Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di
GIANPAOLO MASTROPASQUA
Introduzione e poesie tratte dall’introvabile DANZAS DE AMOR Y DUENDE (Editorial Enkuadres, edizione bilingue a cura di Julio Pavanetti y Francesca Corrias – fotografia di Dana De Luca, Valencia, prefazione di Luis Miguel Rubio Domingo, 2016)
ANTICHISSIMO E FUTURO AMORE
Amare è fermare il rumore del tempo, distendersi, fingersi morti nell’erba di una millimetrica nascita, porgere l’orecchio alla terra per ascoltare il battito del cuore del mondo, per sentire il soffio della profezia delle primavere e il grido di tutti i dispersi, all’unisono. Rialzarsi, innalzarsi a stento come neonati con l’attinta consapevolezza negli occhi e una nuova lingua da combattimento per rubare il frammento di futuro prima che diventi annuncio di maceria. L’uomo che sopravvivrà alla storia sarà l’uomo dal linguaggio ultimo, primordiale, l’uomo che avrà attraversato l’ustione dell’epoca rimanendone marchiato e indenne. Egli fonderà una nuova lingua, rapida come le nuvole, profonda come un oceano, danzante come una danza. Un essere che è ragazzo e abisso, poesia incarnata di alfabeti estremi, destino e duende. Egli sarà pontefice dall’uno all’altro da sé. Egli sarà poesia, egli sarà poesia perché non sarà più egli, sarà risonanza universale con l’anima degli uomini che hanno l’anima. Essere in poesia è penetrare l’oltrefemmina per entrare nel suo più intimo abbacinante segreto, amandola con tutto il corpo fino a perderlo, domando la materia fisica e metafisica anche a rischio di sprofondare interamente nei suoi lidi quintessenziali, anche a costo di farsi divorare intero dalla sua fame arcaica. Giungere dunque, dove nessun altro è giunto, per allenarsi nella sua vertigine più numinosa, nel suo limbo più inaudito. Salire, risalire folle e sacro, atleta dell’ignoto nei piani dell’esistenza, per fuoriuscire olimpico, novella di massimi sensi, dinastia di ultime labbra. Essere il suo amante assoluto per essere il definitivo amore. L’unico a cui pur dettando ordini nuovi lei obbedisce costretta nel giogo di forze, nel campo stremato delle grammatiche dove ogni silenzio è una gravidanza, dove il suo letto d’inchiostro e biancofoglio è un regno trasformante, un patto metamorfico. Divenire, attraversando quelle lande mirabili e urlanti per essere il suo strumento sonoro e corporeo, la sua lingua traducente, il suo oltrepoeta. Tu, solo nel fuoco dell’essere libero, solo non temendo di scomparire vivo o riemergere morto tra le sue spire ancestrali potrai essere, solo non temendo la solitudine o l’isolamento dalla superficie del visibile lei potrà amarti e donarti il primo verso nell’arsi di un colpo d’ali spezzate. Non ci sono altre vie, altrimenti non esiterebbe un solo istante a divorarti, abbandonarti o tradirti e scomparire per l’eternità. Io che non sono io non scrivo per gli uomini, io scrivo per gli déi.
GGM – Siviglia, Via Alvarez Quintero 44, Venerdì 12 dicembre 2008
Labbra di Maiorca
Se non fossi pura come il nettare
delle ninfe terrestri, affamata
come la luna che divora i raggi
delle notti bianche, risveglierei l’alba
in un corpo d’acque semplici,
invece tu lama nel petto vibrante
accarezzi le corde più inaudite
del vento lirico, soffi nelle vene
con le tue dita d’arpa corrente
generi pianeti, occhi felici,
passaggi celesti, furie perdute
in taciturni di sguardi audaci
e poi baci sull’anima tremula
fino al tramonto irraggiungibile
dei sensi viandanti, sei il calice
ricolmo di primavere dove attingo
foreste di notturni e sillabe verdifoglia,
sei terra o volo dove voglio distendermi
e rotolarmi poema nudo della pioggia
per addormentarmi tra le lenzuola intime
del tuo sudore, con la faccia nel raccolto
dei tuoi monti negromanti lucidi
tu dell’universo il buio.
Ora catalana
Facemmo sogni definitivi e volgari
come figli o feti dalle vetrate
alzammo mondi circolari, tombe
a orologeria, genocidi apparenti
con mani predisposte o pazienti
come ladri vani, con case curate
fino al furto, fino alle rate.
E il mio amore giocherà a carte
con la morte, senza barare
tra le bare, amore amore
cosa rubo se non il tuo nome?
Ci stenderemo nel fiato delle strade
nelle volte delle chiese che respirano
nella quiete catenaria, come minerali,
come michelangeli d’aria tra le arcate
tra i colori monumentali di una specie
con le finestre più nere della pece.
Lamento della musa innamorata
Tu non sei fatto come un poeta,
mi prendi a calci, all’angelo
hai strappato le ali, tu vivi con i falchi,
della Grecia possiedi il corpo
senza fare nulla, e il sangue selvatico
dell’impero, occidentale e furia
tu non nasci nei cimiteri impolverati
e non hai dèi, né padri, né madri
giungi dalle strade tra i sud e la polvere
ora per riposarti vieni, in battaglia
come un capriccio nel mio letto
e mi fai fuoco con la tua fame di canti
mi prepari cospargendomi di aromi
e incensi, mi fai lucida, un altare
serri le vie di fuga con il tuo corpo
a corpo, mi uccidi di bianco
per farmi rinascere, senza tregua
e danzi perché danzino i millenni
nel mio ventre, ti fai spazio, paesaggio
e pietra, campanile, cappella, guglia
tu ripeti le architetture fino a Dio
volteggiando nelle cose, fai pioggia
col tuo duende, dissemini gli antenati
con il tuo battere oscuro, entri adulto
e non hai mai avuto paura del buio
tu non parli, hai una lingua ignota
vuoi scrivermi, mi apri libro e muori dentro.
Benedetta
In te si chiude la giovinezza come un libro
tra le palpebre dell’ultima pagina
mentre danzi perfetta e folle
con tutte le lettere degli alfabeti
e doni la scienza inconoscibile
della profezia, a queste mani
che devono tradurre presto
o morire, perché non sono più mani
e non più sono all’altezza di colpire
la luce, nel punto estinto dove la mente
diviene colpo di coda, arto, atto.
E tu non comprendi l’amore delle pareti
perché sei la casa dell’essere
la domanda abitata da tutte le risposte
come una figlia in gravidanza che ride,
sei tu la ferita da cui nacque il mondo
tu atomica e acerba, tu sei benedetta.
Karmica
Tu sei la mia anima e mi tocca
vivere senza, come una tomba
che cammina, un vizio vuoto.
Tu sei il mio corpo illuminato
e ora spento, nel sudario del letto.
Vago senza pupille nell’estate autunnale
nella schizofrenia delle stagioni
come una foglia volata
tra i piedi di Dio. Dove sono
i tuoi occhi neri e le dita rituali
che mi cullavano fino all’estasi?
Nessuna creatura comprenderà mai
i tuoi cento travestimenti, il respiro,
la strage dell’amore e del dolore
a ore, in quale celeste cantano
la tua voce di violino in fiamme?
Ritorno ogni resurrezione
al cimitero, raccolgo un fiore
di vento per Amelia e attendo il bacio
marziale, quel tocco illimitato
nel punto sciolto dove giace l’uomo
il cui nome fu scritto nell’acqua.
(Roma, Cimitero Acattolico)