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Prosegue il racconto dei giorni vissuti al tempo del coronavirus. Un’iniziativa del blog proposta qui. In calce a quel post di presentazione  i link agli altri post delle cronache incoronate precedenti. Hanno raccolto l’invito a contribuire Cinzia Della Ciana e Deborah Mega con propri testi  che oggi vi propongo. Chiude questo post una mia cronaca del 31 marzo dedicata al silenzio. Cinzia Della Ciana nel suo racconto sposa con levità la fantascienza, la citazione cinematografica e il surreale dei giorni nostri. Deborah Mega racconta l’esperienza attualissima e concreta  della  Didattica a distanza, che oggi si sperimenta, ma probabilmente, rivoluzionerà la scuola di domani.

Vi ricordo che chiunque può proporre al blog Limina mundi (liminamundi@gmail.com) il proprio vissuto di questi giorni di epidemia e contenimento. Il turbamento, lo stravolgimento, il dolore ma anche lo spirito di resistenza, di reazione, e, talvolta il sorriso, nonostante tutto. Un modo per stare vicini, per allontanare la paura, per esorcizzarla. 

CRONACHE INCORONATE

DELL’INQUIETITUDINE EXTRATERRESTRE DI CINZIA DELLA CIANA

Oggi ore 13, TG edizione speciale.
Dopo la sigla squillante la telecamera allarga sulla giornalista che sbatte ripetutamente le ciglia abbagliando gli spettatori con il suo sguardo ipnotizzato. Quindi implacabile annuncia:
“Oggi alle 8,30 tutti i video di computer, tablet e smartphone della nazione si sono accesi all’unisono. Sullo schermo di ognuno è apparso uno strano tipo che potete osservare sulla foto alle mie spalle: grande testa, collo periscopico e cuore luminescente pulsante di rosso. Il soggetto, non ben identificato ma dall’inequivocabile natura aliena, ha lanciato l’appello accorato che sentirete dal filmato che ci accingiamo a mandare in onda. Il tutto è al vaglio delle Autorità. Chiunque avesse avuto contatti con lui è invitato a rivolgersi al più vicino Presidio per consentire che si attivino i controlli del caso. Chiunque lo abbia avvistato ha l’obbligo di segnalarlo alla Pubblica Sicurezza, o anche semplicemente mandando un whatsapp al numero in sovraimpressione. Non c’è da allarmarsi, andrà tutto bene!”
Dopo di che un vocina  prendeva a fare eco  sgranata fra due occhi celesti.
“Salve sono E.T. , vi ricordate di me?  Sono E.T., l’ Extra Terrestre, quello che trentotto anni fa atterrò sul vostro pianeta con gli alieni botanici, che poi partirono scordandosi di me e abbandonandomi qui sulla Terra. Sono quello che a forza di dire  “Telefono Casa” ritornò a casa con l’astronave che venne a riprendermi.
Umani vi prego ascoltatemi, sono disperato!
Direte voi perché? Cerco di spiegarmi. Senza il permesso di soggiorno del Comandante alieno sono tornato sulla vostra pianeta, ma credo proprio che non dovevo farlo, non so perché, ma sono sicuro che ho sbagliato qualcosa, sono sicura che non è il momento.
E’ successo che qualche settimana fa mi sono affacciato alla Galassia P38 e ho visto il  Pianeta delle acque e dei boschi; così mi è venuta una grande nostalgia. Mi sono detto “quasi quasi prendo astronave di ricambio, faccio giretto, voglio vedere cosa combinano amici Umani. Questa volta voglio  però vedere cose nuove, basta America!”
Insomma volevo venire qui,  nel posto dove è nato l’umano che ha scoperto l’America, Colombo mi pare si chiami. E così sono atterrato in Italia.
Ma purtroppo ripeto qualcosa non va, è tutto molto strano e spero non sia colpa mia “non c’è nessuno in giro!”
Io era venuto per farmi nuovi amici, volevo mangiare la pizza, quella vera, mica quella della California, volevo vedere il Colosseo. Invece no, tutto è deserto, le strade sono vuote, tutto è chiuso, sbarrato.
Umani ho fame e non so dove mangiare, non so dove dormire, nessuno mi fa entrare né a casa propria né da altra parte, ma i bambini dove sono? E quel che è peggio è che l’astronave si è guastata!
Il primo che ho incontrato appena atterrato aveva una macchina bellissima con tante  luci colorate e scintillanti;  mi ha stoppato con la paletta e mi ha chiesto “Qual è il motivo del suo spostamento? Ha il modello? Se non ce l’ha  riempia questo!”
