Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di
GIOVANNI SEPE
Occasione
Penso alla morte come a un’ombra sola
che cade floscia tra le rose nuove,
un velo opaco sui mirtilli bruni.
penso a una voce fioca nelle vene,
lenta come una sera in solitudine
mentre la luna pullula nel cielo.
Penso alla morte e piango silenzioso.
Morire insieme al seme e ai girasoli
farebbe della morte un’occasione.
Non domandarmi il peso del mio nome
tra tanti in lettere informali brama
la calda candela.
Tu non conosci il ritmo delle ombrose
luci sul passo della voce piccola
nei vicoli stretti,
la colla che ci lega al mare aperto
sul tufo sgretolato dalla noia.
Non domandarmi un nome per le cose
di cui non ho voce.
Nutrivo l’onestà delle parole:
il peso degli accenti sulle labbra
rifrangeva la luce come un prisma.
Stelline puntiformi, intorno il buio.
Ho elettricità adesso nelle tasche
un circùito stampato: un chip,
dieci grammi di molecole.
Fumo, leggo
e ti penso, è un gioco luminoso
perderti ora.
Tu non lo sai, il tuo sonno che vegliava
l’assenza di un cuore, quanto lunghe
faceva le mie sere.
Quanto mi è caro ora tu non lo sai,
quel tempo in cui ero, io stesso, custode
di memorie future.
La giovinezza veniva in soccorso
in voci uguali a un ricordo dolce.
Della parola nata
dal tuo sonno infecondo tu non sai
Hai lasciato il disordine alle mensole
come in un giorno qualunque di giugno:
Il sale grosso dietro le stoviglie,
i biscotti umidi ormai da riporre,
dietro agli infusi con la teiera bianca,
sopra la scatola aperta dei farmaci.
C’è ancora da ordinare i pomodori,
quattro file da dieci semi ognuna
e il tuo sorriso impreciso da cogliere.
L’ aria, che tiepida arriva dal mare,
l’odore dei limoni e delle rose,
la voce rumorosa del vicino:
metterò in ordine avanti i ricordi.
E nel mio cuore lascerò il disordine
Quanto di te perdo
sarà il silenzio che incontrerò la notte,
quando il cuore avrà voglia di morire.
Il magenta sbiadito in autunno
sulla fissità rugosa del tempo
dove la speranza s’incurva su un filo di luce.
Sarà il tramonto della luna
al di là della collina,
mentre la gente s’intrattiene
per non sentirsi sola.
il battito tremulo di un fiore
acceso dal vento,
mentre chiudi i miei occhi sul tuo ricordo.
Quanto di te perdo oggi
sarà mio solo domani.
Vi dico “addio” come al migliore amico
nell’incertezza di giorni lontani.
Addio alla voce senza più rumore,
alla mia carne che vesto dell’ombra
perché la luce cerni dal silenzio
il male speso nelle mie parole.
Addio al giardino in fiore e al gelso rosso
ai lunari prolissi di ricordi.
A quanti un filo d’erba guarderanno.
Vi dico “addio”, sarò breve a morire.
Sei il miele che s’affina sulla bocca
quando pronuncio la parola buona,
quella netta, precisa del tuo nome.
Sei figlia, e madre, del mio verbo guasto,
incauto, quasi giusto, indovinato.
Sei, mentre parlo, tu quanto divieni:
più ricca o povera alle mie parole.
E taccio, e invecchia il pensiero di te.
da “Il peso della luce”, Controluna, 2018