidando alle considerazioni di Caterina l’emergere delle due personalità genitoriali, coprotagonisti del racconto. Una scrittura limpida e diretta, dialoghi essenziali, prosa asciutta, una cifra stilistica che conferisce al personaggio di Caterina autenticità e rigore. Correda il libro un report in cui vengono tracciate le storie di alcune figure siciliane, istituzionali e non, vittime di delitti di mafia, un testo d’informazione che aggiunge valore all’opera.

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

“Anna Maria Ortese, la scrittrice errante” di Anna Maria Bonfiglio

05 mercoledì Giu 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su “Anna Maria Ortese, la scrittrice errante” di Anna Maria Bonfiglio

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Anna Maria Ortese

Il primo libro di Anna Maria Ortese che acquistai fu Il porto di Toledo, nel lontano 1975. Era una scrittrice a me sconosciuta ma mi affascinò quel titolo, Toledo era sì il nome di una città spagnola, ma era stato anche il nome di una via di Palermo al tempo della dominazione ispanica in Sicilia e forse, inconsciamente, questo mi aveva suggestionato. Purtroppo però la sua lettura mi lasciò spiazzata: lo trovai un libro ostico, una scrittura che era prosa ma anche poesia, diario, autobiografia; una narrazione visionaria o, come la stessa autrice la definiva, irreale. Confesso che, dopo un paio di tentativi, interruppi la lettura e collocai il volume nella mia libreria, dimenticandomene. Fu una trasmissione televisiva in cui si parlava dell’Ortese che mi risvegliò la voglia di riaccostarmi alla scrittura ortesiana, ma, ahimé, del Porto di Toledo non trovai più alcuna traccia nella mia biblioteca e ripiegai su altri due famosi libri, Il mare non bagna Napoli e L’Infanta sepolta, questa volta lasciandomi totalmente sedurre dall’opera e dalla vita di questa importante e problematica scrittrice.

