Il primo libro di Anna Maria Ortese che acquistai fu Il porto di Toledo, nel lontano 1975. Era una scrittrice a me sconosciuta ma mi affascinò quel titolo, Toledo era sì il nome di una città spagnola, ma era stato anche il nome di una via di Palermo al tempo della dominazione ispanica in Sicilia e forse, inconsciamente, questo mi aveva suggestionato. Purtroppo però la sua lettura mi lasciò spiazzata: lo trovai un libro ostico, una scrittura che era prosa ma anche poesia, diario, autobiografia; una narrazione visionaria o, come la stessa autrice la definiva, irreale. Confesso che, dopo un paio di tentativi, interruppi la lettura e collocai il volume nella mia libreria, dimenticandomene. Fu una trasmissione televisiva in cui si parlava dell’Ortese che mi risvegliò la voglia di riaccostarmi alla scrittura ortesiana, ma, ahimé, del Porto di Toledo non trovai più alcuna traccia nella mia biblioteca e ripiegai su altri due famosi libri, Il mare non bagna Napoli e L’Infanta sepolta, questa volta lasciandomi totalmente sedurre dall’opera e dalla vita di questa importante e problematica scrittrice.
Anna Maria Ortese nasce a Roma il 13 giugno del 1914 da Oreste, siciliano di nascita ma di origine catalana, e Beatrice Vaccà, nata a Napoli ma discendente da una famiglia di scultori della Lunigiana. Ha una sorella e cinque fratelli di cui uno suo gemello. Nel 1915, a causa della chiamata al fronte del padre, la famiglia lascia la capitale e si trasferisce prima in Puglia e poi in Campania, a Portici; nel 1919, alla fine della guerra, il ricostituito nucleo familiare si trasferisce a Potenza, dove Oreste ha un incarico governativo, e dove risiederà fino al 1924. Qui Anna Maria frequenta le prime classi elementari che interrompe a causa della decisione del padre di trasferirsi in Libia, allora colonia italiana. Il periodo della permanenza in Africa s’incide nella memoria della scrittrice che lo ricorderà come un tempo in cui ‘essere dentro la natura’ ma anche come ‘inferno’ vissuto in una ‘casa di pietra senza porte e finestre, col tetto metà coperto e metà no, dove dal pavimento sbucavano scorpioni, topi e scarafaggi’. Nel 1928 gli Ortese ritornano in Italia, stabilendosi a Napoli, dove la giovane Anna Maria frequenta per un breve periodo una scuola ad indirizzo commerciale, senza però completare il ciclo di studi. Questi della permanenza napoletana sono per la giovane gli anni in cui si delinea in maniera decisiva la strada della scrittura, primariamente in poesia. La morte in guerra del fratello Emanuele ispira alla giovane Ortese la poesia Manuele, pubblicata su L’Italia letteraria e confluita poi nella raccolta Il mio paese è la notte, che raggruppa le poesie scritte tra il 1930 e il 1980, ma che viene pubblicata nel 1996. I primi racconti apparsi su L’Italia letteraria non suscitano alcun interesse in seno alla famiglia e Anna Maria chiede a Bontempelli, allora direttore del giornale, di pubblicarli con lo pseudonimo di Franca Nicosi; tutti i racconti escono in seguito in raccolta col titolo Angelici dolori e con una nota editoriale dello stesso scrittore che così si esprime: “In questi racconti – che tutti insieme fan romanzo e poema lirico – una semplificazione spietata degli argomenti e degli atti dà lume di miracolo alle persone e cose più comuni della vita”. La scrittura di Ortese spiazza la critica militante e viene liquidata come ‘influenzata dal realismo magico’ di natura bontempelliana. L’amicizia con Paola Masino, compagna di Bontempelli, dà modo all’Ortese di approdare al Gazzetino di Venezia, città dove va a vivere, prima ospite dell’amica Paola e in seguito in una propria abitazione. Da Venezia si sposta a Trieste e quindi a Firenze, poi a Napoli, Roma, Bologna, trasferimenti in gran parte per lavoro, ma nella realtà la scrittrice non risiederà mai a lungo nello stesso posto, sia per la necessità di lavorare e trovare una stabilità economica, sia per una sorta di nevrosi da peregrinazione ereditata dal padre. Di tutti i luoghi in cui risiede durante la sua vita, e sono molti, Napoli è la città che maggiormente segna, nel bene e nel male, la sua opera. Città amata e vituperata, vissuta e ripudiata, ma profondamente radicata nella sua memoria. La vita e l’opera di Anna Maria Ortese si mescolano, confluiscono in una scrittura visionaria, lirica, irreale, radicata nella complessità delle vicende vissute e traslitterate attraverso un codice che non si apparenta a nessun’altra scrittura. Eppure il suo percorso letterario è complicato e la sua opera viene messa in discussione e riconosciuta tardivamente. Dopo la pubblicazione di Angelici dolori, nel 1953 esce Il mare non bagna Napoli, libro difficile da classificare nella nomenclatura dei generi letterari, costruito su personaggi e ricordi, amore e rabbia, presa di coscienza di una sconfitta ideologica che s’intreccia alla miseria del popolo. Di Napoli Ortese mette in scena il degrado, l’amara condizione dei sopravvissuti alla guerra, la disillusione di quegli intellettuali che avevano creduto nello scarto verso una politica di sinistra e che alla fine si erano assuefatti a ruoli convenzionali. Lo sguardo della scrittrice è impietoso e gli scrittori napoletani non riescono a perdonarglielo. E’ un ferita che s’inciderà nella sua esistenza e che l’allontanerà per sempre dalla città amata. Il libro è costituito da cinque racconti, l’ultimo dei quali