Io sono rimasto male, perché non pensavo che per un giretto mi ci volesse il permesso di soggiorno alieno. E mentre il mio cuore diventava rosso per tentare di comunicare telepaticamente con l’umano, questo è diventato all’improvviso bianco bianco, mi ha guardato come se avesse davanti la morte secca e, impaurito, è arretrato verso un altro umano che stava dentro la macchina. Gli ha sussurrato all’orecchio “Guarda qui come ci si riduce” e quindi ha ordinato “Ho capito non c’è dubbio, si tratta di spostamento per motivi di salute… ma non stia qui impalato, vada direttamente al Pronto Soccorso, subito circolare!!”
Ma perché dico non ha voluto fare amicizia con me?! Perché non ha voluto sapere come stavo dopo tanti anni che mancavo dalla Terra e senza chiedermi  nulla mi ha mandato dritto all’ospedale?!
Mi sono  incamminato sconsolato alla ricerca dell’ospedale. A un certo punto ho visto una fila di persone davanti a un negozio, uno di quelli che ha la croce verde in alto.  Ho pensato che forse lì avrei trovato riparo e mangiare. Ma la gente era strana, stava tutta in fila, tutta con la mascherina in faccia. Eppure quando sono sceso sulla Terra mi pareva che il carnevale fosse finito, altrimenti mi sarei portato la mia di mascherina. Tutti stavano distanti l’uno dall’altro, nessuno si parlava, tutti pensavano solo a fare alla svelta a entrare. Quando ho fatto per avvicinarmi ad uno, questi mi ha detto “Ehi fermati, deve rispettare la distanza, almeno a un metro da me, non mi venire addosso capito?!
Allora ho esclamato “Mangiare” e un altro umano con il volto schifito ha replicato “Finiremo come te: tutti morti di fame! Ma vai a casa!
Che scortesia a uno che è appena arrivato! Non ho voluto fare polemiche e me ne sono andato zitto zitto, molto triste.
In ogni strada in cui passavo leggevo solo cartelloni con la frase “Io resto a casa”.
Anche ai balconi e alle finestre strisce di carta ripetevano “Io sto a casa”.  Altri guardandomi dalle terrazze dicevano: “Casa, casa!
Certo mi sono detto, questi umani non mi vogliono proprio!
Dopo aver percorso un lungo viale e in fondo svoltato l’angolo, sono arrivato davanti a un posto molto verde. Che bello! Ero tanto stanco e volevo farmi un pisolino sotto le piante, ma il grande parco era sbarrato con il lucchetto. Mi sono seduto sulla panchina, ma una donna con un cane piccolino al guinzaglio  che mi annusava,  mi ha fermato “Lo sa che è vietato sedersi?”.
Io allora mi sono fatto coraggio e ho detto “Casa”.
Lei mi ha risposto “Io  resto a casa” e poi quasi arrabbiata “Certo che io resto a casa, che domande? Ora sono fuori a far fare pipì a Puppy, ma la mia casa è qui, nei pressi.” Poi guardandomi male ha proseguito ”Senti lo so che vuoi fare la spia, ma io sono in regola, sono in prossimità della mia abitazione, a meno di 400 metri!
Ma che vi è successo umani?! Dico, che vi è preso?
Camminando sono arrivato un po’ in periferia, anche lì niente macchine, grandi strade come autostrade senza nessun veicolo. Poi ho visto che c’era un capannone e fuori un serpente di persone lungo lungo. Mi sono detto “forse qui posso trovare qualcosa di buono”.
Mi sono fatto coraggio. La fila girava intorno al capannone quasi due volte come una coda arrotolata. Tutti sempre con le mascherine, ma questa volta avevano anche un carrello. Ho creduto che solo quelli col carrello dovessero fare la fila e quindi sono passato avanti a tutti. Stavo per entrare quando delle grida selvagge mi hanno insultato “Ma dove vai? Mettiti in fila extra comunitario del cavolo!”
Io ho detto “Sono extra terrestre senza carrello”.
Ma la gente si agitava fino a che è uscito dalla porta automatica un umano nero tutto vestito di nero che mi ha dato dei guanti e mi ha invitato a metterli alla svelta aggiungendo di entrare veloce perché si doveva  evitare la rivolta.  Ma io ho le dita lunghe e i guanti non mi entravano. L’umano spazientito ha sentenziatoNon può entrare, mancano le misure minime di sicurezza!”
Umani no, non si si può vivere così! Io non ce la faccio, proprio non posso!
Ho provato a prendere una bicicletta abbandonata per farmi una pedalata in cielo e vedere un po’ se dall’alto le cose cambiavano, ma mi sono scontrato con un drone impertinente che mi ha inseguiva e non riuscivo a staccarmelo da dietro.
Basta! Io Umani io “Telefono Casa”.
Casa” sì, voglio una casa, la mia però, che mi vengano a prendere.
In questa  Vostra Terra mai più, mai più!