Anna Maria Ortese nasce a Roma il 13 giugno del 1914 da Oreste, siciliano di nascita ma di origine catalana, e Beatrice Vaccà, nata a Napoli ma discendente da una famiglia di scultori della Lunigiana. Ha una sorella e cinque fratelli di cui uno suo gemello. Nel 1915, a causa della chiamata al fronte del padre, la famiglia lascia la capitale e si trasferisce prima in Puglia e poi in Campania, a Portici; nel 1919, alla fine della guerra, il ricostituito nucleo familiare si trasferisce a Potenza, dove Oreste ha un incarico governativo, e dove risiederà fino al 1924. Qui Anna Maria frequenta le prime classi elementari che interrompe a causa della decisione del padre di trasferirsi in Libia, allora colonia italiana. Il periodo della permanenza in Africa s’incide nella memoria della scrittrice che lo ricorderà come un tempo in cui ‘essere dentro la natura’ ma anche come ‘inferno’ vissuto in una ‘casa di pietra senza porte e finestre, col tetto metà coperto e metà no, dove dal pavimento sbucavano scorpioni, topi e scarafaggi’. Nel 1928 gli Ortese ritornano in Italia, stabilendosi a Napoli, dove la giovane Anna Maria frequenta per un breve periodo una scuola ad indirizzo commerciale, senza però completare il ciclo di studi. Questi della permanenza napoletana sono per la giovane gli anni in cui si delinea in maniera decisiva la strada della scrittura, primariamente in poesia. La morte in guerra del fratello Emanuele ispira alla giovane Ortese la poesia Manuele, pubblicata su L’Italia letteraria e confluita poi nella raccolta Il mio paese è la notte, che raggruppa le poesie scritte tra il 1930 e il 1980,  ma che viene pubblicata nel 1996. I primi racconti apparsi su L’Italia letteraria non suscitano alcun interesse  in seno alla famiglia e Anna Maria chiede a Bontempelli, allora direttore del giornale, di pubblicarli con lo pseudonimo di Franca Nicosi; tutti i racconti escono in seguito in raccolta col titolo Angelici dolori e con una nota editoriale dello stesso scrittore che così si esprime: “In questi racconti – che tutti insieme fan romanzo e poema lirico – una semplificazione spietata degli argomenti e degli atti dà lume di miracolo alle persone e cose più comuni della vita”. La scrittura di Ortese spiazza la critica militante e viene liquidata come ‘influenzata dal realismo magico’ di natura bontempelliana. L’amicizia con Paola Masino, compagna di Bontempelli, dà modo all’Ortese di approdare al Gazzetino di Venezia, città dove va a vivere, prima ospite dell’amica Paola e in seguito in una propria abitazione. Da Venezia si sposta a Trieste e quindi a Firenze, poi a Napoli, Roma, Bologna, trasferimenti in gran parte per lavoro, ma nella realtà la scrittrice non risiederà mai a lungo nello stesso posto, sia per la necessità di lavorare e trovare una stabilità economica, sia per una sorta di nevrosi da peregrinazione ereditata dal padre. Di tutti i luoghi in cui risiede durante la sua vita, e sono molti, Napoli è la città che maggiormente segna, nel bene e nel male, la sua opera. Città amata e vituperata, vissuta e ripudiata, ma profondamente radicata nella sua memoria. La vita e l’opera di Anna Maria Ortese si mescolano, confluiscono in una scrittura visionaria, lirica, irreale, radicata nella complessità delle vicende vissute e traslitterate attraverso un codice che non si apparenta a nessun’altra scrittura. Eppure il suo percorso letterario è complicato e la sua opera viene messa in discussione e riconosciuta tardivamente. Dopo la pubblicazione di Angelici dolori, nel 1953 esce Il mare non bagna Napoli, libro difficile da classificare nella nomenclatura dei generi letterari, costruito su personaggi e ricordi, amore e rabbia, presa di coscienza di una sconfitta ideologica che s’intreccia alla miseria del popolo. Di Napoli Ortese mette in scena il degrado, l’amara condizione dei sopravvissuti alla guerra, la disillusione di quegli intellettuali che avevano creduto nello scarto verso una politica di sinistra e che alla fine si erano assuefatti a ruoli convenzionali. Lo sguardo della scrittrice è impietoso e gli scrittori napoletani non riescono a perdonarglielo. E’ un ferita che s’inciderà nella sua esistenza e che l’allontanerà per sempre dalla città amata. Il libro è costituito da cinque racconti, l’ultimo dei quali è a sua volta suddiviso in sei capitoli. I primi due, Un paio di occhiali e Interno familiare, raccontano le storie di due famiglie diversamente collocate nella scala sociale: la prima appartiene al ceto più umile e povero, vive al limite della sopravvivenza e perciò nell’impossibilità di provvedere all’acquisto di un paio di occhiali per la figlia Eugenia, quasi cieca. Ortese entra nel basso dove vive la famiglia e ne esplora la geografia fisica e morale con sguardo meticoloso, trascrivendone fedelmente il linguaggio popolare e prendendo le