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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MARINA MARCHESIELLO

Faccio piaghe di felicità
a tutte le mie nuove pieghe di luce.
Vedi, l’arrivare ancora ferita
sottopelle alla notte
mi aiuta;
rende ancora più liquidi
occhi ed umori e l’unto di consolazione
di avere resistito all’affronto
di un’altra luce sbagliata
del giorno senza te.
Faccio un sangue più sano
perché tu ci possa passare bene
sopra le dita.
Tu che hai le mani pulite che avevo
creduto le mie quando non sapevo
come mettere insieme le cose
che nessuno mi diceva appartenessero niente altro che all’aria del mondo
quando non si sa di essere due.
Faccio piaghe di felicità
per questo vistoso premere
del mio corpo in attesa del colpo violato.
Fossi stata più dura ai coltelli del “sento”
sarei stata la infelice vincente;
senza secernere continue albe,
queste bende di te.

Vorrei chiedere a tutti come stanno
e sfogliarmi le labbra,
intimi incontri,
trovando una parola che sia solo per te;
quella sillaba fiatata e gonfia che scalda
quando mi ascolti e non ci sei;
eppure ugualmente vedi
che non respiro bene
come si dovrebbe
con la pancia in su che hanno i bambini
con la testa in tanta aria
che credono sana.
Vorrei dire a tutti
state come si dovrebbe stare;
un po’ di carta bianca
che di diciture ammalate
si spoglia.

Basta, ora che ho confidenza con l’aria
anche per voi mi spiego.
Ho fatto incetta di tutto
per ingordigia di visioni e parole
e in uno stomaco con occhi e lingua
molto affamato.
ma poco veloce.
Aprite le finestre, fate uscire il lampo
che mi ha attraversato il volere
dalla punta dei piedi al fresco
alla fronte calda che sogna.
Non andate di fretta,
con lentezza vi guardo e vi parlo.
lo vedete, ascoltate: ancora mi piego;
faccio sosta tra le mie braccia
che urlano
prima che mi arriviate
a sentire anche le ossa.
Io vi tengo ancora in ricordo di carne.
Non vi tocco e vi sento.
Faccio sosta in ogni incontro
anche quando nessuno più sa dirmi
chi e cosa era stato invitato
da questo corpo anche me ospitante
con tanta aria a margine.

E dentro l’aria vi ho visto andare via.
L’aria che non sa mai chi e cosa protegge,
né quanti respiri contiene.
E quante ne sono le assenze
sull’orlo di farsi furia di vento.
Vi ho visto perché eravate invisibili
eppure così perdurabili vivi.
Con le vostre bocche disgraziate
affannate in lingue fedeli al solito dire
che credevate farsi legge
per sopravvivere al bisogno di non farsi zitte all’improvviso.
Come fanno tutte le cose che vanno via
anche non sapendo nulla della morte,
se non negli occhi
che parlano al cielo,
e muti ritraggono
tutto il tempo del già stato.
Perché il cielo proprio all’aria
ha dato il mandato:
“Non togliergli tutto”
finché avrò l’incorporea menzogna
di stare sopra al nulla che passa,
ai nostri corpi già cambiati,
così carichi di nuvole,
così piangenti preghiere
per chi ha ancora pietà
di non sapersi mai fare davvero lontano.