è a sua volta suddiviso in sei capitoli. I primi due, Un paio di occhiali e Interno familiare, raccontano le storie di due famiglie diversamente collocate nella scala sociale: la prima appartiene al ceto più umile e povero, vive al limite della sopravvivenza e perciò nell’impossibilità di provvedere all’acquisto di un paio di occhiali per la figlia Eugenia, quasi cieca. Ortese entra nel basso dove vive la famiglia e ne esplora la geografia fisica e morale con sguardo meticoloso, trascrivendone fedelmente il linguaggio popolare e prendendo le distanze da un facile pietismo. Qui Napoli è vista nella sua veste più miserevole, non vi è amore né solidarietà fra le famiglie dei bassi, né nella famiglia di Eugenia, al massimo qualche gesto di carità. Ed è grazie a quella della zia Nunzia che la bambina ottiene infine quegli occhiali che le consentiranno di vedere l’azzurro del cielo della città. Ma attraverso le lenti lo sguardo dell’infelice Eugenia scopre la squallida realtà che la sua debole vista le aveva nascosto e il miracolo che aspettava svanisce come al risveglio di un sogno. Lo stile crudo e distaccato della scrittura di Ortese, occhio inesorabile che affonda fino al midollo dei fatti, supera in questo racconto la cifra verista pur ricordandone la lezione. Il secondo racconto, Interno familiare, mantiene lo stesso registro narrativo ma questa volta la condizione sociale cui appartiene il nucleo domestico è la piccola borghesia e la protagonista, Anastasia Finizio, una matura donna nubile che con il suo lavoro mantiene tutta la numerosa famiglia. Nell’apatia di una vita monotona e senza alcuna speranza di un ‘bene personale’, Anastasia, fredda e indifferente allo scorrere della vita, intravede improvvisamente uno squarcio di luce nel ritorno di un uomo che un tempo le è stato caro. Tutto le appare, allora, come illuminato da una luce che non aveva mai notato, per qualche ora vede la propria vita mutata, allegrata da un affetto maschile, proiettata in una dimensione in cui sarà la protagonista e non più il pilastro sul quale si regge la sua famiglia. Ma è la visione di un momento, quasi un’allucinazione, e la realtà torna a ricollocarla nella casella a cui è destinata. Ortese traccia una figura di donna vinta, incapace di affrancarsi dai doveri verso una famiglia che la tiene sotto scacco e rassegnata a vivere nel suo ristretto cerchio. Tutti i racconti de Il mare non bagna Napoli svelano di una città e dei suoi abitanti la parte più oscura e miserevole, il degrado fisico e morale, la povertà e i residui della distruzione bellica. Così Oro a Forcella e, ancor più, La città involontaria, un reportage sui caseggiati dei primi sobborghi postbellici, detti Granili, costruiti per accogliere i senzatetto sopravvissuti alla guerra. Costruzioni di infima fattura, abitati da quella parte di popolo che si fatica a credere reale, non persone ma ‘larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole di cui non serbano quasi ricordo’. E nella visita a codesta realtà inimmaginabile l’autrice viene in contatto con un’umanità fuori da ogni collocazione, una folla di personaggi, uomini, donne, bambini, stretti in ambienti umidi e bui, fra sporcizia e insetti, come in una corte dei miracoli. Una Napoli fuori da ogni immaginazione, restituita al lettore priva di quell’alone di luce e chiasso che ne costituisce il fascino mediterraneo; una scrittura asettica, da cronaca, ne effettua una specie di autopsia che ne attesti la morte. Ma la parte del libro che suscita l’imbarazzo e la collera degli scrittori amici dell’Ortese è quella del racconto finale, Il silenzio della ragione. Negli anni della sua permanenza a Napoli, fra il 1945 e il 1950, Anna Maria Ortese frequenta con regolarità i redattori della rivista Sud, un gruppo di intellettuali, fra cui Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco e Pasquale Prunas, quest’ultimo fondatore e direttore di Sud, progressisti della sinistra che mirano alla sprovincializzazione della cultura meridionalista pubblicando autori delle avanguardie e testi di poeti e scrittori stranieri. Ortese, che collabora con alcuni settimanali nazionali, riceve l’incarico di scrivere un articolo su alcuni di questi nuovi scrittori, che in forma di racconto confluirà in seguito ne Il mare non bagna Napoli. Il libro ottiene il Premio Viareggio, ma suscita rabbia e risentimento negli autori passati sotto le forche caudine della cruda prosa ortesiana e allo stesso tempo procura alla scrittrice il sincero rammarico di averli ‘traditi’. In una intervista rilasciata alcuni anni dopo, Ortese dichiara apertamente di esserne pentita: “Gli amici che si dispiacquero avevano ragione. (…) Era stato Elio Vittorini a indurmi a citarli con nome e cognome nel capitolo più lungo del libro, dedicato agli intellettuali e intitolato Il silenzio della ragione. La richiesta era ragionevole: senza nomi, quel mio ricordo perdeva senso. Ma a quelle pagine ripenso con un senso di colpa.” Fra le innumerevoli opere di Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli è un unicum: un libro di prosa che non è un romanzo, non è una serie di racconti né un reportage giornalistico; un testo che in un certo senso si potrebbe definire ‘neorealista’ per lo scenario di una città e di un popolo depauperati dalla guerra e per la dura visione di miseria morale e di degrado che avvolge Napoli e la sua gente.
