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L’ineludibilità del niente: una lettura olistica

di Adriana Gloria Marigo

Il filosofo Jean Paul Sartre in L’origine della negazione, L’Essere e il Nulla scrive, a proposito dell’indagine che andrà a elaborare: «(…) Ma ciascuna delle condotte umane, essendo condotta dell’uomo nel mondo, può offrirci contemporaneamente l’uomo, il mondo, ed il rapporto che li unisce, a condizione che esaminiamo queste condotte come delle realtà obiettivamente percepibili e non come affezioni soggettive che si scoprono soltanto allo sguardo della riflessione. Non ci limiteremo allo studio di una sola condotta. Tenteremo, invece, di descriverne molte e di penetrare, di condotta in condotta, proprio nel senso profondo della relazione “uomo-mondo”».

Il passo contenuto nelle prime pagine dell’elaborazione del concetto sartriano di “nulla” si attaglia alla modalità dell’analisi che Gianluca Conte compie con la chiara consapevolezza di trovarsi davanti a uno dei temi vertiginosi che hanno fondato parte della ricerca di filosofia: dal momento che l’uomo avverte di “essere-posto-in”, ovvero ‘in situazione’, esperisce che il rapporto con sé stesso e il mondo, con sé stesso e l’Altro, è un problema che presenta una declinazione di considerazioni, elaborazioni che riguardano il senso della presenza dell’ “ente” in rapporto a quelli che sono gli elementi che non si possono eludere, che sono ineluttabili in quanto “co(r)–relativi” all’ente”, che viene così a situarsi in una significazione di complessità, a partire dall’osservazione che la relazione presenta un elemento ineludibile, ovvero “dualità” dal momento che con la verità dell’ “ente” sorge la verità del “non–ente”.

Questo elemento di criticità induce Gianluca Conte a superare le strettoie – ma ricchissime di verticalità ontologica – dell’indagine filosofica classica introducendo un approccio, un approfondimento della relazione niente–nulla che attiene alla visione olistica, ossia a quella linea di pensiero definita olismo che riconosce il riduzionismo come non esaustivo nella indagine, poiché le proprietà di un sistema non si possono spiegare definitivamente mediante le singole componenti in quanto «la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore/ differente dalla somma delle prestazioni delle parti prese singolarmente».

