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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

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Archivi tag: Adriana Gloria Marigo

Canto presente 54: Adriana Gloria Marigo

11 venerdì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Adriana Gloria Marigo, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Adriana Gloria Marigo

Poesie scelte    

 

da   Un biancore lontano, LietoColle, 2009

 

*

Tu non hai memoria dell’infinito

al mio sorriderti nella sera d’aprile

alta su Treviso, dopo lo stupore del temporale

che sorprese lo sfarfallio del nostro pensiero.

 

Neppure ricordi la luce intrepida sull’erba

vibrante il fresco dell’acqua generosa,

i petali volati lontani dal fiore,

gli umidi balsami nell’aria, di nuovo azzurra.

 

 

*

Trascorsi stagioni in terra di nessuno –

landa vasta, senza orizzonte

al plausibile, al gioco ermeneutico

o al magico conto che serve

il viaggio fenicio.

 

Il tempo trascorse dalla terra

per verticale di linfe

e nel punto di fuga iniziò – alla prospettiva –

l’evento creatore.

 

 

da   L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012

 

*

Attesi l’estate per l’esultanza

della luce, la benedizione

dell’ombra, quando lo zenit

è acceso e tutta l’aria

è ambizione della sera

l’intesa di un intrico

verde pulsato di bianco.

 

Venne invece la distrazione

del prodigio, l’orbita rovesciata

nella gravità dei corpi, l’urto

scomposto alla letizia.

 

 

*

S’inclusero le tue parole

in una perla d’aria

– memoria tenue d’universi –

mentre io sgranavo giorni

nei miei occhi di ninfa

mi feci vertigine d’ala

intesi l’ammanco originale

la tua nascita sotto un graffio di vento.

 

 

da   Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015

 

Amor coeli

Sovrastati dal suono della luce

non ci trattengono basse correnti

dove motteggia sempre vero

il tonfo della specie

bassura transitiva di minimo

non accettabile all’inquieto

malleolo in danza.

 

E s’avvera l’azzurro teso

Stando in maestà la luna

di notte viene un vento raro

ad avvolgersi selvatico

sugli alberi spersi nella brughiera

a sconfinare stelle fino in terra.

 

E s’avvera l’azzurro teso,

la sua pagina infinita.

 

 

 

da   Astro immemore, Prometheus, 2020

 

*

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

 

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

 

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

 

*

Obbediente alla congiura dei miti celesti

dalle geometrie sassose oltre il lago

irrompe con lama tagliente

il ventoso sterminatore di foglie

piegate alla confisca dei neutrini di luce,

impone tra la dura trama grigia

spore di cielo, notazioni somiglianti

a suoni su pentagramma.

 

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Paolo Landi: “L’occhio del fulmine”, Prometheus, 2020. Cinque poesie e un commento breve

07 venerdì Mag 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, L'occhio del fulmine, Paolo Landi

 

Paolo Landi: L’occhio del fulmine

Prometheus, 2020

Cinque poesie e un commento breve

Il filosofo Paolo Landi nell’ottobre 2020 pubblica per i tipi di Prometheus L’occhio del fulmine: le nove sezioni Mistero di te, Vago calar della sera, Le onde dei tuoi capelli, L’incendio della parola, Al passo che il piede serra, La statua che il vento erige, Salendo la scala celeste, Le forme nascenti, Le onde portano in epigrafe la dedica all’artista multidisciplinare livornese Furio Allori. La silloge – nella forma poetica che incede per versi ampi, narrativi, sontuosi nei modi di una lingua colta, attraente che ha modanature di termini ricercati, desueti – dimostra l’affiliazione al rigore del pensiero accordato a rime scolpite d’equilibrio metrico; manifesta la complessità sapienziale dell’Autore che ha talento e volizione per la materia del sapere che, in fatto di poesia, media i concetti attraverso paesaggi fisici artistici metafisici di particolare potenza immaginale (come in Le forme nascenti). Si potrebbe avanzare, a proposito della raccolta, l’ipotesi di poesia filosofica (o filosofia poetica) in quanto dalla lettura si evince la particolare fede che l’Autore ripone in un logos pervaso di ideale: in primis nell’ideale della potenza creativa, della genialità nell’arte, nelle forme liriche della bellezza inafferrabile di cui è «… tanto / possente l’inesorabile fiato».

 

Adriana Gloria Marigo

 

*

 

da Mistero di te

 

A PELO DELL’ACQUA

A pelo dell’acqua

apparve il fiore discinto

immobile nel recinto

del suo essere nato:

un meato del cielo

l’aveva voluto

avido dentro quel prato

di acqua matura;

la pura luce

donata dal limbo cristalliforme

del vivido azzurro

teneramente blandiva

un vago sussurro

donato alla nascita inenarrabile;

e l’inudibile

sempiterna ruota

dell’essere alterno

che si squaderna

per entro i millenni

muniva dei suoi portenti

il tripudio di quei fermenti

beati, dipinti dentro la gloria

degli animi sollevati

 

 

da L’incendio della parola

 

PAROLA RINATA

È frale

l’andare per connessure;

lo strepito delle verzure

s’inarca, il pollice duole

le sommesse paure cantando,

ed è notte sulla pagina bianca.

La stanca mano s’addorme,

fatta di pietra e silenzio.

La parca lingua

di un sibilante suono

adesso ridesta

le sue geniture; è l’alba

della parola rinata,

gemella della beata

estasi che perdura

nell’attimo dello spessore

del più sottile capello,

ed è quello che voglio,

se pure è meglio

il fragoroso discorso

che presto s’innalza

splendido di rigoglio,

ma non ritorna

nel luogo dove risplende

l’abito della fiamma

che tutto comprende

 

 

LE PAGINE DEL POEMA

Le pagine del poema

rapprese dentro l’albore

del primitivo nitore

lievitavano nella danza

dell’abbondanza primeva;

la loro sostanza

cresceva nell’onda lungimirante

della fragranza; un più largo orizzonte

visitava le scolte

dell’avita perfezione, dentro le molte

illusioni che germinavano;

le voci sopite venivano scolpite

ognora più vivide

nel marmo deterso

di quell’incanto riverso;

ed un colore disperso

sul mare senza confini

della iridata visione

cangiava in purpuree iridate beltà

il senno vincente

di quella distesa maestà

 

da Salendo la scala celeste

 

SU SCHIENE FURENTI

Su schiene furenti

è tempo di navigare; l’acqua

scioglie i battenti, il mare

s’innalza avido delle scolte

di grigia spuma terrificata;

la notte innalza il pertugio

dopo i diluvi rapiti;

la balza della dimora

avita sulla roccia

ci attende davanti

alla plancia che porta

lo sguardo davanti al cielo.

Avete cresciuto l’anima

dinnanzi alle vostre inferriate,

siete dispersi nei vimini

dei tessuti vitali

intrecciati fra il bene ed il male,

avete girato i cardini

delle pesanti porte

la morte affrontando,

carpendo l’inafferrato mondo,

andando più oltre

 

 

da Le forme nascenti

 

PRIMA CHE FIAMMA ALIMENTI

Prima che fiamma alimenti

l’autentico cuore,

il disamore dovrà alterare

l’azzurro coperchio, e il mare

ruggire dentro la falda

dove ribolle l’odio che serra

la mala pianta; la melma

dovrà risalire

prima che pioggia discenda

su queste rive;

il lavacro

lontano ci porterà;

troverà un Eldorado

privo del baratro e dei suoi lutti,

i flutti ci inonderanno

dei sacri viluppi

e il plettro di nuovi cieli

alzerà la sua lode

al tempo migliore, lucente

nelle sue ore beate,

maturo dei frutti d’estate

 

 

Biobibliografia

 

Paolo Landi (Livorno, 1953) si è laureato in Filosofia e in Lettere presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato oltre sessanta saggi e tredici volumi. Tra le sue opere: Dell’insieme totale (“Giornale di Metafisica”, 2001-2004); Per una teoria dell’arte (2007); L’esperienza e l’insieme totale (2009); La coscienza, gli stati di cose e gli eventi (2011); Idee per una semiologia fenomenologica (2014); L’uno e il molteplice (2016) e Teoria della monade (2018).

 

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Marco Vitale: “Diversorium”, Edizioni Il Labirinto, 2016. Sette poesie e un commento breve

19 venerdì Mar 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Diversorium, Marco Vitale

 

 

Marco Vitale: Diversorium

Edizioni Il Labirinto, 2016

Commento di Giancarlo Pontiggia

 

 

Percorsa da evidente cifra lirica, “la sintassi poetica” di Diversorium ci pone davanti a una raccolta in cui il dettato personale coniuga la rara finezza lessicale all’intenso sentimento della precarietà del tempo e dei luoghi che, espressioni della nostalgia del poeta, irraggiano quella di coloro che attraversano la vita avvertendo la vertigine del rapporto vicinanza-lontananza, la chiamata alla ricerca della risposta, l’intermittenza degli stati felici, mantenendo sul piano stilistico una raffinatezza inusuale nella poesia degli anni più recenti. La padronanza della parola, la cognizione di interiori atmosfere dolenti, la percezione della labilità o fugacità degli accadimenti consentono a Marco Vitale di consegnare al lettore una silloge in cui il paradigma dell’incerto è percorso dalla nota dell’armonia e dalla presenza del “tu” che non si risolve nella pleonastica presenza o assenza dell’ “altro”, ma si estende alle forme del «… libro vasto e offeso della Natura», «compresente il respiro della pietra / dello splendore del retablo».

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

da Nessun farmaco

 

Sarà che col suo passo nel mattino

i bei colori la stagione cede

e incalzano alte nubi

di pianura e ne vanno

e vedo sempre qui, come più indietro

e il caso che racchiude un altro tempo

ancora un po’ ne smuore. Poi

si può dire che vivi nel pensiero

nelle domande che ti faccio e a cui rispondo

senza più crederci, presenza

di nostalgia battito mano

nell’ombra che si posa come nulla

fosse e già lontana

 

 

Di quell’inverno del ‘56

resta una piccola colomba

 

resta un filo di polvere

sul bianco di quel panno

 

le ali aperte non stanno

 

 

da Come da un lungo sonno

 

Così come da un lungo sonno

a cui è dolore il chiaro, il netto

taglio della gelosia che fende

e rigoverna la luce io ti

ravviso e trovo, a lume aperto, e conto

i giorni quasi fossero

nidi che pencolavano e il piovasco

aveva reso più lucidi

 

 

da Lunario calabro

 

Facile

 

Il mare com’è triste la mattina a Paola

e come ambisce

dal vivo del suo blu

per questo lido e attende

sui binari l’incontro

 

E come ogni ritorno

si fa carico

l’ascolto

 

si fa deriva

nel tuo tema di allora

 

 

da Se volge la stagione

 

Umile privilegio è questo bianco

e questo transito

che lega ancora un anno

a un altro anno

un silenzio a un silenzio

 

Solo per te le tracce affondano, si fa

smeriglio anche la luce

meridiana e ridesta

geometrie

linee già eluse

ali nere che addensano

nel libro vasto e offeso della Natura

 

 

da Quaderno romanzo

 

Esercizio amoroso è questa luce

chiara e calma

questa giunzione

questo filo sottile che raccorda

e cerca il sangue. Se vuoi

puoi contare gli snodi sulla punta

delle tue dita

 

compresente il respiro della pietra

dello splendore del retablo

 

A volte una poesia è soltanto un piccolo

commento su una foto

un soffio fatto di niente come dire

guarda, come sorridevate

qui quando la luce

dorava un giorno senza fine, guarda

come eravate giovani, che buffi

gli abiti di allora. Dove siete?

 

Marco Vitale

 

 Biobibliografia

 

Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano. È autore dei seguenti libri di poesia: Monte Cavo, Edizione del Giano 1993, L’invocazione del cammello, Amadeus 1998, Il sonno del maggiore, Il Bulino 2003 (poi in Bona Vox, Jaca Book 2010), Canone semplice, Jaca Book 2007, Come da un lungo sonno, Il Bulino 2009. Un suo racconto, intitolato Port’Alba, è uscito a Mendrisio nel 2011 per i tipi di Josef Weiss. Ha pubblicato la monografia Parigi nell’occhio di Maigret, Unicopli 2000 (nuova edizione 2013) e curato, per la stessa casa editrice, il volume intervista a Evaldo Violo Ah, la vecchia BUR!: storie di libri e di editori, 2011. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011.

 

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Domenico Pisana: “Nella trafitta delle Antinomie”. Edizioni Helicon, 2020. Quattro poesie e una intervista

12 venerdì Mar 2021

Posted by adrianagloriamarigo in Interviste, MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Domenico Pisana, Nella trafitta delle Antinomie

Domenico Pisana: “Nella trafitta delle Antinomie”

Edizioni Helicon, 2020

Prefazione di Dario Stazzone

Quattro poesie e una intervista

 

Dalla prefazione di Dario Stazzone

 

«Come ogni atto poietico e poetico anche Nella trafitta delle antinomie è testimonianza di fede nella parola, sostenuta dalla fede dell’autore. Ma la nostra contemporaneità è segnata da una parola sempre più retorica, cinica e interessata, una parola che perde capacità di significazione e possibilità di raggiungere l’altro. Per questo i versi della prima sezione, Tettonica della contraddizione, ci consegnano una continua e inquieta meditazione, il sogno di una rinnovata onomathesia, la necessità di un rinnovato ascolto della Parola. (…) Ma il caos babelico ha ormai preso il sopravvento, ha determinato la confusione delle favelle, la frattura tra res e verba (…)

La cifra civile della poesia di Pisana è evidente in Passaggio in Italia, dove «silenzio e sdegno di un popolo diviso mi fa eco», in Passaggio in Europa, dov’è incastonato un forte interrogativo: «Ma che vale l’irenismo se ora / cade la memoria, se tutto scivola nell’imbuto / della dissolvenza a materia del golpe, la verità rimane». Questi versi possono essere ricondotti alla tradizione poetica dell’indignatio, vigorosa in seno alla letteratura italiana fin dalle sue origini, da Dante al Petrarca della canzone All’Italia, da Machiavelli che nella conclusione del Principe cita i versi della canzone petrarchesca nell’ambito di una più ampia e veemente adlocutio agli italiani ad una pletora di secentisti, dal Leopardi delle canzoni del 1818 al tentativo foscoliano di fondazione di una laica religio.

La raccolta di versi di Pisana riserva una sorpresa, un’Appendix che raccoglie una successione di ritratti in versi di poeti ed artisti, un’isola in cui si respira un’aria pura che sembra concepita in contrappunto all’aspra realtà rappresentata. Ma una citazione tratta da Ovidio, esergo a questa più breve sezione, ci ammonisce contro la perdita di memoria e le umane ingenerosità: «Finché sarai illeso, potrai contare numerosi amici, ma se il tempo si abbuia, allora sarai solo».

Intersecando la sua voce con quella di altri poeti, evocando le immagini di un grande pittore, Pisana ci riconduce a ciò che è realmente umano, all’irrinunciabile valore tetico della parola e dell’immagine, contro l’odierno universo di barbarie.»

 

Le lingue incespicano

 

Quanta umanità smarrita hai già narrato,

anima mia, voce solitaria nel deserto:

dalla notte rifluisci all’aurora,

dall’aurora torni ad abbracciare la notte,

per via ti tracima la lucerna.

Senza amore, senza forza

di speranza – ma vedi come il sogno

lentamente si dilegua nel tramonto –

a volte ti innalzi illuminata

dalla fede, a volti ripiombi nell’abisso.

Parli la Lingua dell’Eden che ti fu data;

esisti, come sia lo chiedo ancora

al cielo, a questo tempo in cui

le lingue incespicano

su simboli sbagliati

aumentando l’infelicità del mondo,

a questa ora in cui più forte

ogni popolo – forse – dà nomi errati alle cose

implorando la sera della tirannia

che le stelle fuggono e rischiarano.

 

 

Pensando di cambiare

 

Se non cambia il cambiabile

l’incambiabile è il nostro futuro,

disegno di parole versate sul letto del fiume,

raccolte da canoe in cerca di successo.

Viviamo di pensieri che non sono Parola,

si contano sillabe, suoni e insulti

si plagiano bellezze, costruiscono gabbie

si appicca il fuoco, si colorano le nuvole,

diventano amore, odio, inferno e paradiso.

Bruciamo parole per reggere tesi, costruire

castelli con muri di cinta, frugare

nell’anima di uomini soli, si erigono sepolcri

e accendono fiaccole, sono lame e carezze,

miele e fiele, rose e spine.

Mi turbano opere di cuori perversi, sagome

di follia in valigie di morte, virus

d’invidia custoditi nel petto, maschere

di tenebre travestite di angeli, alchimie

d’arcobaleni per assalti di pioggia.

E chi non vede e non sente apre la strada

al silenzio che odora di veleni,

di sangue e di paludi, distrugge la speranza

che l’acqua prevalga sui roghi del male.

Pensando di cambiare, abbiamo

dimenticato di cambiare

noi stessi.

 

 

Nel fossato di parole

 

Leggera piuma ormai sono le pagine,

da tutti osservato

con esse io sto nella mia anima,

mi sento granello di sabbia;

al di là dell’ombra e della nuvola rossa

si nasconde il pensiero

si sbriciolano le certezze

ed il muto dolore

per cui paventasti con assenza d’amore

questo sangue della notte

e la sua tenebra travestita di luce.

Del mio pianto sfavillano gli specchi

ed i frutti di casa mia,

le forbici son per prime

sul crinale madido di lingue,

tutta la trasparenza dell’acqua è nella fogna

tutto l’amore della croce nel ghiaccio

e fanno rime con le forbici.

Di città in città si piangono i feriti

nel fossato di parole

e il sole di giustizia sbiadisce

su un’altra pagina di morte.

 

 

Ad Andrea Zanzotto

(Dietro le quinte)

 

Esili ormai sono le parole,

da molti isolato

con esse io convivo nella mia terra,

mi sento un ramo d’ulivo;

oltre il muro e la collina colorata di luci

si riaccendono i sogni

si sveglia la notte

e la pallida speranza

per cui vale resistere

a pantomime di latente potere

recitate nei palazzi che sanno d’antico.

Del mio canto suonano i pensieri

e le ore attendono l’uomo unto di magie,

le città sono vuote di fiducia

con lo sguardo al cielo madido di veleni,

tutta l’aria cristallina è nel pozzo

tutto il fumo nelle apparenze

e fanno squame sugli occhi.

Di giorno e di notte si battono le mani

nella morbida distruzione

e il rosso del tramonto si curva

su un’altra pagina di luna.

 

 

Intervista

 

  1. Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

La domanda apre nella memoria momenti legati alla mia adolescenza. È fra i banchi di scuola dello storico Liceo Classico “T. Campailla” di Modica che ho cominciato a scrivere versi. L’input, in quel periodo (eravamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70), mi venne dal mio docente di Lettere, morto il 7 gennaio scorso a 90 anni, che era un fine poeta, un saggista e critico letterario.  Le sue lezioni, la lettura dei versi di autori della letteratura italiana e latina, che egli  faceva con grande pathos interiore, suscitavano in me un fascino ed una attrazione forte. È sin dalla mia vita scolastica, insomma, che è nato l’amore per la poesia.                        

2. Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

Ogni epoca storica ha avuto i suoi poeti. Dai tempi delle mitologie, delle antiche letterature orientali, dalle Teogonie di Esiodo e dai lirici greci ai poemi omerici, per passare a Dante, Petrarca e fino al XX secolo, la poesia ha avuto le sue figure e i suoi personaggi di grande rilievo, che hanno lasciato un segno nella storia della letteratura. Riconosco che questo patrimonio poetico che abbiamo alle spalle continua, in un modo o in un altro, ad avere proiezioni ed influenze sulla  dimensione del mio poetare, ma  con l’obiettivo di ripensarlo rispetto alla condizione esistenziale dell’uomo di oggi. Carducci, Pascoli, Montale, Quasimodo, Ungaretti, Rebora, Zanzotto, Saba sono alcuni dei miei riferimenti letterari italiani, mentre per gli stranieri sono miei riferimenti i poeti francesi Baudelaire, Verlaine, Mallarmé e Rimbaud, ed ancora i poeti Lorca, Neruda, Tagore e Gibran.

Dentro questa geografia di riferimento ritengo che la poesia debba essere ripensata in “senso intuizionista”, cioè nella direzione dell’ “intuire”, cioè dell’ entrare dentro questo nostro tempo per fare venire alla luce il “perché” questa nostra società post moderna sta andando sempre più alla deriva. Dentro alla rilevante fioritura poetica contemporanea, ritengo sia necessario trovare “convergenze di poetica” che siano frutto di una “intuizione della storia”, in grado di trasformarsi in arte e comunicazione poetica. Credo in una poesia con un’idea di poetica. Fare poesia non è certo un mestiere, ma non può essere neanche un gioco; se il poetare diventa il pastiche-passatempo di anime belle, cioè lo sfogo di emozioni che coinvolgono il sentimento, la denuncia o il lamento di cose che non vanno, con versi che in tutto o in parte rielaborano brani tratti da opere preesistenti, per lo più con intento imitativo, credo sia difficile per la poesia contemporanea lasciare un segno negli anni a venire.

3. Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

I luoghi in cui sono nato e vivo entrano molto nella mia opera poetica. Questi, infatti, non sono  per me pure e semplici ambientazioni, sfondi coreografici, contenitori retorici che distolgono l’attenzione del lettore dai contenuti, ma  conglomerati di senso e di significato che la poesia, in particolare, avoca a sé ogni qual volta percorre la strada di una seria riflessione sull’esistente e sul fenomenico. Ecco, dunque, l’importanza dei  luoghi iblei nella mia poesia, tant’è che ho anche pubblicato a riguardo, una silloge bilingue (italiano–inglese) Odi alle dodici terre, Armando Siciliano editore, 2016, dove la mia scelta di cantare in versi i luoghi della terra iblea non si configura come  un mettere in fila sfondi di paesaggi e “contenitori retorici” né rappresenta una opportunità letteraria quant’anche interessante, ma piuttosto un modo di recuperare, descrivere, esaltare e dare significato ad una terra plurale, composita (“signorile e rusticana”, direbbe Bufalino), con città, campagne, mare, coste dalle peculiarità individuali ben definite; i luoghi da me individuati e cantati nelle Odi ricompongono allora, attraverso la mia sensibilità e il mio sentire poetico, i tratti distintivi, fondativi, identitari di una terra, di una civiltà:  ad ogni città iblea dedico odi poetiche, facendone risaltare valori, bellezze, paesaggi, architettura e tradizioni aprendo nel lettore una sorta di dialettica poetica tra storia e memoria.

 

4. Ci parli della tua pubblicazione?

La mia ultima pubblicazione, Nella trafitta delle antinomie, è dell’agosto 2020, ed esiste sia in versione italiana, pubblicata da Helicon di Arezzo,  sia in versione rumena, În străpungerea antinomiilor, pubblicata dalla casa editrice Editura Școala Ardeleană; è stata recentemente insignita dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi del “Premio speciale della Critica” nel quadro della XIII Edizione del Premio Internazionale di Poesia per la pace universale “Frate Ilaro del Corvo”. I versi di  questa raccolta – come fa rilevare molto bene anche il prefatore Dario Stazzone dell’Università di Catania nonché Presidente della Dante di Catania – si riconducono alla tradizione poetica dell’indignatio, vigorosa in seno alla letteratura italiana fin dalle sue origini, da Dante al Petrarca della canzone All’Italia, da Machiavelli che nella conclusione del Principe cita i versi della canzone petrarchesca nell’ambito di una più ampia e veemente adlocutio agli italiani ad una pletora di secentisti.

 

5. Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Certamente io non l’ho partorita con una finalità specifica, ma con la consapevolezza  che  scrivere versi è sempre un modo per essere di più legato al mondo; potrà o meno piacere, ma sono convinto che  il poetare non deve staccarsi dalla vita nelle sue articolazioni storiche, politiche, sociali, filosofiche, religiose, di idealità, passioni, difficoltà e speranze; del resto sono convinto che la coltivazione della poesia come valore a sé stante o come insieme di dilettazioni poetiche disancorate dalla vita e dal suo sitz im leben resterebbero solo flatus vocis destinato a dissolversi.

Dunque credo, sulla scia della Tradizione letteraria internazionale, che questa mia ultima opera presenti contenuti, linguaggi e forme che non ignorano i “segni dei tempi”, e che tengono conto del contesto e dell’uomo contemporaneo al quale la mia parola poetica spero possa arrivare.

6. Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

Questa mia opera nasce – come bene ha anche fatto rilevare in una sua nota di analisi il critico letterario Federico Guastella – dalla contestazione delle degenerazioni socio-politiche, e col bisogno di fare continuamente i conti col disagio; ragion per cui si sviluppa nell’impegno costruttivo del “dover esserci” come soggetti di continua prassi. Si tratta di poesia civile, dunque, entro l’ampio respiro del “fare anima”, nel senso che vi si trovano delicate, intime suggestioni in un’atmosfera di umana universalità; di una poesia che, dettata dalla necessità di scendere nelle profondità dell’uomo e della società, si radica in vigorosi moduli etico-linguistici, dove la parola è vissuta come innamoramento per farsi dirompente nella ricerca del vero quale misura di vita.

7.Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

Neruda coglieva un aspetto essenziale e fondamentale nella vita di un poeta, e cioè quello dell’ispirazione, della folgorazione – oserei dire-; come San Paolo sulla via di Damasco, il poeta vive un momento in cui cade dal cavallo grigio della quotidianità e intuisce qualcosa dentro che lo porta a scrivere, a ritirarsi, a dare alla parola la sua forza espressiva per interpretare un sentimento che è suo, ma che diventa collettivo, di tutti e che si fa epifania di una essenza metafisica universale.

Personalmente ho scritto questa raccolta progressivamente e quando mi sono sentito ispirato; io credo molto nell’ispirazione e sento la poesia come una dilatazione dell’anima che partorisce una parola che si fa linguaggio; il verbo dilatare è allusivo: potremmo cogliere una analogia tra la dilatazione dell’utero della madre proprio nel momento in cui dà alla luce un figlio e la dilatazione del sé del poeta che partorisce un testo poetico. C’è in entrambi i casi la sofferenza di un parto: fisico quella della madre, metafisico quello del poeta. Ecco, è l’ispirazione poetica, anzitutto, a svolgere nel mio poetare  un ruolo importante; l’ispirazione, certo, non è da intendersi come una speciale rivelazione né come uno scrivere di getto quasi sotto dettatura, ma è l’intervento del pensiero pensante, del sentimento, di uno stato d’animo, che si fanno presenti in modo straordinario al poeta , la cui intelligenza, è resa capace di concepire idee, immagini, figure, simboli e di formulare contenuti, particolarmente rilevanti all’interno di una struttura metrica e di un codice lessicale, per l’identità di una comunità civile. Nell’ispirazione poetica di questa mia raccolta, dunque, hanno interagito contemporaneamente tre ordini di facoltà: la concezione dei contenuti, che in questa opera sono sociali, politici, satirici, esistenziali, di respiro collettivo; la volontà di esprimerli in una data forma stilistica e l’atto concreto dell’espressione di questi contenuti.

8.La copertina e il titolo. Chi, come, quando e perché?

Il titolo dato a un qualsiasi libro ha una funzione di sintesi in cui è racchiuso il senso dell’architettura espositiva. In questa mia ultima raccolta due sono i lessemi che la specificano e guidano: “trafiggere” e “antinomia”.                                                      Il termine “antinomia” da un punto di vista filosofico evidenzia un contrasto fra due concetti opposti che per Kant non è risolvibile con l’uso della ragione: tra tesi e antitesi c’è una contraddittorietà che le pone sullo stesso piano di validità. Da qui l’impossibilità di operare una scelta a favore dell’una o dell’altra. A me è stato più congeniale pensare all’albero edenico della conoscenza, nonché alla condizione dell’uomo che nella concretezza del momento storico vive sulla propria pelle le irrazionalità del sociale.  I miei versi lunghi nascono difatti da questa realtà resa nella prima parte dell’opera: è la lirica d’apertura, Le lingue incespicano, ad evidenziare il motivo tematico fondamentale, quello di un cosmo regolato dalla complementarietà di coppie contrarie (notte/giorno; sogno/tramonto; fede/abisso; vero/falso). Il “trafiggere” esprime invece  la brutalità, la violenza, la crudeltà che di prepotenza entrano nei rapporti tra gli uomini, deformando volti e situazioni.

La copertina della silloge reca il dipinto di René Magritte L’uomo allo specchio, ora al museo Boymans di Rotterdam. In piedi di fronte ad uno specchio, osserviamo un uomo di spalle che è vestito elegantemente. Indossa un abito scuro e ha i capelli accuratamente tagliati. Un ritratto dai dettagli ben definiti: dalla cornice dorata alla mensola in marmo di un caminetto. Eppure il suo volto è invisibile: nell’immagine riflessa, l’uomo è ancora visto di spalle. A vedersi nettamente è invece il libro sulla mensola: Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, probabilmente amato dal committente. La sua essenza resta nascosta, negandosi allo sguardo. Anonimo dunque il personaggio e inquietante come il volto indistinto del “Potere”, che secondo me ha fatto perdere il linguaggio del mondo sempre più posseduto dal buio, dove tutto appare doppio nella illeggibilità di una realtà abitata dal disordine e dalla asimmetria.

  

9. Come hai trovato un editore?

In realtà non ho cercato un editore,  in quanto  a seguito della mia classificazione al I posto al  Premio Internazionale di Arte Letteraria “Il Canto di Dafne” con un saggio letterario inedito dal titolo Quasimodo, Rebora e Garcia Lorca: Poetas que tienen el fuego entre sus manos: percorsi di umanesimo, spiritualità e poesia sociale, ho vinto, come previsto dal bando, un contratto editoriale per la pubblicazione gratuita di una raccolta di poesie o di una raccolta di racconti o di un romanzo a cura delle Edizioni HELICON di Arezzo, nonché diploma artistico personalizzato e targa. Nella trafitta delle antinomie nasce così. In secondo luogo a proporre la pubblicazione in Romania lo scorso novembre e ad occuparsi della traduzione è stato Stefan Damian, poeta, scrittore, saggista, filologo e direttore della cattedra di lingue e letterature romanze, Facoltà di lettere dell’Università Babeș-Bolyai,  che ha tradotto numerosi libri di narrativa, poesia, saggistica, storia dall’italiano al rumeno e dal rumeno all’italiano.

 

10. A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?

Poggiando il libro su temi di poesia sociale, ed avendo esso una prospettiva cognitiva, filosofica, antropologica, etica ed estetica , credo abbia un ampio spazio di movimento per poter essere letto. Ad ogni buon conto, applico a me stesso le parole che Henry James, scrittore e critico letterario statunitense, noto per i suoi romanzi e i suoi racconti sul tema della coscienza e della moralità, rivolgeva a se stesso: «Meglio essere attaccato che passare inosservato. Perché la peggiore cosa che si possa fare a uno scrittore è non parlare delle sue opere».

 

11. In che modo stai promuovendo il tuo libro?

L’opera si trova ora nel portfolio editoriale della casa editrice rumena Editura Şcoala Ardeleană, che comprende importanti titoli di letteratura transilvana, ma anche saggi, teologia, arti visive, psicoanalisi, spiritualità, storia letteraria, filosofia, studi culturali, teatro, nonché articoli accademici, tesi di dottorato e altri articoli scientifici e universitari e traduzioni di autori della letteratura straniera (inglese, spagnolo, italiano, portoghese, ceco, serbo, ungherese, ebraico, giapponese e russo). In  Italia le Edizioni Helicon hanno patrocinato una campagna di promozione, tant’è che la versione italiana del libro si trova in diverse distribuzioni on line: www.mondadoristore.it, www.ibs.it , www.bookdealer.it , www.libraccio.it

 

12. Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)

Paradigmatica è per me, in questa pubblicazione, la poesia Suolo e sottosuolo, ove spicca evidente l’antinomia:

 

“Quando mi adagio al suolo appare tanta bellezza:

volti smaglianti, bicchieri trasparenti, filari tessuti

di ricami, intarsi costruiti con marmo di Carrara,

eloqui caldi di parole e di “mi piace”: sembra che sia

dappertutto  sole, luna che ispira parole d’amore, 

stella che ti fa sognare mare che t’apre all’infinito.

Il corno suona giustizia e speranza, il lupo e l’agnello

pascolano insieme nei campi madidi di miele,

l’odio e l’amore s’abbracciano alla bisogna.

Quando mi adagio al suolo, ogni voce annuncia

il  paradiso, ogni viso pratica la giustizia,

si indigna, versa lacrime, dice la verità e ama

d’amore sincero e passionale.

 

Quando scendo nel sottosuolo, rimango strabiliato,

i miei occhi s’impaurano, arrossiscono:

trovo animali feroci, persone cambiate,

in rivolta, infelici e dannati.

Raccolgo gramigna, bicchieri sporchi,

filari intemperanti, urla, sguardi abbuiati, noia,

volti soli, senza vita e senza maschera.

 

Quando scendo nel sottosuolo, sento che il corno

suona per sé, mi vedo agnello in mezzo ai lupi, odoro

fiele  e non più miele, mi sperdo nell’olimpo degli dei

ove ognuno adora se stesso in mezzo al sangue di innocenti.

Trovo il vero suolo: anime assetate d’amore, pianto

e lacrime, persone con le spalle curve, sguardi in cerca

di sorrisi, agnelli in attesa del pastore che dà senso.

 

Quando scendo nel sottosuolo, trovo animali smarriti

in cerca di persone, volti che cercano il cielo, la luna,

le stelle,  sottratti alla maschera del giorno.

 

Vorrei rimanere nel sottosuolo senza cambiare identità,

per dire che l’amore è ciò che più conta,

sognare sogni di libertà, cantare il canto della speranza

con le mani verso il cielo, abbracciare la terra

dal legno della croce, costruire il mondo senza guerra

e senza odio, fare delle mie mani una coppa di neve.

 

Spesso non resta che adagiarsi al suolo

inferno vellutato di paradiso, arma di difesa

per non morire:

uno, nessuno, centomila! 

 

 

13. Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

Non ho particolari aspettative. Continuo a credere in una poesia dinamica, che si evolve restando radicata in un umanesimo che riesce ad innovare, a sperimentare senza perdere il contatto con la tradizione, con la storia, con la società. Personalmente non mi appassiona il purismo lirico disancorato dal reale, dalla conoscenza e dalla filosofia, né il prosaicismo privo di tensione morale. Rispetto a quest’opera, spero che i miei versi – per dirla con Montale – non rimangano “spoglie morte”, ma che trovino accoglienza tra i pochi lettori di poesia.

14. Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Come mai ha scelto come epigrafe del libro la frase di Leonardo Sciascia “Nessuno è al di sopra di ogni sospetto”?

 

15. Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Sì, ho parecchi lavori in corso. Un’altra raccolta dal titolo provvisorio L’esilio della notte. E ancora un testo di critica letterario Donne in poesia: si tratta di una panoramica su alcune significative voci femminili contemporanee della poesia italiana; e infine  un saggio dedicato a poeti contemporanei stranieri.

 

 

Biobibliografia

 

Domenico Pisana è nato a Modica nel 1958. È laureato in Teologia ed ha conseguito il dottorato in Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana dell’Università Lateranense di Roma. Pisana ha pubblicato con editori di caratura nazionale ed europea, come la San Paolo, la SEI, la Albalibri di Livorno, le Edizioni del Rinnovamento di Roma, la Inumea di Bucarest, la San Pablo di Bogotà, la casa editrice polacca 4 KP di Varsavia, ma anche con medie e piccole case editrici. Ha pubblicato: 9 volumi di poesie, 8 libri di critica letteraria, 11 testi di carattere teologico ed etico, 3 volumi di carattere storico-politico. In quasi un trentennio di fiorente attività letteraria, si sono occupati di Domenico Pisana la rivista di Letteratura greca Pancosmia Sunergasìa, l’Antologia poetica Romanta in italiano, inglese, francese e tedesco, gli autori Irena Burchacka e Anna Sojka che hanno tradotto in polacco l’opera teologica di Pisana Sulla tua parola getterò le reti, tradotta anche integralmente in versione spagnola da Augusto Aimar; ed ancora si sono occupati di Pisana il poeta e critico letterario rumeno Geo Vasile, che ha tradotto il suo saggio Quel Nobel venuto dal Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria ed oblio  e la poetessa Floriana Ferro che ha tradotto in inglese il suo recente volume Odi alle dodici terre. Il vento, a corde, dagli Iblei.

Di Domenico Pisana si sono anche occupati “Il Giornale Italiano de Espana” di Madrid,  il Giornale on line “L’ItaloEuropeo Independent” di Londra, la rivista francese “La Voce” di Parigi, la rivista letteraria internazionale Galaktika Poetike “ATUNIS”,  il quotidiano on line dell’Arabia Saudita “Sobranews.com”.

Recentemente Pisana è stato anche tradotto in rumeno da Stefan Damian, poeta e scrittore e docente di letteratura italiana presso il Dipartimento di Lingue Romanze dell’Università di Bucarest, sulla rivista romena “TRIBUNA”; è stato tradotto dal poeta e docente universitario albanese Arjan Kallco sulla rivista italo-albanese “ALTERNATIVA”,  ed è stato inserito nel volume ATUNIS GALAXY ANTHOLOGY – 2019, a cura di Agron Schele, autore albanese residente in Belgio,  scrittore di romanzi e co-fondatore della rivista internazionale  ATUNIS.

È stato ospite e recentemente  ha ricevuto riconoscimenti in importanti Festival Internazionali: in Bosnia al Festival “La Piuma d’oro”, a Istanbul in Turchia al FeminIstanbul” e il 24 novembre scorso in provincia di Massa Carrara al Festival Internazionale di Arte Letteraria “Il Canto di Dafne”.