La vita di Anna Maria Ortese è un percorso di erranza, di casa in casa, di editore in editore, sempre scontenta, in continuo affanno per la scarsezza di soldi, salvo poi perdere l’assegno del premio Strega; all’amico che lo ritrova e glielo riconsegna dice: “Cosa vuole, Righi, questa è solo segatura. In realtà i soldi non valgono niente. Polvere, sono solo polvere”. Tormentata da una forma di autolesionismo per quello che dice di essere: ingenua, illetterata, scartata dall’entourage intellettuale coevo, in guerra con il mondo da cui si sente respinta, in realtà pubblica con editori come Einaudi, ha frequentazioni con Vittorini e Calvino, con i clan letterari e con la grande editoria italiana. “Vorrei scrivere soltanto cose dolcissime, ma ho dovuto difendermi, e ora la mia penna è aspra, risentita”, scrive in una lettera. I suoi romanzi, invasi di sguardi e atmosfere emozionali, intessuti di misteri piuttosto che di trame, sprigionano sensazioni di vertigine per la visionarietà di cui sono intrisi, risultando talvolta enigmatici e di difficile lettura. La sua scrittura è stata riconosciuta come vocata alla “rêverie”, quello stato sognante che precede la coscienza della realtà e ne onirizza i dati, traducendoli in simboli e metafore. Onirica e straniante si presenta ad Aleardo, giunto nell’isola di Ocaňa, Estrellita, la donna-iguana, “bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori”. Tra realtà e fantasticherie si consuma l’amore di Aleardo per l’Iguana, prigioniera a sua volta del sentimento che la lega al suo padrone e che infine la distrugge. Il racconto, fra storia e favola, si fa allegoria per dirci come ogni rapporto di forza finisca per uccidere la dignità e l’amore e come l’inseguimento della felicità conduca all’esilio morale. Agli antipodi di quella raccontata ne Il mare non bagna Napoli, è la Napoli che vive nella fabula Il cardillo addolorato. Una città del tardo Settecento, teatrale, immersa nel sogno barocco, con i suoi colori mediterranei e la sua spettacolarizzazione, dove si aggirano fantasmi e folletti. Qui giungono tre viaggiatori del Nord Europa per far visita ad un celebre guantaio e qui conoscono la di lui figlia Elmina, giovane bellissima e muta ‘come pietra’, filo rosso di tutta la narrazione, alla quale viene contestata la brutale morte del cardellino di casa, ucciso e dato in pasto al gatto. Elmina e la sua vittima diventano, allora, le entità metafisiche del racconto, incarnate di volta in volta in Folletti, Streghe, Principi e fantasmi di varie fattezze, in una vertigine polisemica che accumula significati e interpretazioni. Il canto dolce e accorato del cardillo risuona nel romanzo con toni di lamento, risveglia i ‘misteri dolorosi’, quelli umani e quelli della natura, è la voce che chiede di essere ascoltata e chi la sente è colto dalla languida consapevolezza che il Bene può essere raggiunto. Ortese ha da tempo focalizzato la sua attenzione verso quelle che lei stessa definisce ‘piccole persone’, cerchio nel quale iscrive i deboli, i poveri, i perseguitati, gli animali; ne scrive sui giornali ma non sempre raccoglie consensi. Con L’Iguana, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari compone una trilogia che evoca un nuovo eden dove gli animali antropomorfizzati hanno il compito di trovare la Bellezza nascosta nella brutale realtà e riscattarne il valore.
Anna Maria Ortese muore il 9 marzo del 1998, dopo un breve ricovero in ospedale. I suoi ultimi anni, dopo la morte della sorella, li trascorre appartata, dividendosi tra la casa di Rapallo, che è riuscita ad acquistare con l’assegno Bacchelli ottenuto per interessamento di Lalla Romano e Dario Bellezza, e un albergo per anziani a Milano. Dopo la sua morte sono state trovate miriadi di scritti, appunti, minute e carteggi, parte di questo materiale è stato preso in cura da Angela Borghesi ed è stato pubblicato da Adelphi con il titolo Le piccole persone. Il volume raccoglie alcuni suoi pezzi giornalistici, pubblicati ma mai raccolti, ed altri testi inediti, che convergono sull’impegno ecologico-ambientale e animalista della scrittrice.
Anna Maria Bonfiglio
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