distanze da un facile pietismo. Qui Napoli è vista nella sua veste più miserevole, non vi è amore né solidarietà fra le famiglie dei bassi, né nella famiglia di Eugenia, al massimo qualche gesto di carità. Ed è grazie a quella della zia Nunzia che la bambina ottiene infine quegli occhiali che le consentiranno di vedere l’azzurro del cielo della città. Ma attraverso le lenti lo sguardo dell’infelice Eugenia scopre la squallida realtà che la sua debole vista le aveva nascosto e il miracolo che aspettava svanisce come al risveglio di un sogno. Lo stile crudo e distaccato della scrittura di Ortese, occhio inesorabile che affonda fino al midollo dei fatti, supera in questo racconto la cifra verista pur ricordandone la lezione. Il secondo racconto, Interno familiare, mantiene lo stesso registro narrativo ma questa volta la condizione sociale cui appartiene il nucleo domestico è la piccola borghesia e la protagonista, Anastasia Finizio, una matura donna nubile che con il suo lavoro mantiene tutta la numerosa famiglia. Nell’apatia di una vita monotona e senza alcuna speranza di un ‘bene personale’, Anastasia, fredda e indifferente allo scorrere della vita, intravede improvvisamente uno squarcio di luce nel ritorno di un uomo che un tempo le è stato caro. Tutto le appare, allora, come illuminato da una luce che non aveva mai notato, per qualche ora vede la propria vita mutata, allegrata da un affetto maschile, proiettata in una dimensione in cui sarà la protagonista e non più il pilastro sul quale si regge la sua famiglia. Ma è la visione di un momento, quasi un’allucinazione, e la realtà torna a ricollocarla nella casella a cui è destinata. Ortese traccia una figura di donna vinta, incapace di affrancarsi dai doveri verso una famiglia che la tiene sotto scacco e rassegnata a vivere nel suo ristretto cerchio. Tutti i racconti de Il mare non bagna Napoli svelano di una città e dei suoi abitanti la parte più oscura e miserevole, il degrado fisico e morale, la povertà e i residui della distruzione bellica. Così Oro a Forcella e, ancor più, La città involontaria, un reportage sui caseggiati dei primi sobborghi postbellici, detti Granili, costruiti per accogliere i senzatetto sopravvissuti alla guerra. Costruzioni di infima fattura, abitati da quella parte di popolo che si fatica a credere reale, non persone ma ‘larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole di cui non serbano quasi ricordo’. E nella visita a codesta realtà inimmaginabile l’autrice viene in contatto con un’umanità fuori da ogni collocazione, una folla di personaggi, uomini, donne, bambini, stretti in ambienti umidi e bui, fra sporcizia e insetti, come in una corte dei miracoli. Una Napoli fuori da ogni immaginazione, restituita al lettore priva di quell’alone di luce e chiasso che ne costituisce il fascino mediterraneo; una scrittura asettica, da cronaca, ne effettua una specie di autopsia che ne attesti la morte. Ma la parte del libro che suscita l’imbarazzo e la collera degli scrittori amici dell’Ortese è quella del racconto finale, Il silenzio della ragione. Negli anni della sua permanenza a Napoli, fra il 1945 e il 1950, Anna Maria Ortese frequenta con regolarità i redattori della rivista Sud, un gruppo di intellettuali, fra cui Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco e Pasquale Prunas, quest’ultimo fondatore e direttore di Sud, progressisti della sinistra che mirano alla sprovincializzazione della cultura meridionalista pubblicando autori delle avanguardie e testi di poeti e scrittori stranieri. Ortese, che collabora con alcuni settimanali nazionali, riceve l’incarico di scrivere un articolo su alcuni di questi nuovi scrittori, che in forma di racconto confluirà in seguito ne Il mare non bagna Napoli. Il libro ottiene il Premio Viareggio, ma suscita rabbia e risentimento negli autori passati sotto le forche caudine della cruda prosa ortesiana e allo stesso tempo procura alla scrittrice il sincero rammarico di averli ‘traditi’. In una intervista rilasciata alcuni anni dopo, Ortese dichiara apertamente di esserne pentita: “Gli amici che si dispiacquero avevano ragione. (…) Era stato Elio Vittorini a indurmi a citarli con nome e cognome nel capitolo più lungo del libro, dedicato agli intellettuali e intitolato Il silenzio della ragione. La richiesta era ragionevole: senza nomi, quel mio ricordo perdeva senso. Ma a quelle pagine ripenso con un senso di colpa.” Fra le innumerevoli opere di Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli è un unicum: un libro di prosa che non è un romanzo, non è una serie di racconti né un reportage giornalistico; un testo che in un certo senso si potrebbe definire ‘neorealista’ per lo scenario di una città e di un popolo depauperati dalla guerra e per la dura visione di miseria morale e di degrado che avvolge Napoli e la sua gente.