CRONACHE INCORONATE

LA SCUOLA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS DI DEBORAH MEGA

Insegno ormai da ventiquattro anni ed è una delle esperienze più belle che mi siano successe nella vita. Ogni giorno ripeto meccanicamente la stessa sequenza di azioni che mi conducono ad essere in classe, a salutare i miei alunni, a organizzare la giornata scolastica al meglio delle mie possibilità ed energie. Uno degli aspetti più belli del mio lavoro è che non esiste una giornata uguale alla precedente: ogni giorno si imparano nuove cose, ci si mette alla prova, si resta soddisfatti per qualche ragione oppure insoddisfatti, si calibra un intervento educativo mettendosi in discussione, ci si mette nei panni degli studenti per presentare e spiegare nella maniera più adeguata un argomento. Raramente, nel mio caso, si interviene per punire, più frequentemente si interviene per premiare un comportamento positivo. Considero i miei alunni come se fossero figli miei, li tratto senza distinzioni e sento che loro avvertono l’empatia di cui sono capace. Ora, di punto in bianco, il 5 marzo scorso ho scoperto, con inspiegabile sgomento, di non poter ritornare a scuola a compiere il mio dovere. Immaginate di essere persone estremamente abitudinarie, di compiere lo stesso tragitto anche stradale, con le stesse procedure per tantissimo tempo, di essere sempre presenti ad un dovere (piacevole) e scoprire ad un tratto che non è più possibile svolgerlo nello stesso modo. Inizialmente, e sfido chiunque ad affermare il contrario, tutti noi docenti abbiamo provato un senso di precarietà, di spaesamento, di abbandono. Occorreva però affrontare la nuova situazione e il nuovo scenario che si originava dalle macerie di un’istituzione che, a causa della promiscuità e dell’impossibilità di far rispettare le distanze di sicurezza previste, poteva essere eccellente luogo e veicolo di contagio. La nuova didattica, definita Didattica a Distanza (DAD), per un primo periodo non è stata resa obbligatoria anche se io, forte di una buona padronanza nell’uso dei mezzi tecnologici grazie ai blog che gestisco, a diversi corsi di formazione e ad una certa caparbietà caratteriale, ho ritenuto di attuarla immediatamente. Ho compreso che occorreva rimboccarsi le maniche e trovare il modo di arrivare ai miei alunni per stabilire nuovamente un contatto, una connessione. La prima emergenza è stata infatti quella comunicativa: farsi vedere, di qui la necessità di presentarsi sempre in ordine, vestita, truccata, farsi ascoltare, spiegare a viva voce, fornire istruzioni didattiche, sostenere e motivare a distanza i miei studenti. Ho tre classi, una prima, una seconda e una terza classe di scuola secondaria di primo grado, in cui insegno italiano. Immediatamente dunque, rispettando il mio orario di servizio e la successione giornaliera delle discipline che insegno (grammatica, antologia, epica, letteratura, latino), ho fissato il nuovo orario che avrei rispettato. Ho eliminato solo la prima ora e la sesta perché il buon senso mi