È chiaro dunque che l’autore de Il niente ineludibile ci avverte che l’argomento, nella sua articolazione, è un ‘organismo’ che, in quanto oggetto di indagine speculativa, posto dunque nello spazio del pensiero, eccepisce che le parti che lo compongono sono tutte intramate di relazione: non si possono trascurare o privilegiare alcune invece di altre parti, pena l’incompletezza dell’indagine e di nuovo la caduta nel riduzionismo che licenzia come vero ciò che è inficiato di parziale verità, se non addirittura di non–verità. A tale proposito urge in Gianluca Conte chiarire in modo risolutivo che «Il nihil della metafisica non è il niente, ovvero un ‘non–essere relativo’, bensì il nulla, ‘nessuna cosa’. (…). Il ni–ente, quindi, non è in –essente assolutamente nonessente, bensì un in–essente geo–locato». Ed è proprio in relazione a questo dettaglio, che implica una certa originalità rispetto al dettato classico, che l’Autore fa riferimento, secondo quello sguardo ‘olistico’ sopra citato, alla «tradizione mistica occidentale» attestando che l’indagine filosofica, nella sua peculiare natura complessa può accogliere ulteriore complessità di saperi, avvalersi di altri vertiginosi contributi nulla togliendo alla specificità della materia di filosofia. In un ulteriore passaggio inerente al concetto in analisi si legge:  «Il ni–ente, come alternanza ontica, come ‘luogo ontologico altro’ che è altrove rispetto all’ente, inerisce la quiete, la figura geo–locata e geo–metrica che evoca l’oscillazione dell’ente nel limen di forme segniche archetipiche. Il luogo della ‘de–solazione’, dell’ ‘a–ridità’, del vuoto relativamente al pieno». In tale visione che pone in relazione, supera la contrapposizione concettuale, si evince l’abbandono del dualismo cartesiano preferendo la via meno percorsa nella tradizione filosofica occidentale, ossia la speculazione iniziata da Baruch Spinoza – e muove dal panpsichismo di Giordano Bruno – la cui indagine determina una visione non solo razionale, ma anche intuitiva, unitaria della realtà asserendo, il filosofo di Amsterdam, nel seguente passaggio: «Inoltre, che cosa si può dare di più chiaro e di più certo che sia norma di verità, se non l’idea vera? Senza dubbio, come la luce manifesta se stessa e le tenebre, così la verità è norma di sé e del falso». Laddove Gianluca Conte analizza « Il nihil della metafisica»; la «dimensione mistica »; «Il ni–ente, come alternanza ontica»; «La dualità oppositiva–relativa tra ente e ni–ente»; «Il silenzio è dunque linguaggio in assenza di linguaggio»; «Il silenzio ritorna anche in Plotino come silenzio metafisico»; «Il logos insieme alla mancanza–assenza, pone miti e credenze: crediamo perché difettiamo di unità e di conoscibilità»; «L’intuizione, quindi, è radice del pensiero, in quanto elemento mistico e, come tale, capace di un angolo visuale differente, che trascende, a un tempo, conoscenza e volontà»; «La dimensione del ni-ente è, ad un tempo, prossima e distante. L’immaginifico della luce e quello dell’oscurità sostanziano un frangente–limite; l’indecifrabile momento in cui la luce non è più e la tenebra non è ancora»; «Il ni–niente, nell’accezione che fa riferimento a un multi–verso, rappresenta un corrispettivo filosofico di ciò che in fisica viene identificato come antimateria»; «Lo stesso infinito, come dimensione abissale di sterminata grandezza, si estende, secondo il Leopardi, in direzione del nulla: (…) Spazio e tempo incontrano il nulla nel luogo liminale posto tra esistenza e annientamento, e stringono con esso una relazione immemoriale e incontrollabile, poiché il nulla, per sua natura, è il massimo della presenza nella totalità dell’assenza.» è possibile osservare che egli accoglie una metrica di indagine dal connotato ermeneutico implicante le qualità del pensiero analogico affinché accada la verità dell’ente e del ni-ente accogliendo saperi di ordine differente e che pure afferiscono per vie trasversali e analogiche alla postura di filosofia, avendo recepito la lezione comparatistica e necessaria per introdursi entro il nucleo ontico che costituisce l’unità e la polarità della materia indagata che per Gianluca Conte, come per Baruch Spinoza, è nel suo complesso pienamente intelligibile, poiché nulla può essere considerato, a priori, inconoscibile. Dato questo assunto, è pur vero che gli uomini non partecipano tutti di una conoscenza innata e adeguata, poiché sono per lo più assoggettati agli idola di Francis Bacon che li flettono a immaginare senza conoscere, a credenze, non-verità. Occorre, infine, osservare che nell’indagare la relazione niente–nulla emerge che «Nell’essere permane qualcosa di non–visibile, di non–percettibile e, di conseguenza, di non–dicibile.»: ciò ha quale effetto l’accadere del ‘silenzio’, che s’invera «quando non vi sono parole atte a esprimere il nulla di essente». Il silenzio si colloca in un piano di significazione decisamente relazionale: non è soltanto l’atto di tacere davanti a un altro che parla, ma è l’orizzonte di senso in cui accogliere la realtà nel dato dell’apparenza e in quello del non-visibile, che in essa è contenuto. È in quell’ ‘orizzonte di senso’ che pulsa dal niente/silenzio il sorgere della natura ‘creante’ e ‘originaria’ del Logos la cui costituzione, anch’essa relazionale, nulla osta al “silenzio” in cui, come scrive il filosofo francese Louis Lavelle «Vi sono tutte le forme possibili di silenzio. C’è un silenzio di chiusura, un silenzio di riservatezza, un silenzio di mortificazione, un silenzio di collera, un silenzio di rancore. Ma c’è anche un silenzio dell’accettazione, un silenzio della promessa, un silenzio di donazione, un silenzio del possesso. C’è un silenzio che porta il peso di tutti i ricordi senza evocarne nessuno, un silenzio che prende in esame tutte le possibilità senza preferirne nessuna. C’è un silenzio pesante che mi opprime in tal modo che la più piccola parola sarebbe per me una liberazione, c’è un silenzio fragile di cui temo la rottura, c’è un silenzio in cui ringhia una ostilità irritata dal non trovare mezzi abbastanza forti per manifestarsi, c’è un silenzio dell’amicizia piena, felice di aver superato tutte le parole e di averle rese inutili. C’è il silenzio dell’ammirazione e quello del disprezzo, talora il silenzio mi fa sentire la presenza del corpo come un fardello che non posso sollevare; talora invece sembra abolirlo, come se fosse divenuto uno spirito nuovo (…) C’è un silenzio che si origina ora dall’indifferenza ora dal partito preso. È un rifiuto a socializzare con un altro essere o, e ciò è ancor più grave, una certa incapacità di farlo».

 

Nota dell’Autore

Il linguaggio comune utilizza i termini niente e nulla come sinonimi, dando a essi accezioni assimilabili alle idee di nessuna cosa, vacuità, assenza, vuoto, desolazione. Tale consuetudine può essere considerata non solo il frutto della tradizione storico-popolare e mistico-religiosa, ma anche di quella poetico-letteraria e filosofica. Espressioni come «Non siamo nulla» oppure «Su questa terra siamo niente» spiegano bene la concettualizzazione di fondo presente dietro le due parole, che narra della volontà di esprimere la condizione transeunte dell’umano, l’essere di passaggio dell’individuo e della moltitudine. La fine della vita terrena, con tutte le conseguenze che questa implica, ha suscitato da sempre riflessioni a più livelli di pensiero. La paura del totale annullamento, dell’epilogo definitivo dell’esistenza, associata a quella dell’ignoto, è stata fonte di ricerche, discussioni, dibattiti, creazioni artistiche e letterarie, studi filosofici e teologici. Dai motti popolari agli eleganti versi poetici, dalle meditazioni mistiche alle speculazioni metafisiche, il concetto di nulla/niente ha rappresentato l’incontro dell’umano con la «dimensione del tragico», propria della sua impermanenza.

Il ciclo vitale ‘nascita-crescita-degenerazione-morte’, filtrato attraverso il mito e il sacro, ha gettato le fondamenta per una genesi storico-escatologica in cui il nulla/niente rappresenta il «luogo immemoriale» da cui scaturisce la vita di ogni ‘essere’ e quello a cui ciascun vivente ritorna dopo la morte. Quella umana, dunque, è un’«esistenza in dissolvenza», un «abisso destinale» o «destino abissale» cui nessuno può sottrarsi. In tal senso, la presunta riducibilità dei termini nulla e niente ha posto le basi per un’omogeneità teorica che ha legittimato un’equivalenza di senso. Tuttavia, come si vedrà in seguito, questo breve saggio vuole essere un tentativo di mettere in discussione proprio tale identità, cercando di portare alla luce le differenze – «fondativa», «genealogica» e «linguistica» – che sussistono tra i due concetti. Si tratta di una duplice diversità, che riguarda sia il significante sia il significato, poiché se, come  ci ricorda Agostino, «aliquid stat pro aliquo», il problema non è soltanto semiotico ed ermeneutico ma anche, e soprattutto, ontologico e gnoseologico. «I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere, di per sé, qualcos’altro di più di ciò che essi sono»[1], scrive il filosofo de le Confessioni, anticipando alcune concettualizzazioni filosofiche posteriori che hanno avvertito le problematiche di cui sono suscettibili i legami tra «ciò che appare» e «ciò che è»[2].

Il segno, dunque, appartiene a un luogo remoto, eppure intellegibile, posto sulla soglia dell’apparizione nell’orizzonte di senso, ed è un elemento necessario alla conoscenza intuitiva del mondo. Sarà proprio il segno, come vedremo a breve, uno degli elementi che ingraviderà di significato la relazione tra ente e niente.

Il percorso qui proposto, partendo dalle origini della filosofia occidentale, in un confronto con il pensiero presocratico, in particolare quello di Parmenide, passando per Platone, Aristotele, la mistica, Leopardi, fino a giungere alla ricerca contemporanea, cercherà di sviluppare un’idea inedita del niente che, come poc’anzi affermato, pone in atto un tentativo di cogliere la disuguaglianza tra questa e il concetto di nulla abitualmente accolto e condiviso.

[1] Agostino D’Ippona, De Doctrina Christiana, Città Nuova, Roma, 1995.

[2] Agostino, attento conoscitore della lezione platonica e aristotelica riguardante il fenomeno, precorre le speculazioni successive che hanno indagato il rapporto tra ‘essere’ e ‘apparire’. Si pensi, a titolo non esaustivo, a Hobbes, Locke, Hume, Kant, Schopenhauer, Husserl, Heidegger.

Biobibliografia di Gianluca Conte

Gianluca Conte è nato a Galugnano (Le) nel 1972. Vive nel Salento, dove insegna Filosofia e Storia nei licei. Tiene conferenze, seminari e laboratori riguardanti la filosofia, la simbologia, la poesia e l’arte.

Ha pubblicato i saggi Nietzsche. Contro la modernità, Catartica Edizioni, 2018; Il pensiero metacreativo. Nuovi percorsi della mente, Musicaos Editore, 2015; Carmelo Bene inorganico, Musicaos Editore, 2014.

Le raccolte poetiche Universo minimo, Alimede, 2016; 28 strade ancora, Magazzino di Poesia di Spagine, 2014, a cura di Mauro Marino; Danza di nervi, Lupo Editore, 2012, vincitrice del primo premio PugliaLibre 2012; Il riflesso dei numeri, Centro Studi Tindari Patti, 2010, finalista al premio “Andrea Vajola”; Insidie, Il Filo, 2008.

Il romanzo Cani acerbi, Musicaos Editore, 2014.

I racconti La boutique della carne/Teste d’osso, Musicaos Editore, 2014.

Altri suoi scritti sono presenti in varie antologie, tra cui “Inchiostro di Puglia”, e sul Web.

Cura il blog Linea Carsica e collabora con Cammini Filosofici, Alimede Poesia, Itinerari Metacreativi, Zona di Disagio e Frequenze Poetiche.