La vita di Anna Maria Ortese è un percorso di erranza, di casa in casa, di editore in editore, sempre scontenta, in continuo affanno per la scarsezza di soldi, salvo poi perdere l’assegno del premio Strega; all’amico che lo ritrova e glielo riconsegna dice: “Cosa vuole, Righi, questa è solo segatura. In realtà i soldi non valgono niente. Polvere, sono solo polvere”. Tormentata da una forma di autolesionismo per quello che dice di essere: ingenua, illetterata, scartata dall’entourage intellettuale coevo, in guerra con il mondo da cui si sente respinta, in realtà pubblica con editori come Einaudi, ha frequentazioni con Vittorini e Calvino, con i clan letterari e con la grande editoria italiana. “Vorrei scrivere soltanto cose dolcissime, ma ho dovuto difendermi, e ora la mia penna è aspra, risentita”, scrive in una lettera. I suoi romanzi, invasi di sguardi e atmosfere emozionali, intessuti di misteri piuttosto che di trame, sprigionano sensazioni di vertigine per la visionarietà di cui sono intrisi, risultando talvolta enigmatici e di difficile lettura. La sua scrittura è stata riconosciuta come vocata alla “rêverie”, quello stato sognante che precede la coscienza della realtà e ne onirizza i dati, traducendoli in simboli e metafore. Onirica e straniante si presenta ad Aleardo, giunto nell’isola di Ocaňa, Estrellita, la donna-iguana, “bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori”. Tra realtà e fantasticherie si consuma l’amore di Aleardo per l’Iguana, prigioniera a sua volta del sentimento che la lega al suo padrone e che infine la distrugge. Il racconto, fra storia e favola, si fa allegoria per dirci come ogni rapporto di forza finisca per uccidere la dignità e l’amore e come l’inseguimento della felicità conduca all’esilio morale. Agli antipodi di quella raccontata ne Il mare non bagna Napoli, è la Napoli che vive nella fabula Il cardillo addolorato. Una città del tardo Settecento, teatrale, immersa nel sogno barocco, con i suoi colori mediterranei e la sua spettacolarizzazione, dove si aggirano fantasmi e folletti. Qui giungono tre viaggiatori del Nord Europa per far visita ad un celebre guantaio e qui conoscono la di lui figlia Elmina, giovane bellissima e muta ‘come pietra’, filo rosso di tutta la narrazione, alla quale viene contestata la brutale morte del cardellino di casa, ucciso e dato in pasto al gatto. Elmina e la sua vittima diventano, allora, le entità metafisiche del racconto, incarnate di volta in volta in Folletti, Streghe, Principi e fantasmi di varie fattezze, in una vertigine polisemica che accumula significati e interpretazioni. Il canto dolce e accorato del cardillo risuona nel romanzo con toni di lamento, risveglia i ‘misteri dolorosi’, quelli umani e quelli della natura, è la voce che chiede di essere ascoltata e chi la sente è colto dalla languida consapevolezza che il Bene può essere raggiunto. Ortese ha da tempo focalizzato la sua attenzione verso quelle che lei stessa definisce ‘piccole persone’, cerchio nel quale iscrive i deboli, i poveri, i perseguitati, gli animali; ne scrive sui giornali ma non sempre raccoglie consensi. Con L’Iguana, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari compone una trilogia che evoca un nuovo eden dove gli animali antropomorfizzati hanno il compito di trovare la Bellezza nascosta nella  brutale realtà e riscattarne il valore.