suggeriva di fare in questo modo. La decisione in effetti era quella giusta perché in seguito è stata confermata dalla mia dirigente durante il primo Collegio dei Docenti che abbiamo tenuto in videoconferenza su Zoom. La scuola in cui insegno non aveva attivato la Google Suite, una piattaforma di applicativi Google con cui creare classi virtuali, effettuare videolezioni in sincrono con gli alunni e tanto altro. Così ciascun docente si è attivato a suo modo, secondo il proprio spirito di iniziativa, le proprie competenze tecnologiche, il proprio intuito. La classe docente come tutte le categorie è variegata, però ciascuno, a suo modo, ha cercato di stabilire un contatto con i suoi alunni, con Whatsapp, Skype, Telegram, Google Suite, diffondendo il proprio numero di telefono e rinunciando spesso alla propria privacy. Posso dire che è stato bellissimo rivedere i miei alunni e sono certa che anche loro abbiano apprezzato lo sforzo di noi insegnanti. Ho creato o fatto creare diverse chat di Whatsapp per ristabilire la connessione con i miei alunni, il problema da risolvere però era quello di organizzare delle videolezioni. Dapprima ho utilizzato Google Hangouts che sembrava uno strumento valido, bastava che i ragazzi lo installassero sui loro telefonini o computer e che accedessero tramite un codice che io avevo generato e che inviavo loro su Whatsapp. Dopo le prime due lezioni però, quando cominciavano ad affacciarsi tutti i miei alunni, ho scoperto che la linea supportava solo una decina di alunni. Successivamente dunque ho preferito usare Skype con cui mi sto trovando benissimo. I tempi della DAD sono più stretti rispetto alla lezione classica, per cui si selezionano ulteriormente i contenuti significativi e si propongono compiti di realtà mirati per permettere il raggiungimento di determinate competenze. È stato dunque ripensato tutto il nostro modo di fare didattica. Dalla classe tradizionale con cattedra sulla pedana, lavagna d’ardesia, carte geografiche appese, si è passati alla classe aumentata con l’introduzione di Lim, portatili, tablet, registri elettronici, ebook per giungere alla classe liquida, esplosa, provvisoria, di questa lunga quarantena, secondo la definizione di Bauman applicata alla società contemporanea. Certo è che il lavoro sommerso è aumentato ulteriormente, perché occorre ancora più tempo per preparare lezioni, caricare allegati, materiali, registrazioni audio, link da visionare, correggere i compiti che i ragazzi ci inviano a tutte le ore del giorno e della notte. Molte famiglie si sono trovate in difficoltà perchè non tutti possono usufruire di computer e di giga per le connessioni. A questo proposito, la scuola ha fornito computer in comodato d’uso e perfino giga nei casi di difficoltà, inoltre ha attivato la Google Suite di cui, a breve, scopriremo tutte le potenzialità. Un’ulteriore conferma però l’ho avuta: i ragazzi responsabili e propositivi lo sono anche in tempo di DAD e quelli più sfaticati e meno volenterosi lo sono ancor di più. #andràtuttobene