Tra i numerosi  premi e riconoscimenti letterari ricevuti, ne ricordiamo alcuni:

– Medaglia d’oro del “Premio alla Modicanità”, conferitogli nel settembre del 2006 dall’Amministrazione Comunale e dalla Pro Loco di Modica;

– Premio “Capitale Iblea della cultura” per l’impegno profuso nella promozione della cultura e dell’espressione poetica proprie degli Iblei”, conferitogli a Comiso il 15 dicembre 2015;

– “Premio Sicilia Federico II” alla cultura per le sue pubblicazioni e attività culturali, conferitogli a il 27 novembre del 2016;

– “Premio Europeo FARFA” per la cultura e il territorio 2017, dall’Associazione Internazionale dei Critici Letterari il 21 gennaio 2017;

– Premio alla cultura “Magister vitae” conferitogli a San Vito Lo Capo (Trapani) il 2 settembre 2017;

– I° Premio internazionale “Dal Tirreno allo Jonio” conferitogli il 20 dicembre 2010 per la saggistica, nell’ambito delle manifestazioni di chiusura di Matera Capitale Europea della Cultura 2019;

-Premio speciale della critica conferitogli dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi alla raccolta poetica Nella Trafitta delle Antinomie.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Sergio Carlacchiani: “Indiscrezioni dal fortilizio”, RP Libri, 2020. Sei poesie e un commento breve

19 venerdì Feb 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ 1 Commento

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Adriana Gloria Marigo, Indiscrezioni dal fortilizio, Sergio Carlacchiani

 

Sergio Carlacchiani: Indiscrezioni dal fortilizio

RP Libri, 2020

Nota postfatoria di Filomena Ciavarella

 

 

L’Ego può innalzare fortilizi entro i quali costruire difese attacchi resistenze contro gli agguati del mondo, le maschere di un tu dalle «bocche eternamente aperte» falsario di bene, ma il Sé trova brecce sicure per portare oltre le mura notizie che nella loro immediatezza hanno l’aria dell’indiscrezione di quanto avviene nella strategia del vivere entro l’assedio immediato o dilazionato: il titolo Indiscrezioni dal fortilizio sembra suggerire queste immagini primarie che, invece, lungo le pagine si perfezionano nella declinazione di altre legate dai canapi del sentimento il cui connotato maggiore è l’ardenza di una natura delicata e forte, di una audace leggerezza profonda, di un logos che mostra senza censura la sua «unghia di verità» guerriera e «infelicità senza difesa»: la poesia di Sergio Carlacchiani si presenta come una nube interstellare, una nebulosa, in cui ‘concentrazione’ e ‘diffusione’ sono le dinamiche attraverso le quali egli impianta le sue poesie che nel tumulto dell’esistenza attingono sia alle profondità del tenebrore, sia alla distesa del lucore, fino alla spazialità della luce. C’è nell’Autore la compresenza dell’aedo e del rapsodo: egli ha ricevuto “un dono fortunato delle Muse”, ossia la facoltà di scrivere, pronunciare, porgere la parola cantatrice che evoca, inventa, foggia.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

 

d’IO dio perché mi hai abbandonato?

 

Tra epidemie guerre merci affari

distante dall’asfittica logica dei denari

richiuso raro nella finestra d’un muro

scruto bocche eternamente aperte

non voglio ascoltare inutili cantilene

troppa stanchezza ho del mostrarmi

ritirarmi in un giro di vite smarrito

voglio non essere più contenuto

a un solo grido avvinghiarmi

restare privo di misericordia

abbandonato dalla solitudine

in atri gorghi vicoli di silenzio

naufragante nell’alto nuvoloso

suturato dentro qualsiasi dolore

vortice divino sferza inesorabile

uragano perla unghia di verità

palpito al fine d’oblio non altro

che un’inerte eco riparatore

gesto strozzato esasperato

terreno dolore malinconico

nell’esistente silenzio morale

ansia tormentosa inuguale

nonsenso solido del niente

sprofondare sino in fondo

nell’infelicità senza difesa

sciagura ignota inattesa

mondo spento che mente

recluso nel male evocato

insorgente dall’invisibile

patogeno agente infettivo

sterminatore d’impronte

d’IO

misera storia umanizzata

eternizzata da chissà qual

dio.

 

 

 

Oltrepassando

 

Attingerò nella profonda sorgente di vita

attraverserò anche oggi chilometri di luce

confiderò in questa mia capacità d’apertura

pronto nuovamente a farmi squarciare il petto

non un gesto non una parola come morto

tra i morti disperso camminerò sulla superficie

con il coraggio di chi confida in un cuore indomito.

 

 

 

Sbavatura di silenzio

 

Mi godo quest’ultima

sbavatura di silenzio

che s’infila sulla dorata

luce dell’aurora

la sola voce ramata

d’ascoltare ora che

lo scompigliato mare

degli sgarbati rumori

in sé la fa annegare

sono cenere polvere

che il vento spazza via.

 

 

 

Spetalo l’anima morente

 

Spetalo l’anima morente

canta la pioggia sottovoce

lacrimevole melodia

in martirizzato stato

la carne attonita

ridotta a orma

il cuore lapidato

dall’ignavia eletta

a ferrea norma.

 

 

 

 

Brucio come si deve…

 

Nell’attesa in perdita dell’amorosa notte

faccio spesa di speranza in svendita eppure

sterminata la città come se fosse dal silenzio

le ore sembrano aver esaurito tutte le lacrime

un pudore dignitoso di morte si stende educato

quale consolazione è questa bizzarra sofferenza?

Lo spirito si palesa con la sua inquietante autorità

la turbata nobiltà non ha altro nome che grazia

indicibile nudo d’angoscia s’è stracciato le vesti

cado sopra di lui abbracciato nel buio scompare

e io ancora brucio d’ardore come si deve…

 

 

 

Anima mia

 

Entri nel vivo quasi sparando al mondo

anima mia perché infatti indugiare

ancora abdicare all’imbecillità

ora carne e ossa sei dell’insofferenza

mai più ottusi incontri insostenibili

uniformità gratuite senza pena

esci di scena come assoluta

da palcoscenico eterno mai

più rappresentazione terrena

ma favolosa distante dal niente

è troppo tardi non rincorretela

in fuga senza sosta da voi

non la potete più trastullare

anima scevra d’impedimenti

costellazione di vicoli ciechi

io la luce! Gridasti a me

in disparte…

 

 

Sergio Carlacchiani

 

Biobibliografia

 

Nato a Macerata nel 1959, Sergio Carlacchiani (pseudonimi: Karl Esse – Sergio Pitti – sergio e Basta!) è performer, attore, doppiatore, poeta e pittore. Direttore artistico di varie rassegne teatrali tra cui ricordiamo:

“Poeti e Poesie da Decl/Amare ; “Civitanovapoesia”, Festival Internazionale di Live Poetry ; “Poesia in Vita”, Festival di Poesia Declamata e “Vitavita” Rassegna Internazionale di Arte Vivente. Si è occupato di poesia lineare, visiva, concreta, sonora e di mail art. Ha pubblicato nel 1979, “Poesie”, per la Collana Poeti d’Oggi, Gabrielli Editore, Roma; nel 1983, Quadri di Parole, a cura dell’Associazione per le Ricerche sulla Scrittura, Grafiche Cardarelli & Casarola Editore, Monte San Giusto, Macerata; nel 1987, con lo stesso Editore ha pubblicato Quadri di parole 2. Dal 2016, dopo un lungo periodo d’inattività, ha ripreso a scrivere.  Si è formato, come attore, presso la scuola del Minimo Teatro di Macerata. Ha seguito diversi corsi di perfezionamento e specializzazione. Ha conseguito a Roma il diploma d’impostazione e uso della voce e tecnica del doppiaggio cinematografico, sotto la guida del maestro Renato Cortesi.

Da molti anni si occupa di porgere la poesia in maniera multimediale e spettacolare. Tra i tanti recital tenuti, da ricordare in assoluto quelli a Recanati, presso il Colle dell’Infinito, il 29 Giugno 2010, e 2014 in occasione delle Celebrazioni Leopardiane. Visto il grande consenso e favore di pubblico e di critica Casa Leopardi gli ha chiesto d’interpretare, in sala d’incisione, una selezione di Canti leopardiani editati nel 2011 da Giacomo & Giacomo nel cd O graziosa luna, io mi rammento… che si trova in vendita con il film di Martone Il giovane favoloso nel Museum shop di Casa Leopardi .

Sergio Carlacchiani ha un canale su YouTube, una sorta di Biblioteca Sonora che conta più di 15.000 interpretazioni, registrate dal vivo o in studio, che danno voce a poeti, scrittori, filosofi, dall’origine dell’umanità a oggi, di tutti i paesi del mondo. Affatto di secondo piano è la sua attività di pittore: numerose sono le sue mostre personali e collettive di pittura, scultura e poesia, altrettante sono le performances, gli happening e i vernissages realizzati in diverse città italiane ed estere. Le sue opere, recensite da quotidiani e riviste specializzate, sono state esposte in tutto il mondo e sono presenti in alcuni tra i musei, gallerie, biblioteche ed istituti tra più importanti d’Italia e d’Europa.

 

 

 

 

 

 

 

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Il dolore nella poesia: esperienza numinosa per l’alfabeto della creanza

05 venerdì Feb 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo

‘Escape from reality’ by Julie de Waroquier.

«Chi non ha sofferto non sa niente; non conosce né il male, né il bene, non conosce gli uomini, non conosce se stesso.», in Le avventure di Telemaco

François de Salignac de La Mothe-Fénelon

(Sainte-Mondane, 6 agosto 1651 – Cambrai, 7 gennaio 1715)

*

«Molti sventurati furono fatti poeti dall’ingiustizia patita. Impararono soffrendo quanto insegnano cantando.»

Percy Bysshe Shelley

(Field Place, Sussex, 4 agosto 1792 – mare di Viareggio, 8 luglio 1822),

*

«Io ricevetti il dono della sofferenza e divenni poeta.»

Henrik Ibsen

(Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906)

*

«Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore ad esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere.»

Ernst Jünger, Sul dolore, Foglie e pietre

(Heidelberg, 29 marzo 1895 – Riedlingen, 17 febbraio 1998)

*

«Le sono successe più cose di quante ne accadano a molti. Non ha reagito a tutto ciò con rabbia e neanche con tristezza. Però c’è in lei uno sguardo forte, duro, che sconfina con l’ira. L’oscuro universo di una donna in cui il risentimento per essere stata presa di mira dal destino si mischia con l’orgoglio per essere riuscita a passarci dentro senza annegare.»

Banana Yoshimoto, in Amrita

(Tokio, 24 luglio 1964)

*

Nel cercare un aggettivo da apporre al sostantivo “esperienza” ho ritenuto efficace numinoso, poiché il termine è sia sostantivo sia aggettivo: il lemma tedesco numinos derivato dal latino numen –con il quale si intendeva la presenza del divino e un cenno espressivo del capo – è stato creato nel 1917 dal teologo e storico delle religioni tedesco Rudolf Otto e si riferisce «all’esperienza peculiare, extra-razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed attira: tale esperienza costituirebbe l’elemento essenziale del “sacro” e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità».

Vi è qualcosa nel dolore – sia fisico, sia psichico o nell’associazione di entrambi –, nella percezione di esso, che incute spavento, richiama e concentra l’attenzione, incrina la speranza o l’esalta in un atto di volontà straordinaria a superare il perimetro della sofferenza, ad appropriarsi della guarigione, a creare immagini mentali, inventare abitudini di vita inconsuete, svestendosi delle acquisite per raggiungere lo stato di benessere, ritrovare la salute. Se il dolore del corpo richiede interventi, terapie, riabilitazioni, modifiche di regimi alimentari e comportamentali, i segni del dolore – ciò che esso comunica degli organi –, la diagnosi, sono gli elementi necessari indispensabili per la ricerca della guarigione o di uno stato di equilibrio che affranchi dal dolore: questo è un processo creativo cui sono sottesi sia l’osservazione scientifica, sia il pensiero immaginale, ossia quella scintilla dell’intuizione più alta – l’analogia – che induce a individuare sia la causa, sia la terapia del dolore: questo processo di guarigione avviene nell’appropriazione dell’alfabeto della creanza: ho preferito questa espressione poiché, se il dolore ha in sé gli elementi indicativi per la trasformazione di esso, il termine poetico “creanza” esprime il fluire dell’ingegno e il riguardo che si pone nella cura, più del termine “creatività” che risuona come qualcosa di concluso, recintato, definito.

Il poeta e critico d’arte Gian Ruggero Manzoni, qualche anno fa, scrivendo del dolore, consegnò una frase che nella sua essenzialità individua il senso di quanto cerco di chiarire: «Il dolore fisico ci ricorda che siamo materia, ma quello morale che siamo spirito: energia cosciente, divenuta materia». Dunque, l’Autore vuole significare l’esistenza di una sola energia – energia cosciente – che informa la complessità del vivente e si manifesta sotto la forma che attiene all’organismo interessato: il soma la manifesta come materia fisica attaccabile dalla malattia e dal tempo, la psiche come materia di pensiero che a sua volta  può incontrare, conoscere gli abissi della sofferenza.

Il poeta Evaristo Seghetta pubblicò un interessante libro dal titolo Morfologia del dolore: impiega due termini che sono della lingua comune e, al contempo, uno di essi, della lingua specialistica: “morfologia” è la parola coniata nel 1785 da J. W. Goethe per indicare l’anatomia comparata: ora noi l’usiamo tanto in biologia, quanto in geografia fisica, quanto in linguistica. Non è un caso dunque che sia l’uomo di scienza, sia il poeta, possano impiegare la stessa parola con medesima significazione, pur in ambiti diversissimi: ciò suggerisce l’idea che esista un aspetto essenziale, un elemento primo, una sorta di frattale che accomuna tutte le discipline, le pone in dialogo e dal momento che l’uomo intuisce, analizza e accoglie questa intrinseca natura può dare avvio alla creazione di una realtà che modifica o supera la precedente.

Il dolore quindi mostra questo volto grandioso che guarda sia alla dimensione “sensoriale”, sia alla dimensione “spirituale” e come un ponte congiunge le due rive che sostengono lo scorrere della vita, la struttura umana: il soma e la psiche, e in virtù delle loro funzioni possiamo dire con Claudio Widmann che «Al di là del sensoriale s’estende l’immaginale».

Chi attraversa i territori oscuri, carichi di presagi indecifrabili, sconfortati, sconfortanti del dolore, non di rado parla di tempo straziato in termini di impotenza o di sfida contro un inaccessibile nemico, o sente di essere immerso entro un sovramondo di cui non conosce l’accesso, né l’uscita, sentendo il mondo reale senza possibilità, distante, dissolto da ogni certezza conosciuta, da ogni riferimento e paradigma di sicurezza, perduto l’orientamento abituale e tutto da costruire intorno al nucleo dirompente del dolore. Il poeta e l’artista conoscono bene questa atmosfera, poiché vivono come se la sensibilità neuronale fosse al grado esponenziale e la struttura sentimento – ragione  programmata per raccogliere il discorso analogico che il dolore fisico o psichico o entrambi, tenta di inviare alla comprensione, alla creanza, come se essa fosse la sola e sovrana natura capace di trasferire in parole o immagini i contenuti del dolore. L’arte in genere, la poesia in particolare, poiché si fonda sulla oralità e sulla grafia – le espressioni prime e immediate degli umani – sono i campi prediletti in cui il dolore può emergere in tutta la sua forza comunicativa, poiché trova colui che di esso può dare testimonianza.

Anna Rice non è una poetessa, è una scrittrice statunitense, ma da lei giunge una riflessione chiarificatrice sulla potenza del dolore: «Si tratta di una verità spaventosa: il dolore può renderci più profondi, può conferire un maggiore splendore ai nostri colori e una risonanza più ricca alle nostre parole. Questo avviene se non ci distrugge, se non annienta l’ottimismo e lo spirito, la capacità di avere visioni e il rispetto per le cose semplici e indispensabili.»; «una risonanza più ricca alle nostre parole»: questo è sia il modo in cui il poeta tenta di consegnarci la connotazione tragica del mondo, sia il risultato della creanza che trova la materia indispensabile nelle zone in ombra della psiche, laddove s’accumulano le scorie delle esperienze, ossia i resti dolorosi, ambigui, irrisolti, nodi drammatici o angosciosi della vita che nega sottrae o non riconsegna il dovuto, l’atteso, il bene che ci spetta.

Giuseppe Ungaretti, nella sezione poetica L’Allegria che accoglie i testi scritti in Carso durante la prima guerra mondiale,  include  una poesia che ha titolo Il porto sepolto: in certo modo è la sua dichiarazione di poetica, e indica il luogo in cui  giunge il poeta e risale alla luce «con i suoi canti/ e li disperde». Ora, la metafora bellissima consta di un porto che però è sepolto: il poeta vuole significare un luogo fluido che tuttavia è seppellito e dunque contiene reperti, scheletri d’imbarcazioni e umani, tesori andati perduti in naufragi: è dunque il luogo dove consiste il dolore scaturito dal dramma del naufragio, dove la memoria dell’acqua conserva le vestigia dell’accaduto, gli oggetti che facevano parte della vita delle vittime dell’acqua, le merci del viaggio per mare: Ungaretti, con quell’immagine ci indica che è nelle profondità oscure fluide e tempestose che conservano e forse sono mentori del dolore che nascono i canti con cui risalire alla luce per disperderli, perché il canto della poesia, il suo sapere alchemico, deve diffondersi, andare lontano quasi dimentico di chi  gli ha dato creanza, esistenza. La sezione che accoglie le poesie scritte tra il 1937 e il 1946 ha titolo esplicito Il dolore: nella poesia Tutto ho perduto i versi:

Disperazione che incessante aumenta

La vita non mi è più,

Arrestata in fondo alla gola,

Che una roccia di gridi

non hanno bisogno di commento, poiché il lemma disperazione ingloba e restituisce tutto il significante di un tempo in cui il dolore dello spirito, il dolore morale è parossistico.

Amelia Rosselli, poetessa tra le più alte del nostro Novecento, trasferisce in poesia la «scia di disperazione nata all’indomani dell’uccisione del padre Carlo e dello zio Nello nel 1937, in Francia, non lontano da Parigi, per ordine di Ciano e Mussolini.», «…un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. (  ) un tormento interiore che cerca di trasmettere all’esterno per averne un minimo di considerazione. Essa negò sempre di essere ammalata fisicamente (aveva, fra i molti acciacchi, il morbo di Parkinson) e rifiutò cure. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. È una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza.» (Dario Lodi).

La poesia di Amelia Rosselli si presenta come un «corpo poetico distopico, fatto di ridondanze, di lapsus», di parole «legate ad una pratica trilingue che non trova un baricentro.» (Rita Corsa) e specchiano perfettamente il «male irrimediabile» di cui è pervasa, di cui è consapevole e lucida attrice e spettatrice. In Variazioni belliche (1960-1961, p.317) scrive:  «…/ Io pernottavo nel vuoto della mia/ribelle anima» e in La libellula da Serie ospedaliera, 1958:

E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò

stancata e ebete in un largo pozzo di paura,

mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti,

mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò

per quell’intera durata e quel giorno intero.

Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere,

stanca all’alba, incapace a sera: e l’agonia

sempre più viva.

prima di compiere il gesto ultimo nel 1996, quando la speranza spiumata «…/ faticosa a mettersi insieme/ non ne vuol più sapere.»

Concludo citando un piccolo libro alla cui composizione partecipai nel 2013 in seguito al rinvenimento tutto casuale a opera del regista veneziano Daniele Frison mentre effettuava riprese sullo stato di degrado in cui  versavano i padiglioni dell’ex Ospedale al Mare del Lido di Venezia di un quaderno contenente poesie manoscritte da pazienti psichiatriche. Il quaderno divenne il libriccino dal titolo L’isola senza età, ispirato dai versi anonimi:

In fondo, più in fondo l’isola senza età m’appare

sembra l’irreale isola che da tempo respiro nei miei desideri

so che sarei felice

fra le lievi ombre che s’alzano nella fonda notte

so che non avrei più età e più bisogno di farmi credere…

Curato da Antonella Barina e Daniele Frison con la collaborazione di alcune poetesse è un bene prezioso, poiché testimonianza della grande voce del dolore che sale dalle stagioni dimenticate a farsi parola, ritrovamento, restituzione. I testi che risalgono agli anni ottanta sono semplici, attraversati da errori grammaticali e ortografici, ma esprimono qualcosa di potente: il numen che presiede alla vita, la forza sacra e dirompente che rende ciascuno creatore della propria identità anche nello stato di esilio, un mondo interiore colmo di paesaggio che affiora mediante la parola, che non è solo manifestazione dolente della propria vicenda umana, ma significazione che tra il dolore e la persona che lo sperimenta esiste un nucleo creativo che urla per venire alla luce.