Anna Maria Ortese muore il 9 marzo del 1998, dopo un breve ricovero in ospedale. I suoi ultimi anni, dopo la morte della sorella, li trascorre appartata, dividendosi tra la casa di Rapallo, che è riuscita ad acquistare con l’assegno Bacchelli ottenuto per interessamento di Lalla Romano e Dario Bellezza, e un albergo per anziani a Milano. Dopo la sua morte sono state trovate miriadi di scritti, appunti, minute e carteggi, parte di questo materiale è stato preso in cura da Angela Borghesi ed è stato pubblicato da Adelphi con il titolo Le piccole persone. Il volume raccoglie alcuni suoi pezzi giornalistici, pubblicati ma mai raccolti, ed altri testi inediti, che convergono sull’impegno ecologico-ambientale e animalista della scrittrice.

Anna Maria Bonfiglio

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

EROS E MISTICISMO NELLA POESIA DI ALDA MERINI di Anna Maria Bonfiglio

01 lunedì Apr 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Segnalazioni ed eventi

≈ Commenti disabilitati su EROS E MISTICISMO NELLA POESIA DI ALDA MERINI di Anna Maria Bonfiglio

Tag

Alda Merini, Anna Maria Bonfiglio

photo by Aaron Draper

Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.

Questa breve poesia di Alda Merini, costituita da otto versi endecasillabi divisi in due quartine senza cesura, ancorché inserita in una raccolta di poesie d’amore dedicate, include una disposizione di segno più ampio, aperta anche ad altro significato. La purezza del verso, la scelta semantica e l’andamento lirico della composizione rimandano ad una misura d’amore che trascende la mera sensualità. Qui le “meraviglie d’amore” non sono solo lo stupore per il sentimento ma accolgono implicazioni di valore spirituale giacché si collegano agli elementi della natura e suscitano una gioiosa esaltazione che viene accompagnata dal tumulto dell’anima. Non si tratta dunque della “meraviglia” come sorpresa dell’incontro con l’altro ma delle “meraviglie” intese come prodigio d’amore aurorale dentro il quale perdersi (… e lì/dentro l’amore/mi son persa come alla bufera). In questo senso mi sentirei di assegnare al testo una valenza anche metafisica, un’eco mistica, e d’altra parte erotismo e misticismo sono due coordinate essenziali nella poetica di Alda Merini. Ma il sentimento erotico che investe grande parte della sua opera contiene in sé dei limiti, è intriso di nostalgia, di rimpianto, è una ricerca continua che non placa il bisogno di donarsi e che non rende felicità. E’ tanto misterico quanto è misteriosa la scaturigine della parola poetica meriniana, vibrante, sferzante, aspra e dolce, stillata da una predisposizione naturale, quasi inconsapevole. Mistero è l’inquietudine dell’anima in bilico fra lucidità e follia, mistero l’esasperato inseguimento dell’eros e il contrappunto di un misticismo al limite dell’estasi, mistero infine l’approdo alla fede, l’incontro con la Croce e la rivelazione del messaggio cristiano comunicato attraverso la visione dell’attesa come meraviglia.

La prima giovinezza di Alda Merini è segnata dall’incontro con poeti e critici già affermati nel campo della cultura nazionale, uomini molto più grandi di lei, dai quali impara quello che gli studi incompiuti le hanno negato. “(…) sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini. Erba, Pasolini, Turoldo, Manganelli.” E da qualcuno di questi grandi, grandi anche anagraficamente, viene attratta e coinvolta sentimentalmente. E’ facile immaginare quanto in questo pesi la figura del padre dal quale la giovane si è sempre sentita compresa. Racconta: “Mio padre aveva capito il mio destino di monaca e l’aveva aiutato. Mia madre lo aveva combattuto (…) e così mi obbligò a sposarmi. (…) Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed onerosa di quella dei Santi e non c’è grazia che possa illuminare una madre se non quella che viene direttamente da Dio.” La Merini nutre ammirazione per questa madre dalla rigida volontà e dalla notevole bellezza ma al contempo prova gelosia per il rapporto di forte complicità che avverte fra i genitori e fra i due sceglie il padre dal quale riceve insegnamenti e al quale chiede approvazione. Figura di riferimento, dunque, quella paterna, inseguita nelle tante presenze maschili e ritrovata come Padre Eterno alla fine del suo percorso.

La poetica dell’Eros è in Merini un dolore che nasce da radici profonde, percorre la sua vita e la sua scrittura e in fondo si riduce ad una privazione sofferta, ad un bisogno di elevare lo spirito verso qualcosa di ideale e di trascendente. Alla fine è una condizione di solitudine e di vuoto che si riconduce alla necessità di farsi “abitare” da un’Assenza mistica. “Basta un sorriso o un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”. Tutto l’arco dell’esistenza di Merini è percorso da una tensione erotizzante che la conduce verso esperienze amorose che la poesia esalta o maledice ma sempre sublima attraverso la parola affabulante, temeraria nella sua sostanza per i tratti del vissuto che “osa” raccontare e audace nella sua forma per il privilegio di poter coniugare costruzione lirica e libertà versificante. Eppure il turbamento sensuale la prova, considera una condanna la sua appartenenza al sesso femminile al punto di stabilire quasi una relazione fra la follia e l’essere donna: “L’uomo che vuole imporre la sua diversità con la violenza fa pensare che nascere donna sia quasi un invito al delitto. (…) E ancora: “Il marchio manicomiacale della donna sono proprio i suoi genitali. Ogni donna è stata nel proprio manicomio. Ogni donna, benché si coprisse, ha dovuto sottostare alle voglie del maschio dopo la battaglia. (…) La donna viene umiliata ogni volta che ride ed è felice di se stessa.” Questa sorta di abiura ha radici lontane, nel tempo in cui la giovanissima Alda si scopre gelosa del rapporto fra i suoi genitori. Scriverà infatti: “Il più grande dualismo della mia vita furono mio padre e mia madre. Io un figlio che stava nel mezzo, con un sesso che non mi piaceva.” La complicità con il padre, considerato “il primo maestro”, è pari all’ostilità nei confronti della madre, ritenuta collerica e autoritaria. Scriverà in seguito a proposito della figura materna: “Sono anni che ti penso, e sebbene tutti dicano che sono impazzita per amore, sbagliano. Io sono impazzita per te. Sei stata la donna che ho odiato di più nella vita, perché eri bella, stupenda, regale…”