CRONACHE INCORONATE

Siracusa 31 marzo 2020

IL SILENZIO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS DI LOREDANA SEMANTICA

Una cosa strana che non riesco a spiegarmi è il silenzio. In questo mondo urlante di sgomitatori da palcoscenico. Narcisi scalmanati, tuttologi, fidanzatine e virago, bulletti, trascinatori, ganzi, stronzi, casanova. C’è stato per molti giorni un grande silenzio. Io non parlo di adesso, ma di prima, di quei giorni immediatamente precedenti e immediatamente successivi a quando Giuseppe Conte la prima volta parla alla Nazione della necessità di provvedimenti restrittivi. Ve lo ricordate? Non dice praticamente niente. Non spiega. Non giustifica. Non anticipa. Convoca tutti istituisce le zone rosse, ha una faccia indefinibile tra “Cosa posso dire?” e “Devo farlo perché devo farlo” e niente. Solo ringraziamenti al personale medico, operatori sanitari, medici, ministro della salute. Lascia la parola al Ministro della salute, il quale a sua volta non fa che ringraziare. Il Governo è stato il primo portatore del grande silenzio. Dal silenzio comprendo la gravità del problema. E il silenzio dominava anche qui su facebook, sempre così pronto a farmi sapere di tutto, prima dei notiziari, prima che abbia il tempo di leggere i giornali. Silenzio. Sembrava che il coronavirus avesse tutta la sua gravità di problema nel silenzio. Una sospensione panica, un senso d’attesa prima della catastrofe. Il mondo che girava intorno costretto a fermarsi a forza di decreti. E poiché la morte non giungeva alle nostre porte, anche abbastanza incomprensibilmente. C’era chi urlava ch’era stupido tutto ciò che l’infezione da Coronavirus era solo una banale influenza e, siccome gridava, sembrava più vero del silenzio. O meglio sembrava silenzio anche l’urlo. Tutto intorno si chiudeva in isolamento, contenimento, distanziamento sociale. Come nei film prima di un attacco quando si blinda l’astronave. Scudi protonici. Barriere respingenti. Si fa buio, le paratie scorrevoli in un clangore metallico serrano i boccaporti. Perché tutto tace? Possibile che dentro gli ospedali nessuno senta il bisogno di raccontare, i parenti, gli amici? Dove sono gli ammalati? E dove sono tutti questi morti? Dovranno forse venire? Quanto si espanderà il male? Chi è contagioso il vicino, il parente, il passante? Da dove giunge l’attacco che può essere fatale? È veramente giunta la mia ora? Forse erano queste le domande che aleggiavano sospese. Un grumo di interrogativi. Il missile appena partito non si sa dove va a colpire, ma gli osservatori con gli strumenti giusti sanno in anticipo qual è l’obiettivo. E anche qui ben presto si capisce che il cuore ferito dell’Italia infetta è lombardo. Quel cuore s’incendia di fuoco e di dolore. E via via altrove altri focolai, ma almeno finora non con quella virulenza. Schegge infuocate dappertutto. Poi al silenzio è subentrato un gran parlare. Tutti parlano della pandemia, statistiche decessi, effetti sull’economia. Ancora adesso siamo dentro l’analisi, l’informazione, il racconto. È il modo con cui il mostro si affronta, si esorcizza. Si comunica e perciò si metabolizza. Non siamo più sull’orlo dell’abisso ma dentro l’occhio del ciclone e perciò consapevoli, che, se anche sconquassati, il vortice ci sputerà.
E nel gran parlare che si oppone al silenzio precedente c’è tutta l’ansia accumulata, il dolore introitato, l’impegno dei professionisti, la lotta strenua degli operatori, il nostro essere umani, ancora più umani, ancora più fragili, estremamente simili. Bambini arraffoni e inconsapevoli. Carenti di pace interiore.