 

Adriana Gloria Marigo

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Edoardo Gallo: “La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi” Liberodiscrivere, 2020. Cinque poesie e una intervista

15 venerdì Gen 2021

Posted by adrianagloriamarigo in Interviste, MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Edoardo Gallo, La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi

Edoardo Gallo: “La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi”

Liberodiscrivere, 2020

Prefazione di Sotirios Papadopoulos e di Giuliana Balzano

Postfazione di Sara Zanferrari

 

 

Dalla prefazione di Sotirios Papadopoulos

«Edoardo Gallo con la sua nuova silloge intitolata La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi ci fa fare un tuffo nel sacro concetto di Alitheia (Verità); un viaggio nello sforzo di essere sempre noi stessi ma attraverso la paura del giudizio sociale. Siamo consci che il cervello umano è in grado di svolgere infinite e complesse operazioni in tempi ridotti. Ma esiste soltanto una di queste che non può essere eseguita ed è proprio questa che compromette i rapporti tra tutti gli esseri su questo pianeta. Distinguere il Vero dal Falso, la Verità dalla Menzogna, la Alitheia dal Pseudos. Edoardo ci porta attraverso le sue melodie visive a capire che la Verità non può coesistere con la Menzogna senza essere contaminata, deformata, svilita e annientata. Ma non è forse che la Verità è la concordanza tra Giudizio e Realtà? E che cosa è Reale se non la manifestazione dell’Essere? I poemi di Gallo, come specchio vivente della nostra Anima, dietro a una trama semplice, nascondono uno spirito agonistico pieno di voglia di Bellezza interna e di coraggio guerriero nel mezzo di una società alla deriva, in cima a naufragi di valori e di detriti di anime vendute al Consumismo Materiale.»

 

Dalla prefazione di Giuliana Balzano

«L’ispirazione poetica di Edoardo Gallo nasce da un intenso stato emotivo derivato dalla puntuale osservazione di ciò che lo circonda. Il poeta fa un’attenta analisi interiore dei propri sentimenti dando vita a liriche dinamiche e nel contempo dolcissime. Nelle sue poesie si “leggono” chiaramente due elementi: la forza interiore che caratterizza il suo pensiero; il bisogno costante di cogliere quelle verità difficili da negare. Il suo stato d’animo va a distendersi sui versi e la poesia diventa un mezzo indispensabile per lui, per poter camminare nei meandri più bui dell’esistenza umana. Gallo sente il bisogno di amare, cerca la pace nella magia del silenzio, ambisce a trovare la verità. Amore, silenzio e verità diventano un modo per lui di affrontare la frenesia di questo nostro tempo sofferto e avverso. Gallo crede nella forza delle parole, ha fiducia nelle parole, gioca con le parole creando liriche riflessive, cariche di schiettezza.»

 

A portata di mano

 

Il mio mondo

lo tengo a portata di mano

tutto dentro a una tasca.

Chiavi per aprire porte

Un fazzoletto per le lacrime

Una conchiglia per aver con me le onde

Alcune monete per un gelato

E quella poesia che scriverò domani

 

 

 

Da qualche parte

 

Alla fine vince chi non ha paura del buio.

Alla fine.

Là al bivio tra la strada che sale e quella che scende.

Da qualche parte starà pur la fine.

Del lasciarti andare,

dell’un po’ morire.

Dell’unica volta che abbiamo saputo cos’è l’amore

 

 

 

Il nido del desiderio

 

Vivo nel desiderio di tutto quel che ho già scritto.

Non c’è nuovo che mi appassioni più

di quelle labbra che furono il mio sorriso.

Ancor oggi ripensando al ramo

ci porterei la paglia per costruire il nido

per tutte le volte che torno e non ti trovo

 

 

 

Infinito e confine

 

Infinito e confine

i tuoi occhi,

acqua e fuoco

la tua bocca;

tra l’infinito e la bocca

i tuoi occhi.

E sono con te oltre quel confine,

oltre le terre conosciute,

al di là di tutti i mari,

sopra le stelle

con te

 

 

 

Soldati

 

Come i milioni di soldati abbattuti un secolo fa

Siamo stati sterminati.

La montagna è diventata ancora la nostra tomba

la nostra anima è stata sradicata e siamo caduti a terra.

Tutto esattamente come cento anni fa.

Qualcuno potrebbe pensare che noi non abbiamo sofferto.

Noi custodi di queste cime,

Noi soldati di queste vette.

Abeti, Larici, Faggi, Frassini, Tigli

siamo nuovamente morti.

Non il nostro spirito che vivrà per sempre

Tra i sassi che abbiamo vegliato

i sentieri che abbiamo adombrato

i ricordi che abbiamo protetto.

E in tutti voi che ci avete amato

 

29 ottobre 2018 tempesta Vaia: dedicata agli alberi dell’altopiano di Asiago

 

 

 

Intervista

 

  1. Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

Risale ai tempi del liceo con lo studio dei classici della letteratura, ma questo innamoramento ha avuto la sua folgorazione dopo aver visto il film l’Attimo Fuggente; film che ho riassaporato recentemente assieme ai miei figli. Ricordo che io adolescente lo approfondii in modo viscerale andando a cercare e poi leggere o rileggere tutti gli autori citati: da Whitman a Thoreau, da Byron a Frost, fino ad Orazio per citarne alcuni.

 

  1. Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

Faccio veramente fatica a dare solo alcuni nomi. Leggo molta poesia e cerco di spaziare quanto più possibile per “succhiare” il nettare delle parole di questi immensi poeti. Decisamente sono molto legato a Leopardi e Whitman. Mi piacciono Montale, Caproni, Gozzano, Pavese fino a Zanzotto, molto le poesie di Szymborska, di Dickinson, di Cvetaeva. Mi affascinano Pozzi e Plath. Amo viaggiare con Prevert ed Hesse, innamorarmi con Lorca e Neruda. Ho un debole per l’intrigante e diretto Bukowski, per i più meditativi e spirituali Hikmet, Gibran, per la filosofia di Pessoa e Rilke. Direttamente o indirettamente cerco di farmi coinvolgere da tutti, credo comunque di avere un mio stile che mi dicono sia riconoscibile e distintivo.

 

  1. Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

 Tutto nasce dal mio innato istinto di osservare. Vedo, guardo, ascolto, sento e porto a scrittura ogni emozione. Ogni sentire. Per me infatti «la poesia è un ponte che unisce ogni intimo sentire». Un ponte che collega il fuori al dentro di noi per poi ritornare fuori, in un moto quasi perpetuo e sconvolgente. Tutto ciò che scrivo fa parte di un vissuto, a volte intimo, a volte spaziale; a volte è inconscio che vive nel sogno e che poi diventa attimo vissuto. Non potrei mai scrivere qualcosa per la quale non ho provato nulla. Ho bisogno di respirare e tramutare in parola ogni emozione, qualcosa che mi ha colpito, che mi ha ferito o fatto gioire o solo ho vissuto per un istante. In alcune poesie ci sono i posti a me cari, spesso i colli Berici dove ho una casa e dove ho vissuto da bambino. I ricordi d’infanzia dati da un albero, l’erba appena tagliata, la raccolta dell’uva, la neve, un pettirosso. Da mio padre che siede sotto al portico e guarda la vallata al di là del muro. Insomma ogni cosa che osservo e che ricordo può essere motivo per fare e dire poesia.

 

  1. Ci parli della tua pubblicazione?

Dopo aver pubblicato le prime due sillogi a me molto care Giorno Zero e È Solo Poesia nel marzo scorso ho deciso di mandare in stampa la terza raccolta che ho voluto intitolare La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi e che ha visto la sua prima presentazione solo nel giugno 2020. Ho vissuto un periodo dove la verità era diventata profondamente urgente e necessaria. Ma non tanto la verità in sé ma l’ “essere vero”. Legata quindi alla sincerità e alla lealtà come forme di gentilezza, di passione, di credibilità. Ero stanco di vedere il continuo depauperamento dei valori veri a vantaggio di forme egocentriche, narcisiste e arroganti, veloci da raggiungere, effimere e superficiali. La poesia è per me sinonimo di verità, perché canta il vero, e lo descrive raccontato dentro le sue fatiche, le sue malinconie tuttavia restando verità di speranza, con slanci di illusione e di utopia per compiere ogni giorno un passo avanti.

 

  1. Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Non lo so se sia utile, e tantomeno necessaria. Lo è per me, sicuramente. La poesia è per me un’urgenza necessaria; in tal senso credo possa essere utile anche a qualcun altro. Quello che mi dicono i lettori, e lo riporto fedelmente, è che nel leggermi trovano serenità e, in alcuni concetti espressi con metafore e paradossi, leggono una filosofia buona a sostegno del possibile, impavida nella sua completa fragilità. Come ha scritto in una prefazione il prof. Sotirios Papadopoulos, «Edoardo Gallo con la sua nuova silloge ci fa fare un tuffo nel sacro concetto di Alitheia (Verità); questa dolce e amara sensazione rende la sua opera Fragile come l’acciaio e Robusta come le ali di libellula».

 

  1. Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

Non c’è un preciso momento. È nata con il vivere quotidiano, giorno dopo giorno. Segue il corso delle mie giornate e degli eventi.

  1. Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi, oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

Quasi ogni componimento lo scrivo di getto e solo in alcuni casi, o nelle poesie più lunghe, metto mano ad alcuni versi anche a distanza di tempo. In altri non trovo subito la parola giusta, e così torno sopra la poesia per sentire se riflette appieno l’emozione che ho provato e che voglio trasmettere. A volte per lavoro sono in viaggio e lì l’ispirazione può giungere improvvisa, anche se è la notte il tempo migliore per il mio scrivere. Quello che è certo è che scrivo perché ne ho bisogno e quando lo sento forte mi fermo ovunque io sia e scrivo. Mi distoglie dalla vita stressante che il lavoro mi obbliga a fare seppur con piacere, e mi catapulta in un mondo parallelo dal quale torno rigenerato e rinnovato.

  1. La copertina e il titolo. Chi, come, quando e perché?

Ho l’abitudine, suggerita dal mio editore Antonello Cassan di Liberodiscrivere, di scegliere per le copertine un’opera pittorica. Dopo aver collaborato con Andrea Marchesini, ho sentito la forte necessità di chiedere a Bruna Lanza una sua opera. Il colore segue il filo conduttore del contenuto del libro. In questo caso è stata scelta un’opera che emotivamente mi ha molto colpito, di prevalente colore arancio perché questo colore, caldo e attraente, per me simboleggia la poesia e quindi la verità. Il titolo del libro è preso dal titolo di una poesia in esso contenuta che declina in tutti i modi possibili la verità. La migliore sua descrizione risiede nel verso La verità è un bambino dagli occhi grandi.

  1. Come hai trovato un editore?

È una storia che serbo gelosamente ed è quasi romantica. Nel giugno 2016 ero a Genova per lavoro e da poco avevo tra gli amici di facebook la poetessa e filosofa Grazia Apisa che lì vive. Le ho scritto un messaggio chiedendole di poterla incontrare e, non senza mio stupore, lei ha accettato. Abbiamo trascorso diverse ore parlando di poesia, leggendone, bevendo un tè. È stato uno dei momenti più preziosi e intensi della mia vita. È stata lei a suggerirmi, durante quell’incontro, la mia attuale casa editrice Liberodiscrivere.

 

  1. A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?

Credo che possa essere molto interessante per tutte le persone che si pongono domande, pertanto non solo agli amanti della poesia ma a un pubblico di lettori più vasto. Avviso che non so se nel leggerle troveranno le risposte che cercano, ma forse sarà più probabile che si porranno ulteriori domande. Credo inoltre che questa pubblicazione possa comprendere un’ampia fascia di età, anzi lo spero. Ho avuto il piacere di portare le mie poesie anche in alcune scuole primarie e secondarie; sono stati momenti di grande stupore, vedere come menti così giovani riuscissero a captare e andare oltre il significato stesso della poesia. Ricorderò per sempre la risposta di una bambina di nove anni alla mia domanda “cos’è per voi la poesia”, rispose: «Per me la poesia è follia». Cosa potevo sentirmi dire più di questo?

 

  1. In che modo stai promuovendo il tuo libro?

Per lavoro mi occupo di vendite e indirettamente di marketing. Sono pertanto abituato ad utilizzare le diverse forme di comunicazione. I canali distributivi sono i più disparati: direttamente dalla mia casa editrice, attraverso Amazon o IBS libri, oppure si possono prenotare in quasi tutte le librerie anche se in questo caso, purtroppo, la consegna è sempre piuttosto lenta. Mi piace promuovere personalmente la distribuzione; spedisco le copie direttamente a casa dei lettori, naturalmente con dedica, oppure li distribuisco durante gli incontri di presentazione. Quest’anno inoltre alcune aziende hanno trovato interessante omaggiarlo ai loro clienti come regalo di Natale. Utilizzo poi i social più significativi: ho un mio blog edoardogallopoesia su facebook che sta ricevendo una buona attenzione e, con lo stesso nickname, sono presente anche su youtube, dove presento il progetto PoeMusìa in collaborazione con il compositore e pianista Giuseppe Laudanna.

 

  1. Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)

 

« Pensare di aver perso una cosa.

Ritrovarla

ed essere felice.

Piccoli attimi

nei quali riconosci

il senso della vita.

Perché la vita

è nelle cose

ritrovate.

Anche quando

sono perdute »

 

Una delle poesie che preferisco perché mi dà un senso di pace e di accettazione.

 

  1. Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

Spero riuscirà ad avvicinare un maggior numero di lettori alla poesia. La poesia infatti è per me curativa, una medicina buona e chi la legge non può altro che trarre giovamento. La poesia è sempre stata un po’ troppo tenuta in disparte rispetto le altre forme di scrittura, non so se per rispetto o più per paura. Essa, anzi Ella, è fondamentale, illumina la vita come un lampo. È distillato, un’estrema sintesi di qualcosa di molto più grande. In poche parole riesce a contenere un mondo di emozioni e di significati. Non si possono infatti leggere decine di poesie tutte d’un fiato. Un libro va letto adagio, facendo sedimentare le parole, rileggendole se possibile così da scoprire i molti e diversi “messaggi” contenuti. A volte la poesia è un codice segreto e come tale ci vuole la giusta pazienza per decodificarlo e apprezzarlo totalmente.

 

  1. Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Cosa contiene il QR Code stampato in quarta di copertina?

 

  1. Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Sto continuando a scrivere ma è ancora presto per pensare al prossimo libro. Vorrei solo riuscire a tornare a presentarlo pubblicamente, vedere tutto il viso delle persone, guardare dentro i loro occhi, respirare la loro stessa aria. Potere stringere nuovamente le mani e abbracciare, forte, a lungo restando ad ascoltare il prezioso silenzio che si scatena in quel momento.

Edoardo Gallo

 

Biobibliografia

Edoardo Gallo è poeta vicentino. Ha pubblicato tre libri in forma collettiva esprimendo poi la sua cifra poetica originale e polimorfa nelle tre raccolte personali Giorno Zero, È Solo Poesia , La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi.

Ha partecipato a Poetry Vicenza, FlussiDiVersi di Caorle, Parole Spalancate Festival Internazionale di Genova e al BeArt Festival dell’Arte di Vicenza. Con la poesia Io sono mio padre è vincitore assoluto del Premio Letterario Nazionale “Giorgio Gaiero”. Nel 2020, quale rappresentante della poesia italiana, è invitato a partecipare alla mostra virtuale “Mediterranean Anatomy” patrocinata dall’Ambasciata Italiana in Grecia. Le poesie A chi importa e Il nido del desiderio sono diventate canzoni d’autore.                L’inedito Soldati viene utilizzato quale voce poetica del video realizzato da Adifly in collaborazione con l’associazione culturale Liberi Pensatori, in ricordo degli alberi abbattuti dalla tempesta Vaia. Il progetto viene patrocinato dall’Assessorato alla Cultura e Turismo della Regione del Veneto. A luglio 2020 è finalista alla XIV edizione del Premio Letterario “Città di Livorno” con la poesia Le cose difficili. Prestigiose sono le collaborazioni con numerosi artisti e musicisti, tra i quali il pianista e compositore Giuseppe Laudanna con il quale crea il progetto artistico PoeMusìa.

 

 

 

 

 

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“Traduzionetradizione” Quaderni internazionali di traduzione poetica e letteraria diretti da Claudia Azzola Quaderno n. 16 – settembre 2019

11 venerdì Dic 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Claudia Azzola

In copertina: “Morsa”, 1995, scultura in marmo rosa Portogallo di Elena Mutinelli – collezione privata

La rivista plurilingue Traduzionetradizione di cui Claudia Azzola è fondatrice e direttrice è il frutto di una precisa attenta cura verso la specificità della traduzione, le problematiche che insorgono nel trasferire la parola originaria in altra lingua, la questione della vitalità della resa del testo tradotto, poiché l’opera del traduttore comporta una serie di competenze e finezze sia linguistiche, sia lessicali, sia culturali, nonché inventive o immaginali, avendo chiaro che tradurre non significa sovrapporre, aderire, combaciare perfettamente le parole, i versi: la sovrapposizione esatta non è data per ragioni che nulla hanno a che fare con le scelte del traduttore, ma ineriscono alla questione della lingua, alla sua complessità che discende dalla complessità psichica poiché vive in stretto rapporto con gli individui che la parlano e assume in sé le variabili storico-geografiche, antropologiche, individuali; pertanto l’opera del traduttore si situa su tutti questi piani che, infine, riguardano la “significazione” del testo originario e, crucialmente, la psiche dell’autore nella sua dinamica immaginale, poetica. La direttrice Claudia Azzola, nella scelta dei testi da accogliere in Traduzionetradizione, si pone su questa linea di chiarezza, tenendo conto del rispetto del testo iniziale laddove è possibile e accettando l’invenzione del traduttore quando il testo originario presenta l’intraducibilità dovuta a espressioni che hanno ragione d’essere solo nella lingua in cui sono nate. Ed è qui, in questa forca caudina, che il traduttore si mostra decifratore del cosmo logico-immaginifico dell’autore,creatore, fiamma d’invenzione poetica, pur non raggiungendo mai la fossa delle Marianne del poeta, il segreto della parola nel suo fenomeno universale e personale.

 

Adriana Gloria Marigo

 

La rivista Traduzionetradizione si presenta in una veste sobria e raffinata: la copertina riporta sempre un’opera d’arte attenta a esprimere le «potenzialità dell’uomo»; i testi sono scelti tra le pubblicazioni contemporanee e attuali e tra gli autori che dimorano tra i classici. È diffusa e si consulta presso enti e librerie a Milano, Biblioteca Centrale Sormani; Libreria Popolare di via Tadino; Biblioteca Vigentina; Spazio–Studio Emilio Tadini; presso istituti universitari, a Trieste, Istituto Universitario per Traduttori e Interpreti; a Pavia, Centro per gli Studi sulla Traduzione Manoscritta di Autori Moderni e Contemporanei dell’Università; a Roma, Centro Nazionale dei Libri; a Pistoia, Centro Documentazione Periodici; a Londra, Royal Festival Hall, Poetry Library; National Poetry Society; London Library di St. James’s Square; Archives Modern Poetry in Traslation; Temple Lodge Club, Hammersmith; ed è presente a Festivals in Regno Unito; a Parigi, libreria La Tour de Babel; a Monaco di Baviera, Lyrik Kabinett ; iscritta all’Observatoire Européen du Plurilinguisme; iscritta al Pen Club Internazionale.