Nella prima raccolta di poesie, La presenza di Orfeo, inizia a prefigurarsi la dualità presenza-assenza (si vedano i versi: “Orfeo novello amico dell’assenza”) e a delinearsi la percezione del corpo come limite e dell’amore come destino di abbandono; mentre in Paura di Dio si annuncia la tensione che ascende alla preghiera e si manifesta la concezione della passione amorosa come Vetta e Abisso. (“Padre, se questa ascesa/ è simile all’abisso e colorata,/ prosperosa ogni vena di ricordo,/ dammi morte ossequiosa/ dei miei ciechi travagli/ e una pura deriva/ a cui possa ancorare ogni divieto”). Qui Dio è ancora presenza indefinita, duplice entità che ha volto luminoso per chi non conosce travaglio ed occhi foschi per le anime inquiete che si scontrano con “l’ombra nemica” brancolando nel buio. Tutta la raccolta vibra di stanchezza interiore, nasce il dolore, “parto ultimo e solo”, per essere inghiottito dal respiro perfetto della morte (Pax). La preghiera è urgenza, solo Dio può porre fine al tormento scatenato dai turbamenti d’amore “perché è a Te che io tendo dalla vita/ prima che conoscessi questi inferni.”

Amore-amori-amanti: cosa cerca Alda se non l’Amato?  E’ una lunga ricerca durante la quale si mettono in uso tutte le armi, è una corsa dentro la quale sta la paura e la follia, è un percorso di attesa e nostalgia,  di accensioni e spegnimenti, di forza e di delusione. “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato /l’amato del mio cuore;/ l’ho cercato ma non l’ho trovato.” Dichiara la sposa del Cantico dei Cantici.  E così Alda non si stanca di percorrere sentieri bui, di bruciare di passione per ogni incontro, e ogni amore è per lei un’Annunciazione, anche quando il tempo ha accumulato anni e segni sul suo corpo e sulla sua anima. Cambia l’apparato simbolico, resta l’attesa, la ricerca di un unico volto che ha assunto vari nomi o, cambiando i termini, di un solo nome che si è rivestito di tanti corpi. Le duplici nozze, gli amanti goduti e quelli solo desiderati, le fantasie erotiche avvolte in dense metafore o espresse con linguaggio esplicito, tutto si riconduce al bisogno di abitare il vuoto, di popolare il deserto dentro cui l’anima vaga anelando il congiungimento che le renda un’identità unica. Già Pasolini, recensendo La presenza di Orfeo, parlava della “ragazzetta milanese” come di una personalità “dall’inquietudine nervosa e dai sensi infelici (…) che vive uno stato di informità” e continuava “(…) soltanto la mancanza del senso d’identità configura nella Merini un dato mistico.” E’ la luce mistica della sofferenza che accompagna il cammino della poetessa nella ricerca di una identità d’amore: “Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento/gemmando fiori da ogni stanco ramo/ e fiorita son tutta e d’ogni velo/ vo’ scerpando il mio lutto” (Genesi). Nella ricchezza dell’amore, genesi che cancella il lutto per ciò che è andato perduto o che mai si è trovato, si riflette quella sorta di misticismo umano che pervade l’eros quando è totale e felice, quando è dono di sé all’altro, quando è fecondo di intenti nei quali riconoscersi. Trovare l’Amato e perderlo e non stancarsi di ricominciare a cercare, perché la ferita della sua assenza è inguaribile e la nostalgia più grande del desiderio di arrendersi. La parola meriniana, corporea e fremente, racconta l’autentica essenza a cui appartiene primariamente la natura del poeta: materia di sensazioni che l’intelletto traduce in realtà metaforica, rivelazione misterica e testimonianza di vita. La donna Alda Merini cerca in ogni amante le tracce assolute dell’Amato, la parte “divina” che vive in ogni uomo, e in questa ricerca esperisce l’avventura nascita- morte- rinascita, sia attraverso la propria vicenda umana sia con il parto della parola creativa. “Quando tu non vieni/le acque del parto/si diffondono in terra/ e cade un pensiero meraviglioso/che tu vedi/ ed è la fine del mondo nel cuore di una donna/ (…) ma quando tu non vieni/ le acque del parto si colorano d’olio/ e io vorrei uccidere mia madre.” (Clinica dell’abbandono). Versi in antitesi, dove l’incipit è metafora di creazione gioiosa e la chiusa è tenebra di morte, desiderio di  cancellare la nascita. Il corpo, nella sua gloria e nella sua miseria, è la chiave che può condurre l’anima ad aprirsi all’enigmatica dimensione dell’Invisibile.

