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Hans ripiega la lettera. Me l’ha tradotta puntigliosamente tutta dal tedesco, facendo delle pause lunghissime per sottolinearne i momenti più cupi.
Ha gli occhi lucidi, lo sguardo lontano, le mani con un leggero fremito.
Il piccolo Johannes gioca tra le sue lunghe gambe parlando il suo curioso linguaggio infantile, con quei punti interrogativi che si sentono cantilenare e che non richiedono risposte.
Siamo solo noi tre , gli altri sono in cucina a chiacchierare con Aurelia. Ci hanno lasciato soli col bambino, prevedendo che tra di noi ci sarebbe stata la solita lunga confessione. Ma sono 10 anni che non ci vediamo, e abbiamo diritto a un nostro momento privato.
Il papà gambalunga si scuote da quell’attimo di nostalgia e porge al figlio il nuovo gioco che ha appena tolto dalla confezione provocando tutto quel rumore di carta strappata. Entrambi emettono suoni che esprimono sorpresa e stupore di fronte al regalo.
Johannes sale sul cavalluccio di legno, e faticosamente cerca di spingerlo con l’aiuto dei piedini. Hans sorride e si asciuga gli occhi, non so bene se per la felicità di vedere suo figlio provarci, oppure per il dolore che si è appena procurato ravvivandolo leggendomi la lettera, come quando si tocca il dorso di una vecchia ferita cicatrizzata che non fa più male , ma di cui se ne rammenta il percorso doloroso.

La lettera è sul divano, stropicciata e unta dalle ditate. Penso siano impronte lasciate da mani umide. Letta e riletta chissà quante volte, mandata a memoria e dimenticata, e rimandata a memoria. La voce fuori campo degli incubi, la litania dei giorni tristi col cielo grigio del lungo inverno passati da solo tra i pazienti montanari. Chiuso, murato tra i boschi e le valli.
Johannes si dondola sul cavalluccio di legno, e guarda il padre asciugarsi la lacrima sfuggita ma subito asciugata col dorso della mano. Hans ritorna a sorridere illuminato dal figlio che lo guarda stupito. Il bambino ha puntato il dito all’angolo dell’occhio da dove è spuntata quella goccia, e ha guardato il padre con l’ennesima frase interrogativa…
Fuori dalla finestra vedo i filari ordinati dei meli ancora in fiore, ma già con accenni di verde, perdersi per la collina. In alto, se alzo un po’ lo sguardo, l’abbazia di Sabiona tutta circondata da file ordinate di viti, incombe minacciando l’abitato con la sua ombra merlata. E’ un pomeriggio sereno, ci sentiamo tutti fortunati a goderci un tempo così. Il sole fende la stretta valle con raggi già obliqui e dorati, e tra poco tramonterà dietro la neve delle cime più alte mandando bagliori che rimbalzeranno sul bianco. Juergen mi indica quel paese lassù che si gode la luce più a lungo di qui. Noi siamo appena arrivati dal sud e abbiamo portato il bello mi dice Hans, perché fino alla scorsa settimana è nevicato più volte…
Ora festeggiamo stappando il prosecco conservato per questa occasione:

-E’ da tanto che questa bottiglia vi aspetta, ci dice versandocelo.

Il brindisi è un po’ frettoloso anche se Hans lo vorrebbe solenne. Sta lì pensoso a rimirarsi l’etichetta della bottiglia, il bimbo attorcigliato alle gambe che lo implora di prenderlo su alla sua altezza sconfinata, e quando viene sollevato in braccio non manca di commentare la vertigine dell’ascensione con gridolini di piacere, che ci fanno inebriare tutti. Hans non ha avuto nemmeno il tempo di avvicinare le labbra al flûte. Non ha bevuto un goccio, ma è completamente ubriaco di suo figlio…..
La lettera intanto è stata intercettata da Aurelia che la ripone in una busta quasi distrutta tanto è usurata, e la porta via come se fosse una reliquia, depositandola presumibilmente in uno di quegli angoli oscuri che ci sono in ogni casa, cassetti segreti, oppure tra le copertine dei libri più cari, un tabernacolo occulto, un sancta sanctorum domestico.
Decidiamo di uscire, con il piccolo Johannes che guida il corteo in passeggino, andiamo incontro al paese passando davanti alla vecchia stazione dove c’e’ in bella mostra una vecchia locomotiva a vapore tirata a lucido.
Passiamo in rassegna le case linde e silenziose , fino a un piccolo ponte pedonale sul fiume Isarco. Tutti guardiamo l’acqua che attraversa la città veloce dopo il disgelo. Costeggiamo il lungofiume guardando le papere che stazionano a riposare nelle piccole anse.
Hans mi dice che quegli uccelli qui sono chiamati “le anatre di Koester” dal nome del pittore che le osservava e le dipingeva dal giardino che proprio ora stiamo attraversando, e a cui è stata dedicata quella statua di bronzo che si vede tra gli alberi con lo sguardo rivolto al fiume e con un piccolo pennello in una mano che sembra contare le anatre più che dipingerle.
Tutto sembra pervaso di una perfezione primaverile che ci mostra il movimento della natura nella sua rotazione.
Ci stiamo trasformando, e chi ode le voci nella direzione del nostro crocchio non può far a meno di voltarsi, sorridere, incuriosirsi dall’arrivo degli ospiti tanto attesi dai due dottori.
Aurelia ci porta direttamente nel suo studio, che è al primo piano del vecchio edificio della dogana, subito dopo l’antica porta. Saliamo tutti. Nella sala d’attesa del medico c’è un pianoforte! E degli affreschi antichi recuperati con perizia. E nello studio, proprio dietro la scrivania della dottoressa c’e’ la postazione di lavoro del piccolo Johannes, un box pieno di giocattoli, da cui osserva la mamma visitare i pazienti commentando le patologie riscontrate con grugniti e parole incomprensibili che sembrano simili a sentenze scientifiche su eventuali malattie, come ci riferisce la madre.
Poi tra la sorpresa generale, compresa quella di Hans , Aurelia si siede al piano e ci dà un saggio eccellente della sua bravura, addirittura anche come cantante .
Stiamo lì seduti in sala d’attesa come cinque pazienti incantati a sentire suonare il piano. Händel? Bach? Schubert? Chissà…ma esplode l’applauso liberatorio. Pura musicoterapia!

Hans mi parla di questa città mentre siamo di nuovo in strada. Alla fine dell’800 qui si riunivano molti artisti, pittori, poeti e musicisti che sciamavano nella strada principale riempiendo le osterie e gli alberghi. La ragione per cui arrivavano fin qui era dovuta al fatto che si era diffusa la voce che da queste parti era nato il maggior poeta medievale di lingua tedesca Walther von der Vogelweide, minnesanger, poeta d’amore, mi dice Hans sorridendo e strizzandomi l’occhio. Tra fine ‘800 e inizi ‘900 accorsero qui gli artisti e si moltiplicarono gli alberghi e le taverne. La vita sorrideva allora, l’impero del buon Cecco Beppe era l’esempio del paternalismo asburgico più bonario. Le ostesse servivano birra sorridendo e commuovendosi per le canzoni più belle. Questo dunque è uno dei luoghi sacri del nazionalismo tedesco, e si trova in Italia!
Hans è alto e sottile come un giunco. Enza mi dice che ha un aria di un giullare medievale, e io me lo sono immaginato spesso in questa veste armato di cetra, mentre declama versi d’amore davanti alla piccola corte del castello. Allampanato e con la nuvoletta intorno al collo.
Hans ci ha sempre stupiti per questa sua ingenuità che è così platealmente esibita da sembrare falsa e stucchevole. In realtà non c’e’ nulla di affettato in lui. Dentro credo sia una roccia di granito, non potrebbe sopravvivere altrimenti tra questi monti duri.
Diventa così quando racconta. Perché tutto quello che fa diventa nella sua fantasia un racconto, una parte di una storia. Una storia che narra a sé stesso senza aver bisogno necessariamente di interlocutori. Quando parliamo di lui tra amici non possiamo che riconoscerci in questa immagine: un medico in esilio che non ha scelto l’Africa, ma i monti dell’Alto Adige.
Hans ha voglia di parlare , e come quegli eremiti loquaci che tentano di tradurre anni di silenzio in poche battute, ci presenta la natura che si dispiega ai nostri occhi enumerando i miracoli e i dolori della convivenza qui, terra di confine, oltre le ragioni e i torti, oltre i conflitti.
L’albergo che ci ha prenotato guarda la piazza più bella del paese. E’ la prima serata tiepida di primavera. Lui non ha lasciato niente al caso. Nell’eventualità che volessimo usare la sauna basta dirlo al portiere. Per le escursioni basta chiedere che qualcuno organizza. No, non sfrutteremo niente di questo tipo di ospitalità. Ci guardiamo negli occhi tutti. Naturalmente l’albergo è già stato pagato per quattro, e noi ne siamo stupiti, ma in fondo dovevamo aspettarcelo. Solo Hans può farlo, e la moglie acconsente. Ci guarda curiosando tra i gesti delle nostre reazioni stupite.
Hans.
Poi vanno via salutandoci abbracciati. Li guardiamo avviarsi e spingere il passeggino di Johannes sul selciato. Fino a non vederli più.