 

Nel numero 16 Traduzionetradizione presenta:

 

Paolo Febbraro, poeta e saggista

Adam Elgar, traduttore in inglese

Mariano Bargellini, scrittore

Sylvie Durbec, poetessa francese, in questo numero, traduttrice

Steven Grieco Rathgeb, poeta americano–svizzero–italiano, scrive in inglese e in italiano

Chiara Catapano, poeta e traduttrice dal neogreco

Nanni Cagnone, poeta e saggista

Stephen Sartarelli, traduttore in inglese

Mara Cantoni, cantautrice, drammaturga e regista

Ugo Foscolo, in versione inglese di Adam Elgar

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Recensione di Silvio Aman su “Astro immemore” di Adriana Gloria Marigo, Prometheus Editrice, 2020

04 venerdì Dic 2020

Posted by Deborah Mega in Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Astro immemore, Silvio Aman

 

Adriana Gloria Marigo: Astro immemore

Prometheus Editrice, 2020

Postfazione di Andrea Matucci: Un luminoso “sentimento dello spazio”

 

Con Astro immemore, Adriana Gloria Marigo ci offre una collana di quarantacinque brevi poesie in versi liberi rivolta al lago Maggiore coi suoi promontori, ma se il titolo ci allontana già da ogni ipotesi descrittiva, nei testi le elevate ricorrenze di aria, luce, azzurri e verdi lo richiamano piuttosto in raffinate tarsie o – come scrive Andrea Matucci – “per fuggevoli indicazioni” spesso tutt’altro che aderenti al versante visivo, semmai in un intreccio di empatia e stilizzazione:

 

Afflizioni pluvie saggiano

i cardini della roccia

l’irridente fragore del mare

che a me sodale frantuma

la chincaglieria del lago

 

finisterre occluso al largo.

 

È pur vero che il lago, o piuttosto la sua cornice, sottende l’intera raccolta, ma non senza effetti di estraneità, sia a causa dell’astro dimentico il suo benigno influsso – e tanto importante da titolare il libro – sia per la sua riduzione a “chincaglieria” rispetto al mare. Esso permette alla poetessa di eseguire difficili mosse da funambolo tramite voci inconsuete, rare, letterarie o derivate da altre lingue (come “funambolia” “viridarium” “spendimento” “implaga” “celestia” “aspèrgine” “venetico”…) cui si aggiunge l’uso spesso inarticolato delle preposizioni (“di rosa canina” – “d’ànemos” – “di vela rossa” – “d’aria” – “d’arte”) la tendenza a ridurre l’impiego degli articoli, e la sostantivazione di certi avverbi e aggettivi (“da smisurato lontano” “di vago fragrante”) ottenendo sempre nuove tessiture di un testo aperto, perciò di non facile decodificazione…

 

Intemperante giunge un vento

sonoro a lanciarsi ostinato

dalle dorsali prealpine,

suadere a dismisura

la funambolìa del mattino,

l’aspèrgine azzurra

lungo l’ordinata del giorno.

 

Nella formazione della propria lingua poetica, ci accorgiamo che Adriana Gloria Marigo ha reso straniere le presenze cui attribuisce “funambolìa” al mattino, “aspèrgine” all’azzurro, “implaga” al blu di Prussia “lunari” agli agresti, “spergiuro” al sole, “scaltra” all’ombra, “ordinata” al giorno, nel senso di unirle a presenze insospettate e a volte molto lontane come è il caso di il “re del Ponto”:

 

La digressione di tutto il turchino

sperpera la penitenza del cielo

qui avviene lo spergiuro del sole

la prova costante del re del Ponto,

stinge persino l’ombra scaltra del bianco.

 

La prima poesia, arco d’ingresso alla raccolta, si rivolge enigmaticamente a uno strappo esistenziale cui necessita l’arte del rammendo, come indica il duplice senso di fortuna…

 

È cucita addosso una veste

di timbriche fortune alterne

nella luce il momento esalta

e schianta nel giro che smaglia

e torna d’arte al rammendo.

 

mentre fra ciò che esalta e smaglia, le successive vi accennano sia per il tono sia per il fatto che l’impulso affettivo e i richiami al mondo esterno permangono in uno stato di implicito straniamento, sicché qui non si può certo dire, con Meister Eckart, “l’amore è di tal natura che trasforma l’uomo nella cosa amata”. Decisiva, al riguardo, è la quasi totale assenza dell’io “che vede, pensa, parla” (Andrea Matucci) e il predominio delle frasi constative, come in “febbraio ha corte nel gelo” “perdura il seccume” “si tagliano i rami opprimenti” e via così, lasciando insomma prevalere l’oggettività su cui si modellano le ardue espressioni dell’intera raccolta…

 

Stenta primavera pochi fiori

perdura il seccume

al turbine preciso d’avarìe

sotto lo sperdimento azzurro

ora che il levarsi mergozzino

convoca acuti d’ombra,

l’esecrabile nullora.

 

Ho accennato alle tarsie, perché la poesia di Adriana Gloria Marigo, estranea all’estensione narrativa “che è sempre stato l’orrore della poesia pura” (Andrea Matucci) anzi tendenzialmente ermetica, e perciò senza sviluppo, forma i suoi riquadri con frasi paratattiche, riducendo al minimo snodi, congiunzioni e punteggiatura. Ne abbiamo un esempio indiretto con “si tagliano rami opprimenti” per lasciare “respiro di spazio” e “Il canto glorioso dei merli/ svuota l’aria d’altra voce” nel senso di scindere o distanziare gli sguardi, talvolta improvvisi (“abbaglio bianco di rosa canina” “La salita che scosta le case/ s’apre nel punto preciso/ dove slarga lo sguardo/ di celestia fitto”)…

 

Si tagliano rami opprimenti

si lascia respiro di spazio

all’albero in canto rinascente.

In terra l’avventura dei bulbi,

della forsythia in acuto giallo

intrama fortuna di viridarium.

 

Oppure, in Lucreziana, unica poesia titolata:

 

Nella stagione che priva l’ornato

più chiare possiamo vedere

in margine al bosco

[…]

solitarie betulle odoranti

il rigore territoriale dell’aria.

 

“Fortuna di viridarium” (il “verde” ha anche lui molte ricorrenze) rafforza – adversus Thomas Stearns Eliot, nel suo “aprile è il più crudele dei mesi”– gli enunciati della precedente Primavera, stagione, qui portatrice di nostalgia:

 

Primavera, stagione

più di altra leale

celebri la nostalgia

ogni casa che ho abitato

et brevitas d’amore tornato.

 

Leale (quindi opposto all’astro) se celebra appunto la nostalgia delle case abitate e l’amore. E di nuovo:

 

Creanza d’aprile

riparata sui racemi dei lillà

effondi pulviscoli odorosi

lacerti di ere turbinanti…

 

lasciando percepire la preferenza per le stagioni dalla natura rinascente e calorosa con i loro profumi. Nella poesia dedicata a Vittorio Sereni, leggiamo: «Di vago fragrante si diffonde/ l’osmanto tra il duro verde// d’amaritudine pungendo/ aereo il destino d’ottobre» e di nuovo, con le echeggianti sonorità di aria : scarna (contrapposto all’estiva, pesante e piena) zoomorfo : frusto…

 

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

Assieme alla primavera, all’aria e al celeste (dieci ricorrenze, con le sue variazioni cromatiche) in queste poesie domina la luce fin dalla prima: «nella luce il momento esalta» – «pura chiarità di salmo arioso» (sedici ricorrenze allargate a “chiaro” “luminanza” “splende” “oro”… “vennero corsiere di luminanza” – “tutto il foliage mi splende addosso” – “ora di fitto oro in festa” – “Flette il silenzio la misura dell’oro” […] L’orazione del fuoco in crepitio/risolve la brama ottusa/ gemma l’estrosa ora fausta”)…

 

Tutto coincide nella luce

occidua di ottobre fiammato

di nuovo al turbinante capriccio

sua specifica natura garante

la fratellanza dei mesi,

onore a loro sostanza

secondo agnizione

fine di circostanza.

 

I due versi finali lasciano supporre, che se l’elemento contingente richiede un’analisi, l’agnizione porta con sé – al contrario – un improvviso riconoscimento o la sorpresa, come abbiamo già visto per “l’abbaglio bianco di rosa canina” il cui verso è opportunamente staccato dai precedenti. Che qui non si tratti quasi mai di oscurità (“notte” o “notturno” e “sera” sono, mi pare, presenti solo due volte) bensì di luce, aria e vento, quest’ultimo con sette occorrenze, compreso Favonio… “vele nella squillante ora del vento” lo indica la poesia

 

Istruisce il chiaro

la scurità petrosa,

dispone la terra alla vela

risolta al viaggio per acqua –

tornata oggi la minuzia ventosa

da smisurato lontano.

L’ora misteriosa di gennaio

scollina lucentezza di stelle –

vezzo del primo Favonio

che arrischia in cielo e in terra

la virida voce errante,

pazzia delle rame gemmifere.

 

Perché anche dove compare, l’ombra è seguita dalla luce:

 

Sbriglia Mergozzo giù dalle cime

lusinga di ombre plananti

sulle morene dove la città

affonda sereni suoi romitaggi

d’incorollata luce aspersi.

 

Riguardo all’autunno con la sua profumazione, in “Di vago fragrante si diffonde” abbiamo:

 

Depreco ottobre

il darsi occiduo

appena la luce si fa bella

specchia vigori vegetali

la vocazione alle nostalgie

più remote dei tuoi passi.

 

ma anche:

 

Ora l’equinozio di autunno

colmerà di vaghezza incendiata

ogni foglia dell’albero amante

l’ispirata vaganza dell’aria

l’offerta corona della sera

caduto il regno dell’astro assoluto

nell’idioma stordito dei fiori.

 

D’altra parte, se oro e rosso (assieme a “ruggine”) hanno occorrenze ridotte in confronto a luce, foglie, rami e fiori legati ai mesi in ascesa, l’autunno è l’unica stagione in cui il declino sa incendiare le foglie dell’“albero amante” (cioè dei propri organi vitali) l’“ispirata vaganza dell’aria” e “l’offerta corona della sera” anche se gli ultimi due versi – distanziati per l’irrompere di un pensiero critico – introducono l’idea della caduta (l’astro declina) e la lingua stordita dei fiori dovuti al passaggio dalla piena solarità a quella riflessa dalle foglie d’oro.

Benché Adriana Gloria Marigo sia donna di mare, ha insomma saputo riconoscere i doni del lago, rendergli omaggio, offrirgli le corone delle sue complesse composizioni e farlo a sua volta esprimere. Un omaggio ha desiderato anche rendere al pittore Franco Rognoni con la figura in copertina: La donna del lago, gentilmente concessa da Stelio Carnevali.

 

Silvio Aman

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Giorgio Bolla: “Among Water, Angels and Wind”, Gradiva Publications, 2020. Quattro poesie e un commento breve.

20 venerdì Nov 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Giorgio Bolla

 

Giorgio Bolla: “Among Water, Angels and Wind”

Gradiva Publications, 2020

Prefazione di Plinio Perilli

Traduzione di  Carolina Migli Bateson

Quattro poesie e un commento breve

 

Le quattro sezioni della raccolta che include Storie di acqua, di angeli e di vento – prima parte che ha avuto precedente nascita per i tipi de La Vita Felice, 2013 – accolgono le voci dell’esistere secondo il doppio canone del sentire  e del sentimento; costruiscono un cosmo pervaso dal tessuto finissimo degli affetti in cui s’inverano, ineludibili, il tempo e le sue trame ora inebrianti, ora tremende cui si è chiamati a rispondere con tutta la partecipazione del sentimento, del pensiero: meridiani inevitabili che Giorgio Bolla percorre con l’intima osservazione di sé in relazione all’altro che vive nella vibrazione del “tu” e della domanda inquieta intorno a ciò che esiste e mostra l’impressum della solitudine, la condizione della precarietà che talvolta sembra eludersi per il tocco di una smemoratezza preservata dal non dover «scegliere / tra conoscenza e non / conoscenza.», di un felice rituale in cui «Le storie a volte / si abbracciano tra loro». Affiora nel verso, chiaro, il sottostante intelletto gentile, l’armonica aura della visione del mondo che non rinuncia a se stessa neppure nell’incontro con ciò che genera il tremore dello smarrimento.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  Storie di acqua, di angeli e di vento   (Poemetto, 2013)

      Stories of Water, Angels and Wind        (Poem, 2013)

XXIII

L’albicocca del tramonto

assiepa le sue strane

andature

per declivi ed uscite.

Torna il solco

del tempo

a violare i pensieri

o scordare i sassi

in fiumi di verde

imbarazzo.

 

Nel rampare

dei tuoi colli,

a salire

il giorno.

 

 

XXIII

The apricot of the sunset

hedges its strange

ways

for slopes and ways out.

Returns the crack

of time

to violate thoughts

or to forget the pebbles

in strams of green

shame.

 

In the rampage

of your hills,

to rise

the day.

 

 

 

Da  Preghiere oltre se stesso   (Poemetto, 2016)

      Prayers Beyond Oneself  (Poem, 2016)

XI

Il mio cuore

è come

una foglia gialla.

 

Le righe di luce

nel cielo della fine

del giorno,

aria grigia votata

alla notte.

 

 

XI

My heart

is like

a yellow leaf.

 

The stripes of light

in the sky of the end

of the day,

grey air devoted

to the night.

 

 

Da  Il prete dei fanciulletti  (Don Lorenzo Milani)

      The Priest of Young Ones  (Father Lorenzo Milani)

XVIII

Continui nel tuo

andare,

non lasci il sudore

della cultura,

e nemmeno quando provano

a chiedertelo.

 

 

XVIII

You go on with your

going,

not a sweet

of culture,

not even when They try

to ask You.

 

Da  Miei sensi

      My Senses

VISIONE

È forse il mio

Signore

quell’albero solo

sul pendio?

Salgono le vesti

come uccelli arrivati

dal mare

e rompono, attaccano,

scelgono le folate dei venti,

come sicure

del futuro

dell’acqua e

delle parole.

 

 

VISION

Could

my Lord

be

that lone tree

on the hill?

Rise the gowns

like birds that came

from sea

and they break, attack,

they choose the gusts

of winds,

as sure they are

about the future

of water and

words.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Paolo Menon:  “Scena aperta”, Simonelli Editore, 2019. Sei poesie e un commento breve.

06 venerdì Nov 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Paolo Menon, Scena aperta

Paolo Menon:  “Scena aperta”, Simonelli Editore, 2019

Prefazioni: Luciano Simonelli “Esordio”; Claudio Pina “Notizia”

Sei poesie e un commento breve

 

In Scena aperta Paolo Menon, con chiara cognizione di essere nella spirale potente dell’atto creativo, presenta un cosmo poetico in cui esprit de finesse e esprit de géométrie s’incontrano nel caleidoscopio di «memorie esperienziali anche dolorose, quasi mai analgesiche per l’anima»: la restituzione di tale icastica relazione sono i testi organizzati secondo il canone del teatro: tre atti in cui si scolpiscono impressioni motivi accadimenti auscultazioni che agiscono sul piano dell’individuazione: ogni poesia è una creatura che emerge dallo spazio, dal tempo, dal mitologema sentiti ineludibili, canapi che ancorano proteggono ispirano rigenerano – quasi un rituale – il poeta, la sua intelligenza emotiva costantemente chiamata alla forza forgiante la materia della vita, coniugando la luce e l’ombra, la loro interferenza. L’interiore necessità dell’assetto dell’armonia trova esistenza nell’ordine mimetico del logos della rappresentazione teatrale la cui energia e propulsione s’innestano nel perfettibile, nella ferita desiderante la guarigione, lasciando trapelare che ogni opera guaritrice s’intrama di un’opera regolatrice i cui crediti s’inscrivono nel riconoscersi nella propria inevitabile autenticità.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  ATTO I  – Spazi reali e spazi simbolici

 

Coreuti in scena

 

Così diversi

e unici, così litici e fragili:

come gocce d’acqua

abbiamo scavato la pietra,

eppure

in quel solco

dilavato

non scorre

che sangue

di cui siamo intrisi:

chi mai ci restituirà l’incanto

aurorale?

 

 

Scaenarium

 

Nelle viscere della bellezza

sprofondo.

Immerso in essa annaspo

tra i versi fetali di un amniotico carme

e risalgo – rigenerato –

nelle affollate solitudini

del creare.

 

Da  ATTO II  – Scenografie della parola

 

  1. Scena aurorale

 

Nei forami

della dorsale notturna

corre un brivido

che raggiunge Eos:

 

sbadiglia

e sonnecchia il sole

che – stirandosi –

srotola nubi tenebrose

stemperandole,

spettinandole, sormontandole

colorandole, stringendole

finché – sospinto il purpureo plasma aurorale –

non disvela

il logos nell’alba.

 

 

XIX.  Scena notturna

 

Finché il sole lo permetterà

potrai incatenare

la mia ombra alla tua

al flusso

dei tuoi desiderî

ma dal tramonto all’aurora

le speranze – a lungo

detenute – si scateneranno

per condurre le tue

al guinzaglio tra gli ingannevoli

cocci filosofali – ritratti

di vacche e pavoni per Hera –

entro le mura dell’isola

di Samo.

 

 

XXXI.  Scena silvana

 

S’acquietano gli acufeni

e d’un tratto

il latrato dei cani e il belìo degli agnelli

e il battibecco

sgraziato

dei corvi

e il fischio tra i lauri dei merli

si fanno musica

e balsamo di Driadi.

 

Da  ATTO III  – Scenografie d’azione scenica

II

E mentre bramivano i cervi

e i lupi ululavano

allarmati,

il sisma inghiottì pure la breve distanza

che sino a quel momento

separava le prede

dai predatori.

… di pari passo, ma non da meno, l’immane tragedia

raggiunse l’apice dell’ineluttabilità il 28 luglio 1976

            a Tangshan, in Cina: 242.769, stimate 650. 000 vittime!

                          [ Scossa tellurica di magnitudo 7,8 Richter ]

 

 

Biobibliografia

Paolo Menon (Villanova del Ghebbo, Rovigo, 1950) vive a La Valletta Brianza, Lecco. Ha compiuto studi di grafica a Milano e nel 1973 ha fatto parte del team grafico della Rizzoli Editore. È giornalista professionista dal 1982. Ha ricoperto ruoli di art director e direttore di periodici nazionali. Studioso dell’arte nel cui ambito redige saggi e cataloghi, è scultore e tiene mostre nazionali e internazionali. Scrive articoli e studi in particolare su vino e mito dionisiaco di cui è esperto e raffinato cultore. È poeta e scrittore di racconti brevi. Dal 2010 è membro della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano. Inserito in numerose antologie letterarie tra cui Inferis, Tetralogia Dantesca, Centro Lunigianese di Studi Danteschi (2008), in poesia ha pubblicato: Pietre d’inciampo, Bellavite Editore, 2018; Della Vite il pianto, e altre poesie 1967 –2017, Bellavite Editore, 2017; Sorsi dionisiaci, Edizioni Pulcinoelefante, 2012. Molti i saggi culturali, in particolare si menzionano: L’uomo da Dioniso a Cristo, Bellavite Editore, 2011; Oinodes – le forme del bere e altre che sanno di vino, ispirate alla mitologia ellenica, all’eros, alla religione, alla politica –, Edizioni Museo Remo Bianco, 2010; Il bello di Bacco – appunti di viaggio nelle eleganti terre enoiche dell’arte, Edizioni Centro Diffusione Arte di Milano, 2009; Dei tirsi divini – rilievi di luce bronzea nel tempio onirico di Dioniso, Edizioni Altamarca, 2006; Per vino e per segno – le più belle etichette d’autore vestono il vino italiano -, Vol. 2, Edizioni Centro Diffusione Arte di Milano, 2004 e Vol. 1, 2003. Molti i premi e riconoscimenti, il più recente: Premio Letterario Internazionale “Gian Antonio Cibotto”, primo premio per la poesia inedita Cambio di scena agreste, Rovigo, 2018.

 

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John Taylor: “oblò / portholes”, Edizioni Pietre Vive, 2019. Postfazione di Franca Mancinelli: “In ascolto dell’oblò”. ~ Sei frammenti e un commento breve

23 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ 2 commenti

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Adriana Gloria Marigo, John Taylor, oblò / portholes

“oblò / portholes”, traduzione di Marco Morello; illustrazioni di Caroline François-Rubino

 

Tra Samos, Agosto 1976 e Bessans, Agosto 2014, nella coniugazione alchemica di mare e montagna in tempi distanti tra loro, il poeta John Taylor matura le sedimentazioni psichiche di un viaggio materico intimistico spirituale avvenuto nell’Egeo dove la potenza eliaca della luce scolpisce frammenta esalta le forme, il genio del mare induce l’occhio del poeta a lambire in modo immaginale le acque secondo uno sguardo affine alla visione: l’indistinto invia segnali che presto scompaiono, ma hanno l’intensità dell’intermittenza, dell’annuncio di un enigma, di un barbaglio che ha il tempo di incidere impressivamente l’attenzione per la quale la forma circolare dell’oblò è essenzialmente il segno orbitante del Sé, che nel paesaggio marino e celeste dell’isola trova motivo di rivelazione ed espansione. Ma quell’oblò, basso continuo della silloge che consente la vista del mare come fosse – in taluni frammenti – cielo rovesciato, assomiglia anche alla nephéle photeiné, la nuvola luminosa che nella sua fenomenologia numinosa, sommuove l’immaginazione, coinvolge la rêverie, ridesta voci sommerse, s’insinua nella profondità prima di tracciare la superficie dello spirito: avviene un’opera di maieutiké per la quale l’atomismo del linguaggio poetico in oblò – portholes acquista forza di immagini sicure che non si disperdono, ma si muovono e inaugurano l’iridescenza dello spazio vitale in cui irrompe, si autogenera ancora una volta la facoltà immaginale della scrittura poetica.

 

Adriana Gloria Marigo

 

sagome cancellate
la notte emerge
le parole
si confondono
 
l’oblò
è l’ultima forma rimasta
 
 
 
la foschia
appanna il vetro
 
sull’acqua
immaginata
delicatezza
di foschia
 
 
 
scurire questo lato
così l’altro lato
trattiene
più a lungo
la luce
 
 
 
dal sole
alla luna
 
avvolto o svolto
dalle nuvole
 
luccicanti
il mare
la riva
 
 
 
L’oblò
del ricordo
 
che cerchia
tingendo
di blu
la vacuità
 
 
 
fu all’alba
la partenza
 
o al crepuscolo
 
o a mezzogiorno
delfini come
strati nuvolosi
sulle onde
la luce solare
soggiogata
sovrana
 

 

Biobibliografia

John Taylor è scrittore e traduttore. Nato nel 1952 a Des Moines (Stati Uniti), vive in Francia dal 1977. È autore di racconti, prose brevi e di poesie. Tra i suoi libri più recenti: The Dark Brightness (2017), Grassy Stairways (2017) e Remembrance of Water & Twenty-Five Trees (2018). In italiano sono usciti, nella traduzione di Marco Morello: Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon, 2007), Se cade la notte (Joker, 2014) e L’oscuro splendore (Mimesis-Hebenon, 2018). Portholes (Oblò) è in uscita nell’autunno 2019 per Pietre Vive Editore. Ha tradotto dal francese diversi poeti tra cui Philippe Jaccottet, Pierre-Albert Jourdan, Pierre Chappuis, Pierre Voélin e José-Flore Tappy. Nel 2013 ha vinto il premio dell’Academy of American Poets per un progetto di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions, 2015). Recentemente, ha tradotto Libretto di transito di Franca Mancinelli: The Little Book of Passage (The Bitter Oleander Press, Fayetteville, New York 2018).

 

 

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Giancarlo Stoccoro: “La disciplina degli alberi”, La Vita Felice, 2019. Introduzione di Paolo Steffan: “La silenziosa disciplina di Giancarlo Stoccoro”. Dieci poesie e un commento breve.

25 venerdì Set 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Giancarlo Stoccoro, Paolo Steffan

 

Le sezioni La disciplina degli alberi, Luoghi ligi configurano un teatro urbano in cui è messa in scena la pièce dell’umana inquietudine che attraverso segnali sorvegliati, una certa distanza delicata e di commozione impalpabile, cerca l’incontro che sembra imminente, accadente e invece, per una sorte che ha connotati arcani, si sposta in avanti o ripiega su se stesso, lasciando fluire la materia dello straniamento, senza però rinunciare al focus del “tu”, che resta tensione, anelito. Nella scrittura breve di Giancarlo Stoccoro confluiscono le polarità dell’esistenza, l’incessante movimento del sentimento e del pensiero che mai raggiungono il compimento del loro “in essere” lasciando trapelare l’impermanenza vibrante dei destini, il talento per la ricognizione dei motivi della coscienza che pongono in luce che «Un’idea di purezza / attraversa il mondo», mettono in atto la dimensione della libertà.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  Segnali di resa

 

Spossessarsi di sé

abitare i contorni

e la forma breve

custodire il silenzio

come reliquia

affondare la parola

 

 

Segnali di resa

non parole senza luogo

incondizionata resa

negli sguardi facili

negli orizzonti gentili

che camuffano distanze

 

A novembre gli alberi

resteranno nudi

fino a tardi

 

 

Da Geometrie dell’abbandono

 

Tu puoi non dire

quante traiettorie si aggiustano

accarezzando le sillabe

prima di dormire

 

Sale per gradi l’assenza

 

quando c’è poca luce

sembra non faccia danno

 

L’orizzonte si perde

dietro un buio qualunque

 

Da Feroci distanze

 

Altri luoghi

s’incontrano

soltanto al buio

e tu fai tanto

per tenere le luci

sempre accese

 

 

Non i luoghi

quelli sanno solo sfiorarti

non i tempi circostanziati dei calendari

un silenzio diffuso su nebbia densa

due scarabocchi su carta spessa

 

 

Da I giorni a te lontani

 

Tornano a farsi luogo

i giorni silenziosi

lontani dalle frasi fatte

hanno smesso di lucrare sui confini

di segnalare impronte

dove non c’è stato passaggio

 

 

Da Poesie per gli alberi e le passeggiate vagabonde

 

Nella nostalgia d’autunno

mi nutro di sguardi complici

foglie licenziate in novembre

 

divento fanatico del tango

allago la bocca con frasi vaste

 

liquida danza che assolve

gli alberi messi a nudo

 

 

Da Luoghi ligi

 

Gli alberi ci guardano

passare in fila indiana

 

licenziare le fronde

a novembre

non spazzano neanche il cielo

 

placidi stanno

 

Il tuo luogo quando penso a te

è un bosco di alberi bianchi

dove ti arrampichi finché

il tronco comincia a cullarti

 

 

Biobibliografia

Giancarlo Stoccoro (Milano, 1963) è psichiatra e psicoterapeurta. Oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Studioso di Georg Groddeck, ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia Georg Groddeck. Una vita, di W. Martinkewicz (Il Saggiatore, Milano 2005) e i saggi Pierino Porcospino e l’analista selvaggio; Poeti e prosatori alla corte dell’ES. Suo è il primo libro che esplora il cinema associato al Social Dreaming, che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno (Giovanni Fioriti, Roma 2012).

Ha vinto diversi premi di poesia e pubblicato le sillogi: Il negozio degli affetti (Gattomerlino/Superstripes, Roma 2014), Note di sguardo (Morellini, Milano 2014), Benché non si sappia entrambi che vivere (alla chiara fonte, Lugano 2015), Parole a mio nome (Il Convivio, Castiglione di Sicilia 2016),Consulente del buio (L’Erudita, Roma 2017), Forme d’ombra (alla chiara fonte, Lugano 2018),La dimora dello sguardo (Fra, Rimini 2018), Prove di arrendevolezza (Oèdipus, Salerno 2019).

Cura i blog ladimoradellosguardo.it e ciacksisogna.it

 

 

 

 

 

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Francesco Zevio: Suite dei mondi, Robin Edizioni, 2019. Prefazione di Silvio Raffo: Il mosto puro. Nota critica di Adriana Gloria Marigo.

12 venerdì Giu 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ Commenti disabilitati su Francesco Zevio: Suite dei mondi, Robin Edizioni, 2019. Prefazione di Silvio Raffo: Il mosto puro. Nota critica di Adriana Gloria Marigo.

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Adriana Gloria Marigo, Francesco Zevio, Silvio Raffo

All’inizio dell’autunno 2019 il poeta Silvio Raffo mi fece notare che tra i libri di poesia pubblicati ve n’era uno che portava i tratti indiscutibili di quel carattere di Bellezza che si rintraccia non solo in poesia, ma in altro sapere: si tratta della Bellezza che risponde alla cifra della cultura, dell’Armonia, dell’equilibrio, delle forma, della proporzione, del valore etico e, nel caso della poesia, della misura  alta di versificazione, poiché sottesa e ordita è la qualità ontologica, l’adesione appassionata o totalizzante al pensiero immaginale che consente al dettato del “porto sepolto” la scrittura intensamente incisiva sia negli elementi formali che contenutistici. Non dovetti chiedere di poter leggere Suite dei mondi poiché il poeta di Varese, nell’entusiasmo tipico di quando si trova nell’orizzonte del Bello, mi offrì il libretto dalla copertina commotiva in cui non è difficile percepire l’alleanza tra immanenza e trascendenza: lo sposalizio di titolo e immagine, le parole che si coniugano con le figure e i colori inviano messaggi a livello di intuizione, di immaginazione attiva, così che sorge una sorta di impressiva visione di quanto e quale sarà il contenuto.

L’incipit della prefazione di Silvio Raffo «Sa quasi di miracolo…» è una dichiarazione vera e sacra in quanto Suite dei mondi ci porta al cospetto di una scrittura intramata di rimandi colti, che segue la strada maestra della parola che non piega ad alcuno spleen, ma anzi continua a munirsi di fuoco prometeico e ali provviste di forti remiganti per alzarsi nello spazio del simbolo, della metafora e, in vibrante misura, della rêverie, come in «Nel cielo che più nero/ dell’anima si stende,/ la luna non si vede – né risplende/ su di un futuro in cui non spero.» di Borghetto, poesia tutta percorsa dalla “brillanza luminosa” della fantasticheria. V’è nell’opera di Francesco Zevio posto per la venerazione, o meglio: i testi officiano la restituzione grata dei doni ricevuti (mondi fisici dei luoghi, e metafisici delle presenze aleggianti e misteriose, prossimità che collegano il visibile all’invisibile), il riconoscimento dei forti legami con i padri di pensiero e d’anima senza i quali l’identità autoriale potrebbe risultare diversa, consistere in altra misura: l’Autore ammette che in ogni poeta si celano una o più appartenenze non solo specifiche, relative alla parola della poesia, ma attinenti anche ad altre conoscenze, esprimendo in tal modo che le ascendenze, la disposizione personale ai temi confluiti nei testi, l’afflato con certi autori – compresi i compositori di cui Francesco Zevio dà ragione nel nome ineludibile di Bach della Cello Suite No. 2 in re minore BWV 1008 – discendono sì dalla sensibilità fine, ma si perfezionano mediante la cognizione che individuum est ineffabile: Suite dei mondi dimostra ampiamente che l’Autore realizza la propria ineffabilità mediante modi poetici personalissimi e di cui ha indubbia consapevolezza.

Tutto il corpo di Suite dei mondi – organizzato nelle sezioni Altrove, Suite mediterranea, Idilli e asfalto, Latium, Appendice . Frater Philippus – è percorso da una caleidoscopica immaginazione creativa che lascia il lettore ammirato al dettato del contenuto retto dalla forma che, vigilata da Armonia – come in Aliquis Nympha dove «Nostri gli armonici dell’alba, e nostro/ il tenero morire del meriggio/ alla sua sera», testimonia la strada di una poesia sopraelevata rispetto al canone in uso.

Sorprende, felicemente, in un giovane poeta la chiara consapevolezza del “comporre”, che le Note a piè di pagina di ogni testo esprimono: il talento innato dai bagliori luminescenti è sostenuto dall’affezione per lo studio, per la verità dei classici cui il poeta Zevio rivolge rispetto quale accoglienza e restituzione, poiché in essi egli ravvede la regalità delle matrici che Poesia include nel suo costante essere in fieri, nel concepire che «… miti insepolti/ torneranno a bussare/ alle porte del mondo.»

 

Adriana Gloria Marigo

 

PROVINCIA

 

Fioriscono le rose

dell’elettricità –

dal ferro delle notti

afose di città.

 

Percorro inconsolabile

prati d’asfalto nero –

al corso iroso, instabile

di un unico pensiero.

 

Pensiero dominante

tiranno del mio cuore…

nell’effluvio scostante

d’asfalto, delle spore

 

più in là di gimnosperma

che profumano i giardini

commisti a odore d’erba

rugiada e gelsomini,

 

la Luna non si vede.

La Notte non ha voce.

Trascorre, inconsolato

il fiume alla sua foce.

 

 

BORGHETTO

                                                         Rausche, Fluß, das Tal entlang…

 J. W. Goethe

 

Notte aulente di Giugno –

dal tiglio che ti piange

sino all’acqua, che in accordi si frange

d’inenarrabile notturno.

 

Ti vorrei, silenziosa

per me sola – tra le paghe

cetonie addormentate, e nelle vaghe

stelle dell’Orsa luminosa.

 

Un vento soffia lieve

su foglie lanceolate –

sospira l’alfabeto dell’estate

dolce, che giungerà a breve.

 

Partire… in queste notti

andarsene lontano.

Laggiù è la vera vita, forse il vano

sogno di spiriti incorrotti.

 

Nel cielo che più nero

dell’anima si stende,

la luna non si vede – né risplende

su di un futuro in cui non spero.

 

 

ALIQUIS NYMPHA

 

Nostri gli armonici dell’alba, e nostro

il tenero morire del meriggio

alla sua sera.

 

Nostro l’amore madido dei prati,

dei botton d’oro e i pisacàni a macchia

tra l’erba scura.

 

Non pronunciare il mio nome, se tu

vorrai serbare di me, del ricordo

la vita più vera – tu chiudi gli occhi

e baciami ancora.

 

da Idilli e asfalto

 

III

Tornano a suonare le campane della sera,

come ad annunciare, ancora

la tua morte – non restano che ceneri

ai miei piedi, che un vento da Est aveva disperse,

insepolte… mentre i soliti balocchi

dai colori artificiali

sfrecciano a intervalli più serrati,

fiondati in aria da ambulanti indiani…

e nella piazza che il freddo, a poco a poco

fa tacere, resta ancora leggibile:

                                                                  “A Bruno, il secolo

                                                                   da lui divinato…”

e del tuo simulacro

severo di dolore e di coraggio,

lo sguardo, il volto nascosto tra l’ombre

rimane incomprensibile.

 

da Appendice, Frater Philippus

 

 

Biobibliografia

 

Francesco Zevio è nato a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, nel 1992. Ha studiato a Padova (lettere moderne) e a Roma (Accademia Vivarium Novum), in Francia (Aix-Marseille Université) e in Germania (Universität Augsburg). Ha pubblicato la raccolta di versi Suite dei mondi (Robin Edizioni, 2019) e il libro Latino in cinque minuti (Gribaudo, 2019). Con il pianista e compositore Jozef F. Pjetri ha dato vita a Cultura in Atto, associazione culturale con sede a Padova [https://www.culturainatto.com/]. È inoltre cofondatore della compagnia di poesia, pantomima e musica Mime en Mi Mineur, attiva in tutta Europa [https://mimeenmimineur.webnode.com/]. Oltre che con Cultura in Atto, ha esordito con Ritorno a Capo, collabora con la rivista Pangea, con Parentesi storiche e con il giornale online Ilsoleitaliano di Monaco di Baviera. Cerca di vivere secondo l’omerico «di molti uomini vide le città e conobbe le menti»; trova che tutto sia magnificamente riassunto ed espresso nell’epitaffio che Stendhal immaginò per sé stesso, recitante: «visse, amò, scrisse.»

 

 

 

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Sei poesie inedite da Passaggi e Paesaggi – brevi e brevissimi palpiti di poesia di Adriana Gloria Marigo

22 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Passaggi e Paesaggi– brevi e brevissimi palpiti di poesia

Oh sogni,

Infanti belli nella luce

Delle vesti lacerate,

Delle spalle dipinte.

 

Yves Bonnefoy, Nell’insidia della soglia, Le nuvole

 

*

Alla fine, la pioggia consegnò un paesaggio flesso e riflesso.

Poi giorni morbidi, alabastrini.

Un mattino cominciò il rito azzurro.

La luce esordì bella come lo spadino di Cocteau, e il pomeriggio si mostrò tutto in volute librarie: parole presero la rincorsa.

 

*

Insistono sui rami avvisaglie sommesse,

discrezione per recrudescenze d’aria.

 

S’innalza la stagione nel lieve

smarrimento della sua grazia acuta

 

 

*

Con la terra, la dura zolla

non sono affinità.

 

A me s’affina perfetta l’aria

il volo di farfalla.

 

Di libellula la ricamata

elitra dove in sobria

cadenza la luce trapassa.

 

*

La luce ci stringe da le fronde,

serra il verbo nell’oro

di un’ora che il nume

cinge di mantica e alloro.

 

 

*

Ancora ameremo

la notoria fragilità dell’ora

il minuto parlare

prossimo alla formula dell’acqua

 

l’amplitudine dell’aurora –

imperante il nero in terra

in cielo l’oro rosso sorgente.

 

*

A terra, in tenue rosso

si sfoglia la vite americana

 

in alto, tra i rami degli allori

uno stormo di passeri

in rapido volo sbreccia

il silenzio tondo.

 

 

Adriana Gloria Marigo

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Il niente ineludibile di Gianluca Conte, L’argoLibro Editore

24 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Gianluca Conte, Il niente ineludibile

L’ineludibilità del niente: una lettura olistica

di Adriana Gloria Marigo

Il filosofo Jean Paul Sartre in L’origine della negazione, L’Essere e il Nulla scrive, a proposito dell’indagine che andrà a elaborare: «(…) Ma ciascuna delle condotte umane, essendo condotta dell’uomo nel mondo, può offrirci contemporaneamente l’uomo, il mondo, ed il rapporto che li unisce, a condizione che esaminiamo queste condotte come delle realtà obiettivamente percepibili e non come affezioni soggettive che si scoprono soltanto allo sguardo della riflessione. Non ci limiteremo allo studio di una sola condotta. Tenteremo, invece, di descriverne molte e di penetrare, di condotta in condotta, proprio nel senso profondo della relazione “uomo-mondo”».

Il passo contenuto nelle prime pagine dell’elaborazione del concetto sartriano di “nulla” si attaglia alla modalità dell’analisi che Gianluca Conte compie con la chiara consapevolezza di trovarsi davanti a uno dei temi vertiginosi che hanno fondato parte della ricerca di filosofia: dal momento che l’uomo avverte di “essere-posto-in”, ovvero ‘in situazione’, esperisce che il rapporto con sé stesso e il mondo, con sé stesso e l’Altro, è un problema che presenta una declinazione di considerazioni, elaborazioni che riguardano il senso della presenza dell’ “ente” in rapporto a quelli che sono gli elementi che non si possono eludere, che sono ineluttabili in quanto “co(r)–relativi” all’ente”, che viene così a situarsi in una significazione di complessità, a partire dall’osservazione che la relazione presenta un elemento ineludibile, ovvero “dualità” dal momento che con la verità dell’ “ente” sorge la verità del “non–ente”.

Questo elemento di criticità induce Gianluca Conte a superare le strettoie – ma ricchissime di verticalità ontologica – dell’indagine filosofica classica introducendo un approccio, un approfondimento della relazione niente–nulla che attiene alla visione olistica, ossia a quella linea di pensiero definita olismo che riconosce il riduzionismo come non esaustivo nella indagine, poiché le proprietà di un sistema non si possono spiegare definitivamente mediante le singole componenti in quanto «la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore/ differente dalla somma delle prestazioni delle parti prese singolarmente».

È chiaro dunque che l’autore de Il niente ineludibile ci avverte che l’argomento, nella sua articolazione, è un ‘organismo’ che, in quanto oggetto di indagine speculativa, posto dunque nello spazio del pensiero, eccepisce che le parti che lo compongono sono tutte intramate di relazione: non si possono trascurare o privilegiare alcune invece di altre parti, pena l’incompletezza dell’indagine e di nuovo la caduta nel riduzionismo che licenzia come vero ciò che è inficiato di parziale verità, se non addirittura di non–verità. A tale proposito urge in Gianluca Conte chiarire in modo risolutivo che «Il nihil della metafisica non è il ni–ente, ovvero un ‘non–essere relativo’, bensì il nulla, ‘nessuna cosa’. (…). Il ni–ente, quindi, non è in –essente assolutamente non–essente, bensì un in–essente geo–locato». Ed è proprio in relazione a questo dettaglio, che implica una certa originalità rispetto al dettato classico, che l’Autore fa riferimento, secondo quello sguardo ‘olistico’ sopra citato, alla «tradizione mistica occidentale» attestando che l’indagine filosofica, nella sua peculiare natura complessa può accogliere ulteriore complessità di saperi, avvalersi di altri vertiginosi contributi nulla togliendo alla specificità della materia di filosofia. In un ulteriore passaggio inerente al concetto in analisi si legge:  «Il ni–ente, come alternanza ontica, come ‘luogo ontologico altro’ che è altrove rispetto all’ente, inerisce la quiete, la figura geo–locata e geo–metrica che evoca l’oscillazione dell’ente nel limen di forme segniche archetipiche. Il luogo della ‘de–solazione’, dell’ ‘a–ridità’, del vuoto relativamente al pieno». In tale visione che pone in relazione, supera la contrapposizione concettuale, si evince l’abbandono del dualismo cartesiano preferendo la via meno percorsa nella tradizione filosofica occidentale, ossia la speculazione iniziata da Baruch Spinoza – e muove dal panpsichismo di Giordano Bruno – la cui indagine determina una visione non solo razionale, ma anche intuitiva, unitaria della realtà asserendo, il filosofo di Amsterdam, nel seguente passaggio: «Inoltre, che cosa si può dare di più chiaro e di più certo che sia norma di verità, se non l’idea vera? Senza dubbio, come la luce manifesta se stessa e le tenebre, così la verità è norma di sé e del falso». Laddove Gianluca Conte analizza « Il nihil della metafisica»; la «dimensione mistica »; «Il ni–ente, come alternanza ontica»; «La dualità oppositiva–relativa tra ente e ni–ente»; «Il silenzio è dunque linguaggio in assenza di linguaggio»; «Il silenzio ritorna anche in Plotino come silenzio metafisico»; «Il logos insieme alla mancanza–assenza, pone miti e credenze: crediamo perché difettiamo di unità e di conoscibilità»; «L’intuizione, quindi, è radice del pensiero, in quanto elemento mistico e, come tale, capace di un angolo visuale differente, che trascende, a un tempo, conoscenza e volontà»; «La dimensione del ni-ente è, ad un tempo, prossima e distante. L’immaginifico della luce e quello dell’oscurità sostanziano un frangente–limite; l’indecifrabile momento in cui la luce non è più e la tenebra non è ancora»; «Il ni–niente, nell’accezione che fa riferimento a un multi–verso, rappresenta un corrispettivo filosofico di ciò che in fisica viene identificato come antimateria»; «Lo stesso infinito, come dimensione abissale di sterminata grandezza, si estende, secondo il Leopardi, in direzione del nulla: (…) Spazio e tempo incontrano il nulla nel luogo liminale posto tra esistenza e annientamento, e stringono con esso una relazione immemoriale e incontrollabile, poiché il nulla, per sua natura, è il massimo della presenza nella totalità dell’assenza.» è possibile osservare che egli accoglie una metrica di indagine dal connotato ermeneutico implicante le qualità del pensiero analogico affinché accada la verità dell’ente e del ni-ente accogliendo saperi di ordine differente e che pure afferiscono per vie trasversali e analogiche alla postura di filosofia, avendo recepito la lezione comparatistica e necessaria per introdursi entro il nucleo ontico che costituisce l’unità e la polarità della materia indagata che per Gianluca Conte, come per Baruch Spinoza, è nel suo complesso pienamente intelligibile, poiché nulla può essere considerato, a priori, inconoscibile. Dato questo assunto, è pur vero che gli uomini non partecipano tutti di una conoscenza innata e adeguata, poiché sono per lo più assoggettati agli idola di Francis Bacon che li flettono a immaginare senza conoscere, a credenze, non-verità. Occorre, infine, osservare che nell’indagare la relazione niente–nulla emerge che «Nell’essere permane qualcosa di non–visibile, di non–percettibile e, di conseguenza, di non–dicibile.»: ciò ha quale effetto l’accadere del ‘silenzio’, che s’invera «quando non vi sono parole atte a esprimere il nulla di essente». Il silenzio si colloca in un piano di significazione decisamente relazionale: non è soltanto l’atto di tacere davanti a un altro che parla, ma è l’orizzonte di senso in cui accogliere la realtà nel dato dell’apparenza e in quello del non-visibile, che in essa è contenuto. È in quell’ ‘orizzonte di senso’ che pulsa dal niente/silenzio il sorgere della natura ‘creante’ e ‘originaria’ del Logos la cui costituzione, anch’essa relazionale, nulla osta al “silenzio” in cui, come scrive il filosofo francese Louis Lavelle «Vi sono tutte le forme possibili di silenzio. C’è un silenzio di chiusura, un silenzio di riservatezza, un silenzio di mortificazione, un silenzio di collera, un silenzio di rancore. Ma c’è anche un silenzio dell’accettazione, un silenzio della promessa, un silenzio di donazione, un silenzio del possesso. C’è un silenzio che porta il peso di tutti i ricordi senza evocarne nessuno, un silenzio che prende in esame tutte le possibilità senza preferirne nessuna. C’è un silenzio pesante che mi opprime in tal modo che la più piccola parola sarebbe per me una liberazione, c’è un silenzio fragile di cui temo la rottura, c’è un silenzio in cui ringhia una ostilità irritata dal non trovare mezzi abbastanza forti per manifestarsi, c’è un silenzio dell’amicizia piena, felice di aver superato tutte le parole e di averle rese inutili. C’è il silenzio dell’ammirazione e quello del disprezzo, talora il silenzio mi fa sentire la presenza del corpo come un fardello che non posso sollevare; talora invece sembra abolirlo, come se fosse divenuto uno spirito nuovo (…) C’è un silenzio che si origina ora dall’indifferenza ora dal partito preso. È un rifiuto a socializzare con un altro essere o, e ciò è ancor più grave, una certa incapacità di farlo».

 

Nota dell’Autore

Il linguaggio comune utilizza i termini niente e nulla come sinonimi, dando a essi accezioni assimilabili alle idee di nessuna cosa, vacuità, assenza, vuoto, desolazione. Tale consuetudine può essere considerata non solo il frutto della tradizione storico-popolare e mistico-religiosa, ma anche di quella poetico-letteraria e filosofica. Espressioni come «Non siamo nulla» oppure «Su questa terra siamo niente» spiegano bene la concettualizzazione di fondo presente dietro le due parole, che narra della volontà di esprimere la condizione transeunte dell’umano, l’essere di passaggio dell’individuo e della moltitudine. La fine della vita terrena, con tutte le conseguenze che questa implica, ha suscitato da sempre riflessioni a più livelli di pensiero. La paura del totale annullamento, dell’epilogo definitivo dell’esistenza, associata a quella dell’ignoto, è stata fonte di ricerche, discussioni, dibattiti, creazioni artistiche e letterarie, studi filosofici e teologici. Dai motti popolari agli eleganti versi poetici, dalle meditazioni mistiche alle speculazioni metafisiche, il concetto di nulla/niente ha rappresentato l’incontro dell’umano con la «dimensione del tragico», propria della sua impermanenza.

Il ciclo vitale ‘nascita-crescita-degenerazione-morte’, filtrato attraverso il mito e il sacro, ha gettato le fondamenta per una genesi storico-escatologica in cui il nulla/niente rappresenta il «luogo immemoriale» da cui scaturisce la vita di ogni ‘essere’ e quello a cui ciascun vivente ritorna dopo la morte. Quella umana, dunque, è un’«esistenza in dissolvenza», un «abisso destinale» o «destino abissale» cui nessuno può sottrarsi. In tal senso, la presunta riducibilità dei termini nulla e niente ha posto le basi per un’omogeneità teorica che ha legittimato un’equivalenza di senso. Tuttavia, come si vedrà in seguito, questo breve saggio vuole essere un tentativo di mettere in discussione proprio tale identità, cercando di portare alla luce le differenze – «fondativa», «genealogica» e «linguistica» – che sussistono tra i due concetti. Si tratta di una duplice diversità, che riguarda sia il significante sia il significato, poiché se, come  ci ricorda Agostino, «aliquid stat pro aliquo», il problema non è soltanto semiotico ed ermeneutico ma anche, e soprattutto, ontologico e gnoseologico. «I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere, di per sé, qualcos’altro di più di ciò che essi sono»[1], scrive il filosofo de le Confessioni, anticipando alcune concettualizzazioni filosofiche posteriori che hanno avvertito le problematiche di cui sono suscettibili i legami tra «ciò che appare» e «ciò che è»[2].

Il segno, dunque, appartiene a un luogo remoto, eppure intellegibile, posto sulla soglia dell’apparizione nell’orizzonte di senso, ed è un elemento necessario alla conoscenza intuitiva del mondo. Sarà proprio il segno, come vedremo a breve, uno degli elementi che ingraviderà di significato la relazione tra ente e niente.

Il percorso qui proposto, partendo dalle origini della filosofia occidentale, in un confronto con il pensiero presocratico, in particolare quello di Parmenide, passando per Platone, Aristotele, la mistica, Leopardi, fino a giungere alla ricerca contemporanea, cercherà di sviluppare un’idea inedita del niente che, come poc’anzi affermato, pone in atto un tentativo di cogliere la disuguaglianza tra questa e il concetto di nulla abitualmente accolto e condiviso.

[1] Agostino D’Ippona, De Doctrina Christiana, Città Nuova, Roma, 1995.

[2] Agostino, attento conoscitore della lezione platonica e aristotelica riguardante il fenomeno, precorre le speculazioni successive che hanno indagato il rapporto tra ‘essere’ e ‘apparire’. Si pensi, a titolo non esaustivo, a Hobbes, Locke, Hume, Kant, Schopenhauer, Husserl, Heidegger.

Biobibliografia di Gianluca Conte

Gianluca Conte è nato a Galugnano (Le) nel 1972. Vive nel Salento, dove insegna Filosofia e Storia nei licei. Tiene conferenze, seminari e laboratori riguardanti la filosofia, la simbologia, la poesia e l’arte.

Ha pubblicato i saggi Nietzsche. Contro la modernità, Catartica Edizioni, 2018; Il pensiero metacreativo. Nuovi percorsi della mente, Musicaos Editore, 2015; Carmelo Bene inorganico, Musicaos Editore, 2014.

Le raccolte poetiche Universo minimo, Alimede, 2016; 28 strade ancora, Magazzino di Poesia di Spagine, 2014, a cura di Mauro Marino; Danza di nervi, Lupo Editore, 2012, vincitrice del primo premio PugliaLibre 2012; Il riflesso dei numeri, Centro Studi Tindari Patti, 2010, finalista al premio “Andrea Vajola”; Insidie, Il Filo, 2008.

Il romanzo Cani acerbi, Musicaos Editore, 2014.

I racconti La boutique della carne/Teste d’osso, Musicaos Editore, 2014.

Altri suoi scritti sono presenti in varie antologie, tra cui “Inchiostro di Puglia”, e sul Web.

Cura il blog Linea Carsica e collabora con Cammini Filosofici, Alimede Poesia, Itinerari Metacreativi, Zona di Disagio e Frequenze Poetiche.

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Il logos e la follia in Ostinato – Suite in versi di Cinzia Della Ciana, Edizioni Helicon, 2019

05 giovedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Cinzia Della Ciana

Ostinato – Suite in versi, Edizioni Helicon, 2019, è la seconda silloge poetica di Cinzia Della Ciana: segue, in un tempo piuttosto breve, la raccolta di esordio Passi sui sassi con la quale la poetessa toscana ha subito dato dimostrazione di chiara disposizione a intessere con la parola della poesia un rapporto sia sonoro sia metaforico, poiché la scelta lessicale densa di sonorità coincide con elementi strutturali, archetipici, mediatori di logos. Ritengo, in relazione alla lettura di Ostinato – libro che presenta complessità concettuale proprio per l’ispirazione e la genesi che intendono correlare, meglio, legare parola e musica come analizza nell’ottima postfazione Franco Di Carlo – necessario prendere in considerazione il termine ‘logos’ nella sua declinazione non solo di sostantivo, ma anche di verbo: in questa accezione ‘leghein’ –  in greco antico significa «conservare, raccogliere, accogliere ciò che viene detto e quindi ascoltare» – ci pone in relazione con tutta la sequenza della silloge pensata come la materializzazione di una suite – composizione musicale già di per sé concepita come espressione architettonica di quadri musicali  – in versi, dimostrando che ciò che urge metacreativamente nella scrittura dell’Autrice non è tanto la liberazione o l’annientamento della damnatio di vissuti feriti o irrisolti, quanto compire, coronare il disegno arduo e in certo modo aristocratico e fiero di un progetto di ricerca poetica e – a ogni modo – rispondente alle istanze del Sé, che mai si esonera dall’essere fautore del sogno e suo puntuale regista.

Nelle intenzioni della poetessa di Ostinato – Suite in versi, che si rivolge alla musica come mediatrice di pensiero e sentimento e alla parola come orchestrazione del segno formale che ha – per costituzione – perso in gran parte l’astrazione della musica e ha assunto l’ambiguità tipica della parola fin dal segno grafico, avviene quanto Martin Heidegger scrive in un passaggio in Saggi e Discorsi: «L’udire autentico appartiene al logos. Perciò questo udire stesso è un leghein. In quanto tale, l’udire autentico dei mortali è in certo senso lo stesso logos» certificando in tal modo l’esistenza di un legame che però, a mio avviso,  presenta un qualche specifico sfolgorìo per poter porre in correlazione l’udire autentico – che non è solo ascrivibile all’udito, ma anche al ‘sentire’ –, poiché ciò che avviene negli strati del pensiero ha rilevanza negli strati della psiche in un sistema di reciprocità, in quella zona dove avviene il processo cognitivo-affettivo.

Che cosa è mai, dunque, lo specifico sfolgorìo che consente il nesso tra poesia e musica? Lo psicanalista di formazione lacaniana Giovanni Sias, in La follia ritrovata, analizzando il rapporto tra musica e poesia individua l’elemento della correlazione nella follia «costitutiva dell’umano, è l’uomo stesso sul piano del suo desiderio, della sua più intima verità. […] La musica è l’emblema della follia. E non solo, o non tanto, perché è stata oggetto di molte composizioni (e anche di molte danze), ma perché è la musica stessa a essere follia nell’uomo. Anzi, è forse il momento più inequivocabile in cui l’uomo la incarna, la porta in scena, la sostiene. […] Ma mentre la poesia, perdendo il senso comune, introduce una pluralità di significati che sconvolge ogni significato determinato a priori aprendo un senso che si fa nel lettore, e a lui solo si dà, nella musica scompare e si rende impossibile ogni significato dato o da darsi, e il suono, il puro suono, scardina ogni possibile senso precostituito o da costituirsi, così che la parola non solo diventa inutile alla comprensione del mondo, ma la rende assolutamente insignificante all’esistenza di un mondo predefinito e del delirio di onnipotenza degli uomini sul mondo stesso».

Cinzia Della Ciana, in Ostinato – Suite in versi compie il grande tentativo di far dialogare la follia del linguaggio della musica «attraverso il quale si esperisce un mondo “puro”, (…) vi fa entrare la verità» con la follia del linguaggio della poesia che, fatto di parole, «non può e non sa esprimere perché falsa (la verità) e la confonde per via della doxa, la rende ordinaria, luogo comune, metro sociale di tutte le cose».

 

Adriana Gloria Marigo

Luino, 29 luglio 2019

 

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Nota critica di Adriana Gloria Marigo a “I masticatori di stagnola” di Guglielmo Aprile, LietoColle, 2018

28 lunedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Guglielmo Aprile

 

Da tempo, forse per una sorta di suggestiva deformazione professionale, vedo il libro – in particolare la silloge di poesia – come la materializzazione del tempio greco: la copertina è simbolo del pronao; pertanto la relazione che intercorre tra il titolo e l’immagine non è tanto malia sul lettore eventuale, quanto indicazione, presentazione, elementi che suggeriscono a livello immaginativo l’interno, il naos dove è collocata la statua del dio. Presenza oppure no dell’immagine, colore, titolo sono – in molti casi – suggerimento di ciò che si tratterà nelle pagine: che sia vicenda, rito o liturgia il corpo di un libro è quanto l’autore officia derivandolo dal Sé in rapporto con l’Io in una dinamica che M. Heidegger così connota  «(…) La parola del poeta non è mai la sua propria parola e non è mai sua proprietà. Il poeta ha capito che solo la parola fa sì che una cosa appaia, e sia pertanto presente, come quella cosa che è. La parola poetante nomina qualcosa che va oltre il poeta e lo spinge in un’appartenenza che non ha stabilito egli stesso, un’appartenenza che può solo accettare. La parola del poeta, e quel che in tale parola è poetato, superano, poetando, il poeta e il suo dire. Quando attribuiamo alla poesia questo carattere, ci limitiamo sempre alla poesia essenziale. Essa soltanto compone poeticamente cose iniziali, essa soltanto svincola cose originarie in vista del loro proprio avvento. L’arte – di cui fa parte anche la poesia – è sorella della filosofia. Ma solo la poesia è la custode privilegiata della verità dell’essere. (…) La natura poetica del pensiero è ancora avvolta nell’ombra. Ora essa si manifesta, assomiglia per lungo tempo all’utopia di un intelletto semipoetico. Ma il poetare pensante è, in verità, la topologia dell’essere.» Continua a leggere →

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Nota critica di Adriana Gloria Marigo a “La vita che si vede” di Antonello Sollai, Controluna Edizioni di Poesia, 2018

14 lunedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Antonello Sollai

Maurizio Zani, filosofo della storia, nell’accuratissimo intervento critico Antropologia filosofica: scarso affetto per le emozioni approntato per il volume di saggi Psicoanalisi, ideologia ed epistemologia, Aracne Editrice, 2014 si avvale per ex ergo di «Noi siamo le nostre emozioni» (Antonio Damasio), frase dal tono definitivo che non ammette repliche se non la ricerca delle neuroscienze cognitive che lo scienziato portoghese Antonio Damasio ha arricchito di contributi numerosi e notevoli, tali da apportare un dettato nuovo e acclarante del ruolo delle emozioni nelle nostre decisioni, scelte morali, e della funzione delle sensazioni corporee per l’affiorare della coscienza e della complessità dell’io. Nel saggio, il filosofo chiarisce come il pensiero filosofico, fin dal suo apparire, dimostri “scarso affetto” verso le espressioni umane che si avvalgono delle emozioni e del sentimento, sottolineando come l’oggetto di quella disaffezione sia principalmente l’attività creatrice le immagini emozionali, dunque il pensiero analogico e ciò che da esso discende, la poesia in particolare: filosofia non riconosce che poesia sia un’importante sorgente di conoscenza, una raffinata e sofisticata rappresentazione del mondo, la discesa empatica entro le parti della realtà che si mostrano affrancate, essenti in sé e gravanti sull’uomo unicamente per la problematizzazione che l’individuo compie nella relazione con esse. Filosofia, incastellata nella sua primigenia dedizione alla ragione per cui attribuisce valore di conoscenza esclusivamente a ciò che deriva dall’applicazione della logica, costruendo un’ontologia strettamente connessa con il mondo delle idee platoniche o con ciò che si esperisce empiricamente, nutre disprezzo per la conoscenza derivante dai modi del pensiero analogico, dell’immaginazione attiva: vi è tutto un mondo collegato alle espressioni artistiche dell’uomo da cui ha preso distanza, almeno fino ad ora in cui mostra un’attenzione  particolare, un allontanamento apprezzabile dall’orgoglio del suo sapere, se non altro perché mossa dall’istinto incoercibile di conoscenza.

Nel primo paragrafo del saggio sopracitato si può leggere: «Siamo dei soggetti dotati di una storia personale proiettata su un orizzonte in cui si intersecano variamente, talora in maniera inestricabile, le esperienze del passato, del presente o del futuro: un orizzonte con cui intratteniamo un rapporto emotivo poiché ci sta a cuore e che costituisce una fonte illimitata di apprendimento emotivo. Un orizzonte nel quale non sempre sappiamo distinguere una linea che separa la parte adulta da quella infantile; un orizzonte nel quale sentiamo non di rado la compresenza di persone diverse che si condensano nella nostra unità personale. È in fondo il nostro orizzonte di vita. E in quel “nostro” si racchiude la “nostra” biografia, colorata dalle emozioni del ricordo, dell’attenzione, delle attese normalmente esperite in un contesto variabile di relazioni con altre persone.»: questo lungo preambolo per specificare che in tale scenario – che evidenzia il rapporto problematico tra i due saperi – ritengo che l’opera prima La vita che si vede di  Antonello Sollai si inserisca a pieno titolo per indicare che filosofia e poesia percorrono con modi differenti la stessa via, che è quella dell’essere su cui si può rivolgere lo sguardo che interroga e rappresenta o lo sguardo che osserva e accompagna l’intuizione oltre ciò che è visibile: la silloge, attraversata da felice musicalità di verso, è sostenuta e permeata da accenti, indici di problematiche esistenzialiste, dimostrando così che laddove esiste una scrittura che formalmente risponde ai modi della poesia, i contenuti consistono senza dubbio in pensiero, in quelle che sono tematiche della vita e che si inscrivono nell’orizzonte della riflessione filosofica. In prossimità di libri come quello di Sollai filosofia non può esimersi dall’accostarsi, poiché abbandonare il campo significherebbe non riconoscersi capace di individuare altre modalità di indagine per giungere o avvicinarsi alla natura intrinseca delle cose.

Il titolo La vita che si vede assume quasi i connotati di un teorema da dimostrare e che potrebbe anche restare indimostrato, poiché si tratta della vita: di essa vi è sempre qualcosa che sfugge allo sguardo logico, qualcosa che si sottrae o rimanda alle intuizioni che sorgono dai territori del Sé: è la perfettibilità, il dato inarrendevole alle strategie ordinanti l’essere  che spazia e trova manifestazione nella poesia di Antonello Sollai, che la connota di immagini impressive – poiché sono vibrazioni connotative che la poesia annuncia, non descrittive anche se felici, ma di pertinenza della prosa – come richiami alla discesa nel segreto personale o universale senza mai svelarlo del tutto, lasciandolo nella sospensione che genera la partecipazione costante alla vita, ai suoi richiami, alle sue chiamate, alle immagini fantasmatiche, poiché sono da considerarsi «… le passioni umane, quali l’amore, l’odio, l’invidia, la vanagloria, la misericordia e tutti gli altri sentimenti, non come vizi, ma come proprietà dell’umana natura (…) mentre la nostra mente gode della loro schietta contemplazione non meno che della percezione delle cose gradite ai sensi». (Baruch Spinoza).

In La vita che si vede il poeta non si sottrae alla tirannia delle passioni; non disinveste in emozione, in partecipazione; non rinuncia alla quotidianità che sente la conoscenza come campo in cui si manifesta “affetto umano” e «Tutto il resto è ingannarsi o volere ingannare gli altri. E volere ingannare gli altri per ingannare se stessi. (…)… è il sentimento tragico della vita» (Miguel de Unamuno). Il poeta di Cagliari ha ben presente questa dimensione e la frequenta onorandola con una squisita ricerca lessicale per cui la parola assume connotazione magica o simbolica, cerca la condensazione nel nome quale attestazione, sentire raffinato della natura senza mai sottoporla a dissezione per coglierne i gangli vitali che specchiano i gangli vitali della vita personale, sapendo – leopardianamente – che la natura non può essere piegata alla conoscenza ultima, che tra essa e noi esiste un varco incolmabile, una sporgenza che mostra inquieta presenza: « … E non ti reggerà il corrimano / del ponte e sotto quello, se ti sporgi, / un’acqua insonne balugina in tumulto. » p. 25

È necessario sottolineare che in Sollai la devozione alla parola che possa esprimere il massimo ontologico discende da una condizione che in lui è strutturale, ovvero è la coscienza per cui «La cultura è un linguaggio che unisce l’umanità (…) » (Pavel Florenskij). Ed è per questa ragione che in La vita che si vede si possono avvertire echi di ascendenze importanti, montaliane, e che sono non tanto manifestazioni di devozione al poeta ligure, quanto onere e offerta di una prossimità che scorge e testimonia, nell’affinamento della parola–simbolo, il valore altissimo del nome che ogni volta che si pronuncia «… sei già dentro ogni cosa…» p. 31; nella struttura musicale del verso l’urgenza di una misura aurea che discende da istanza classica «Le amate mani / più non baceranno le mie labbra.» p. 55 e rinnova i ritmi di Foscolo in A Zacinto, poiché il fine di Antonello Sollai è realizzare l’armonia più tersa tra forma e contenuto, la coniugazione del tu con l’io che tuttavia non è nell’ordine esistenziale realizzabile.

Lungo tutta la silloge si ha l’impressione di essere alla presenza di un «pensiero nobile e regale» (James Hillman) –  «Rompe, un canto, il silenzio tra le palme / e cave più non sono le distanze.» p. 18; «E la tua voce chiara sale, alta / sopra l’incendio, là, oltre il miraggio» p. 41, «Ti aspetto / e mi basta del sole / la luce che ricevo sul viso.» p. 61 –; dell’habitus che indulge alla scrittura, una facoltà metacreativa che si pone tra cuore e mente e assomiglia alla himma di Ibn ‘Arabī – «… Come due rami addossati perdemmo libertà / piegandoci insieme sulla stessa fuga. / Non ti rapì il volteggio di falena / sull’orlo del bicchiere ancora vuoto. / E mi lasciasti solo al pensile giardino / con la tua rosa in ascolto tra le dita / che appassirà incolpevole e negata.» p. 35 –: un pensiero del cuore potente, creatore, che dà nascita alle figure dell’immaginazione che non sono invenzioni personali dell’autore, ma «… creature autentiche (che dimorano)… tra le sottigliezze della coscienza e i livelli dell’essere. (…). Questa intelligenza dell’immaginazione risiede nel cuore: l’espressione “intelligenza del cuore” connota l’atto di conoscere e amare simultaneamente per mezzo dell’atto immaginativo.» (James Hillman) esattamente come accade a p. 59

 

La sera forza il passo alle finestre

che ti videro andar via

nei fumi ottobrini tra i castagni.

Sul tavolo ti attendono due versi

marini, confidenti

di quell’avvento chiaro, liturgico

del tuo ritorno.

Sull’orlo smemorato del cristallo

altro tempo è passato,

altre cose sono accadute

sopra le tue labbra.

Sei ombra che dilata il tempo,

colomba che la volpe addenta.

Sei il mio parlare su vetri indifferenti,

sul chiudersi di un giorno che trabocca

nell’afasia degli aceri là fuori.

 

 

Adriana Gloria Marigo

Luino, 5 gennaio 2019

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PRELUDIO Nota critica di Adriana Gloria Marigo

15 venerdì Dic 2017

Posted by LiminaMundi in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Francesca Diano, Patrizia Da Re

 

Chi siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno?

James Hillman, Presenze animali

 

Nella ricca e dettagliata Introduzione a Bestiario, Francesca Diano illustra con attenzione appassionata – potremmo dire con dedizione di calda, devota e gentile familiarità, proprio come accade quando si partecipa con sentimento intimo a vicende che ci riguardano – l’origine, la gestazione, la nascita e infine il lascito culturale ed emozionale di sedici poesie il cui argomento sono gli animali. Dalle pagine necessarie ad accompagnare il lettore nel viaggio dedicato alle “bestie”, Francesca ci immette entro testi che appartengono a quella speciale categoria di libri che nel Medioevo raccontavano di animali reali e immaginari in manoscritti di grande bellezza per le miniature che cesellavano l’opera calligrafica realizzando un’alta significanza estetica e simbolica in quanto il contenuto di ordine morale dei racconti in prosa o in poesia si coniugava con la pazienza amanuense e l’opera pittorica dei miniaturisti. In questa raffinata tradizione che assume in sé archetipi, simboli, metafore, allegorie, che si radica in espressioni artistiche molto lontane dai secoli del Medioevo per cui l’origine remota ci raggiunge carica di fascinazione come un richiamo cui non si può non rispondere, si inserisce il lavoro poetico dell’autrice che ha specchiatura nelle forme e nel colore del lavoro artistico di Patrizia Da Re: animali carichi di pathos – forza contrapposta a logos – connotano tra apollineo e dionisiaco i racconti mitologici della poetessa secondo una tecnica pittorica che elabora il monotipo con pennellate di colore realizzanti un’armonia perfetta tra la parola della poesia e l’immagine della pittura. Possiamo affermare senza tema di smentita che in Bestiario si realizza il concetto oraziano di Ut pictura poësis: tra la parola scritta di Francesca Diano e la visività del dettato pittorico di Patrizia Da Re si manifesta lo speciale matrimonio alchemico di due pensieri immaginali che si riconoscono d’affinità immediata e complementare, e in questo numinoso incontro si avvera l’oggetto concreto del “libro bello” nato dal ponte misterico gettato negli spazi liminari tra conscio e inconscio accogliendo nei modi dell’anima le figure archetipali nella loro vibrazione fortemente eidetica e creativa.

Il mondo, la natura, e nel caso specifico Bestiario con cui la poetessa ci porge la postura mitica degli animali – quelli che dalle profondità del metapensiero dove senza tempo né spazio vivono gli dei, l’hanno raggiunta empaticamente sorgendo da epoche sacre a consegnare messaggi da decriptare, comprensibili a chi conosce il cifrario simbolico e si muove tra gli archetipi riconoscendoli nella loro eternità vivi, pulsanti essenza di creato, di multiverso, e capaci di accendere parole in cui riconoscere la sacralità al contempo chiara e oscura, pervasa da “timor sacro” –, vengono incontro a chi è in relazione analogica con la parola, e in generale con l’altro da sé, nei modi per i quali Jacques Bénigne Bossuet,  in Elevation à Dieux, scrive «Les anges conversaient avec l’homme, en telle forme que Dieu permettait, et sous la figure des animaux. Eve donc, ne fut point surprise d’entendre parler le serpent». (Gli angeli conversavano con l’uomo, nella forma che Dio consentiva, e sotto l’aspetto degli animali. Eva dunque, non fu affatto sorpresa di sentir parlare il serpente).

Tra gli animali carichi di mito, tra la loro presenza pregna, perturbante, evocatrice, suggeritrice e la poetessa, si stabilisce dunque un rapporto privato, una sorta di appartenenza degli uni all’altra secondo un richiamo, un ascolto e infine una risposta che si materializzano nella parola: esattamente come una irrinunciabile e improrogabile necessità, poiché in essa è l’affermazione dell’essenza della realtà che è sempre oltre il visibile, e dunque metafisica. Francesca Diano compie una restituzione: ricevuto il dono eidetico, assunti in sé i fondamentali eterni, li elabora secondo la parola della poesia, la musica che al contempo le è intrinseca ed estrinseca, e costruisce un’opera sapienziale: l’Axis Mundi, ossia la linea che collega ciò che sta al di qua con ciò che sta al di là dell’immaginale e che nella storia delle religioni e delle mitologie è ravvisabile nell’albero cosmico – ma non solo, poiché anche un animale lo simboleggia, come qui testimoniano i versi de Il Serpente dove espressamente è scritto «Sensuale Signore arrotolato/ Lungo l’asse del mondo/ Quetzalcoatl di piume ornato» – sottaciuto, ma implicito in Bestiario, è attorniato dalle ierofanie degli animali che ci collegano al Cielo, alla Terra e agli Inferi.

Le sedici poesie di Bestiario riconoscono il molteplice che gli animali incarnano a livello intellettuale, la presenza dell’ “animale interno”, l’urgenza e l’importanza psicologica di viverlo e integrarlo, poiché nel piano psichico esso è una figura numinosa, dalla quale è vano fuggire come testimoniano i versi de Il Ragno: come un mantra di grazia aerea, giocosa, dichiarano l’impossibilità di esimersi dal legame con gli archetipi, in particolare il Tempo in cui si è immersi e incombe su ciascuno ineffabile:

 

Ragna stellata ragna bigotta

Tessi piviali ma soffri di gotta.

Trova l’incauto in mezzo ai tuoi fili

La fine giusta compenso dei vili.

Ragna lenta, ragna paziente

Il tempo lavora e mai non ti mente.

Sei machiavellica, tu non hai fretta

Vince pur sempre chi tempo aspetta.

Ragna bigotta, ragna stellata

Sei un insettino in vesti di fata

 

Il Tempo è in gran parte il filo conduttore dell’opera: l’autrice sa molto bene che la dimensione eterna è la circolarità sulla quale tutti i momenti inscritti sono congiunti da un innato bisogno di continuità, che la Storia, pur nelle sue incomprensibili sconnessioni o eventi illogici ha corso ineluttabile e che tutto è simbolo e proiezione e che anche gli animali incarnano il dettato simbolico. Ecco dunque che in Bestiario si celebra ciò che Matilde Morrone Mozzi scrive nelle pagine introduttive a Bestiario. Libro degli animali simbolici in C. G. Jung « Nelle mitologie, nei riti, nelle religioni, così come in letteratura e nelle fiabe e nelle leggende, gli animali sono portatori di contenuti che hanno accompagnato l’uomo nel corso della sua storia, formando il massimo sistema simbolico della coscienza umana, dal tempo della preistoria. Da sempre sono stati investiti delle dimensioni affettive, estetiche, poetiche ed oniriche; anche per la psicologia arcaica delle culture di tutto il mondo il divino è in parte animale, e l’animale è in parte divino. (…) Se la nostra vita dipende anche dalla continuità con quanto ci ha preceduto, allora lo sguardo retrospettivo sugli animali ci aiuta a disvelare quelle configurazioni che compaiono ripetutamente e che rimandano a realtà archetipiche », e – in particolare – nei versi de Il Falco dedicati all’assolato mito egizio l’ambiguità delle vicende umane, l’inscindibile compresenza della luce e dell’ombra, la necessaria impossibilità di uscire dalla polarità, poiché questa è tensione propulsiva al superamento di ciò che è immanente.

 

Dalle sabbie ardenti

Horus Potente per il suo Cuore

Dio falco dalle pietre venerato

Artiglia i secoli roventi.

Cavaliere solerte dell’aria

Anima doppia dell’Inca – Inti

Forte potente nobile bello

Figlio del Sole in forma d’uccello.

Alla tua immagine si riconduce

Colui che dalle tenebre invoca la luce

 

I versi della prima poesia L’Ape, ma anche i già citati de Il Ragno, si collocano – per la loro sonorità in stretto rapporto con il contenuto simbolico – entro ciò che Elémire Zolla esprime in Le potenze dell’anima. « La catena metaforica del respiro si avverte dunque al suono stesso delle parole, essa vive anche nella loro etimologia. Ed è a questa catena che si connette quell’insieme di movimenti interiori e invisibili dell’uomo il quale costituisce l’anima e l’animo e lo spirito. (…) Oltre a questa catena l’interiorità si può connettere a quella, appunto, di “ciò che sta all’interno” e designarsi come intimità, appunto, o nocciolo, o cuore».

La particolarità dei bestiari, fin dai più antichi, come l’opera  greca Physiologus, che degli animali e delle loro caratteristiche dava una interpretazione di ordine simbolico e religioso, testimonia «l’idea che gli animali simbolici stabiliscano un duplice accostamento: l’uno con le nostre radici, aprendo uno spiraglio sulla prospettiva mitica; l’altro con noi stessi, perché essi sono della stessa natura del sogno» (Matilde Morrone Mozzi). A questo carattere composito di presenza accompagnante e onirica, sono dedicati i versi de Il Cane: « Custode dei morti, compagno di veglie», ma tutte le poesie attestano la valenza di animali custodi investiti dal genius ora benefico, ora malefico così che transitiamo nella scena diurna  e notturna dove agiscono destino e custode.

Il dettato di Bestiario ha valenza poetica e concettuale sapienziale: gli animali che hanno ispirato come insufflando il loro spirito entro quello della poetessa sono le immagini che popolano la psiche e agiscono nell’anima producendo le azioni che costruiscono la vita e l’acquisizione del sapere nella complessità del volto con cui si mostra il visibile e l’invisibile, la loro coesistenza, come è scritto ne Il Cavallo

 

Nel mito Poseidon ti diede la vita

E Demetra fu una giumenta screziata.

Re Marco, possente stallone

Galoppava sulla spiaggia iridata.

Cavallo pallido, cavallo nero

Fantasmi voraci e tremendi

Col demone Kelpie la notte tracciate

Archi selvaggi a falcate roventi.

Potente signore che regna la notte

Dall’occhio umido, dal pelo caldo

Simbolo orfico di conoscenza

E di rinascita dal cuore saldo

 

La bellezza complessa del contenuto, che rivela la natura orfica del mito, lo spettro luminoso dei suoi numerosi corollari è la riva in cui confluiscono le assonanze dell’elegante fattura del verso che nella leggerezza ora aerea, ora terrestre, ora equorea, ora ignea, segue la flessuosità del mondo immaginifico germogliando ritmi e suggestioni capaci di ricordare ora l’invocazione – Lo Scarabeo –, ora la salmodia  – La Lumaca, Il Ragno – per cui potremmo ricordare con Ippolito Nievo che «le salmodie sacre con quel loro tenore mesto e solenne hanno sempre commossa l’anima mia», ora  l’inno – L’Ape, Il Cane, Il Gallo –, ora il semplice e icastico ritratto en plein air de Il Corvo

 

A novembre, sui prati secchi

Saltellano torme di corvi

Neri principi dell’inverno

Sotterranei signori torvi.

Demiurghi oscuri della rinascita

Sottili signori dell’aria

Formule alchemiche della materia

Che dal mondo dei morti s’irradia

 

 

                                                                                                                          Adriana Gloria Marigo

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