“Il suo sperma bevuto dalle mie labbra/era la comunione con la terra./Bevevo la mia magnifica/esultanza/guardando i suoi occhi neri/che fuggivano come gazzelle.” Versi audaci per la carica che traghetta l’assalto dei sensi verso l’esaltante convinzione di appartenere  ad una dimensione panteistica. La “comunione con la terra” è l’anticipo dell’Incontro Ultimo a cui Merini affiderà il tratto finale della sua avventura umana, condotta come un estenuante duello fra la vita e la sofferenza. Il dolore è stato nella sua carne e nella sua anima, urlo e silenzio, è stato la terra orfica dalla quale tutto ha inizio e nella quale tutto si conclude. “Si sfaldano le rose della mia avvenenza/piano piano in un terreno consunto./Non solo petali che ardono di luce/ma solitarie piante/di chi è stato a lungo dimenticato…”

Merini vive una libertà di linguaggio che si apparenta alla lingua della contemporaneità, un linguaggio che pur restando radicato nella tradizione del secondo Novecento letterario parla alla modernità e forse proprio per questo la sua poesia, contrariamente a quanto succede alla poesia in genere, è amata anche dai giovani.

Anna Maria Bonfiglio

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Nota critica su “Di tanto vivere” di Anna Maria Bonfiglio

11 lunedì Mar 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ Commenti disabilitati su Nota critica su “Di tanto vivere” di Anna Maria Bonfiglio

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Deborah Mega, Di tanto vivere

 

Di tanto vivere è l’ultima opera in versi di Anna Maria Bonfiglio, edita da Caosfera nella collana Alabaster. Fin dai primi versi è possibile rendersi conto della qualità dell’offerta poetica indubbiamente dovuta ad una ricca formazione e ad un’assidua frequentazione della poesia. La silloge si articola in diverse sezioni: Discorsi di 27 componimenti, Stanze di 12, Atterraggi di 11, Miserere di 11. I vari testi appaiono d’immediato impatto comunicativo, vi avverto, fin dalla prima lettura, l’elegantissima nobiltà della forma e l’incanto di sensazioni sottili. La poesia è gremita di oggetti espressi in un ricco plurilinguismo espressionista che mira a comporre una lirica prosastica. Una puntualità lessicale al limite del tecnicismo persegue una poetica dell’oggetto evocativa e visionaria. Le formule sono assertive, eloquenti, nette, spiazzanti perché spontanee ma allo stesso tempo sempre finemente cesellate. Il controllo della forma è evidente mentre, dal punto di vista del contenuto, colpisce l’inconsueto contrasto tra partecipazione sentita e distacco controllato che mira a sublimare ed equilibrare la materia poetica.

Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Articoli recenti

  • Versi trasversali: Elvio Carrieri 31 marzo 2023
  • La malnata di Beatrice Salvioli 30 marzo 2023
  • “Bruciaglie” di Gabriele Greco. 29 marzo 2023
  • LA POESIA PRENDE VOCE: MARINA PIZZI, LUCA PIZZOLITTO, GIANCARLO STOCCORO 28 marzo 2023
  • Alla riscoperta del latino 27 marzo 2023
  • “Oltre la neve” di Antonio Corona. Una lettura di Rita Bompadre. 24 marzo 2023
  • Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Attraverso la serratura” di Josefina Peñate y Hernández 23 marzo 2023
  • Più voci per un poeta: Fernanda Romagnoli. Videopoesia 22 marzo 2023
  • LA POESIA PRENDE VOCE: LUCETTA FRISA, ANDREA TEMPORELLI, ABELE LONGO, GIUSEPPE MARTELLA 21 marzo 2023
  • L’isola che isola o dell’insensatezza dei conflitti 20 marzo 2023

LETTERATURA E POESIA

  • ARTI VISIVE
    • Appunti d'arte
    • Fotografia
    • Il colore e le forme
    • Mostre e segnalazioni
    • Prisma lirico
    • Punti di vista
  • CULTURA E SOCIETA'
    • Cronache della vita
    • Essere donna
    • Grandi Donne
    • I meandri della psiche
    • IbridaMenti
    • La società
    • Mito
    • Pensiero
    • Uomini eccellenti
  • LETTERATURA E POESIA
    • CRITICA LETTERARIA
      • Appunti letterari
      • Consigli e percorsi di lettura
      • Filologia
      • Forma alchemica
      • Incipit
      • NarЯrativa
      • Note critiche e note di lettura
      • Parole di donna
      • Racconti
      • Recensioni
    • INTERAZIONI
      • Comunicati stampa
      • Il tema del silenzio
      • Interviste
      • Ispirazioni e divagazioni
      • Segnalazioni ed eventi
      • Una vita in scrittura
      • Una vita nell'arte
      • Vetrina
    • POESIA
      • Canto presente
      • La poesia prende voce
      • Più voci per un poeta
      • Podcast
      • Poesia sabbatica
      • Poesie
      • Rose di poesia e prosa
      • uNa PoESia A cAsO
      • Versi trasversali
      • ~A viva voce~
    • PROSA
      • #cronacheincoronate; #andràtuttobene
      • Cronache sospese
      • Epistole d'Autore
      • Fiabe
      • I nostri racconti
      • Novelle trasversali
    • TRADUZIONI
      • Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados
      • Idiomatiche
  • MISCELÁNEAS
  • MUSICA
    • Appunti musicali
    • Eventi e segnalazioni
    • Proposte musicali
    • RandoMusic
  • RICORRENZE
  • SINE LIMINE
  • SPETTACOLO
    • Cinema
    • Teatro
    • TV
    • Video

ARCHIVI

BLOGROLL

  • Antonella Pizzo
  • alefanti
  • Poegator
  • Deborah Mega
  • Di sussurri e ombre
  • Di poche foglie di Loredana Semantica
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • Solchi di Maria Allo

Inserisci il tuo indirizzo email per seguire questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi via e-mail.

INFORMATIVA SULLA PRIVACY

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella privacy policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la PRIVACY POLICY.

Statistiche del blog

  • 301.955 visite
Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
Una tantum
Mensile
Annuale

Donazione una tantum

Donazione mensile

Donazione annuale

Scegli un importo

€2,00
€10,00
€20,00
€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00

O inserisci un importo personalizzato

€

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente

REDATTORI

  • adrianagloriamarigo
  • alefanti
  • Deborah Mega
  • emiliocapaccio
  • Francesco Palmieri
  • francescoseverini
  • frantoli
  • LiminaMundi
  • Loredana Semantica
  • Maria Grazia Galatà
  • marian2643
  • maria allo
  • Antonella Pizzo
  • raffaellaterribile

COMMUNITY

BLOGROLL

  • Antonella Pizzo
  • alefanti
  • Poegator
  • Deborah Mega
  • Disussurried'ombre
  • Di poche foglie di Loredana Semantica
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • Solchi di Maria Allo

Blog su WordPress.com.

  • Segui Siti che segui
    • LIMINA MUNDI
    • Segui assieme ad altri 243 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • LIMINA MUNDI
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...
 

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.

    Informativa.
    Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la
    COOKIE POLICY.
    %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: