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In copertina “Asemic” di Stefania Onidi

Il bianco è un colore acromatico caratterizzato da elevata luminosità ed è dato dalla sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile. Non a caso, in “Archivio del Bianco” di Stefania Onidi, silloge uscita per i tipi Terra d’ulivi Edizioni, il colore ricorre molto frequentemente in tutte le sue gamme: rosso, pece, rosa, verde metallo, nero, scala dei grigi, ocra, azzurro, verde, giallo; allo stesso modo è ricorrente anche il lessico specialistico dell’arte, evidente nel titolo stesso delle sezioni “campiture”, “tele e armature” con l’utilizzo di termini specifici come modulo classico, chiaroscuro, prospettiva. Onidi infatti da sempre affianca all’attività poetica quella pittorica.

Il termine “archivio” fa pensare ad una raccolta sistematica e ordinata di storie, sensazioni, esperienze, che, ben raccolti e catalogati, possono essere più facilmente conservati e riutilizzati. La poesia, fin dai primi versi, appare suggestiva, elegante, vi si avvertono la cura e l’attenzione al dettaglio e all’equilibrio dei versi eppure è poesia che si sente, si tocca, si vede. Educa ad avere una visione pura sul niente, a mettersi in ascolto del silenzio che ingombra e che pesa; è poesia che rileva l’assenza, la perdita, il gesto mancato. Il senso probabilmente è da ricercarsi nel corpo, nelle relazioni con il mondo circostante e nella risonanza dei sensi e delle sensazioni. Corpo dunque che si offre in sacrificio, privo di calore come un involucro sfiatato, corpo che, tra scavi e innesti, ritorna alla sua concretezza, nonostante assenze, mancanze, distrazioni, delusioni, ferite. Gli stessi titoli delle altre sezioni, per un totale di cinque, sono “dentro e fuori”, “a margine”, “germogli e  rivoluzioni”, rimandano al rapporto tra dentro e fuori di sé, esprimono una dicotomia che vorrebbe riconciliare i contrari. Ci sono luoghi, a volte concreti a volte indistinti, oggetti, finestre, pareti, foto, divani, tazze, che diventano estensioni di se stessi. La poetessa osserva il mondo, percepisce eventi e fenomeni, poi, con lucidità di visione, coglie il presente e lo intreccia a riflessioni intimiste procedendo per sottrazione e per omissioni. I versi appaiono lapidari, minimali, incisivi come didascalie di fotogrammi in successione, le parole emergono e campeggiano nello spazio bianco della pagina, mentre tessono una fitta relazione di significati e trame di senso. Compare anche a sprazzi l’urgenza necessaria di una metafisica, di un cielo che è percepito come vicinissimo, Percuote il mio rosso / un vicinissimo cielo o ancora Desideravamo il paradosso / del miracolo, scrive Onidi. Il desiderio è anche quello di vivere l’oggi, il presente, quando scrive Vorrei vivere usando il presente indicativo, mentre si cerca di non soccombere, dal momento che manchiamo il bersaglio tutti i giorni. Percorre l’intera silloge un senso di vuoto e di solitudine mentre si intuisce la crudeltà del tempo nelle espressioni Le consegne del tempo sono puntuali, tempo avverso che non accontenta mai nessuno. Metafore, personificazioni e intarsi visivi sono disseminati per tutta la silloge, forse vorrebbero curare la disarmonia del vivere, rendere meno freddi i sentimenti e più efficaci le parole. Per sopravvivere potremmo dunque riciclare i ricordi, programmare l’evasione, tentare il nostro giro di luce, schiuderci, per guarire nel solco di una gioia antica.

 

Deborah Mega

*

Dettagli
 
 
 
Il cielo s’incurva ancora
 
polvere ovunque.
 
Tu che accadi tra le cinque e le sei.
 
La tua voce non è più le tue parole.
 
Mentre ti ascolto vedo la tua bocca
 
lago di carne
 
paesaggio del nord bianco aperto.
 
Prendi questo mio corpo, volevo dirti.
 
 
 
 
*
 
Almeno si potesse non pensarci
 
sottoporsi ad anestesie pesanti
 
non soccombere nel frattempo.
 
Nel sonno nascondersi
 
tenere lo scenario brillante
 
tentare il nostro giro di luce.
 
 
 
 
*
 
Alla fine si negano gli occhi
 
la scena si svuota
 
lei non ha un odore
 
rivestendosi si copre il seno con un braccio.
 
Lui invece è un feto.
 
Loro non si riproducono.
 
Nel cortile interno fingono.
 
 
 
Qui manchiamo il bersaglio tutti i giorni.
 
La tivù dei vicini ci dà in pasto al silenzio.
 
 
 
*
 
Clean
 
 
 
 
Poi si lava le mani nel lavello dello studio.
 
Aspetti sul lettino
 
di ferro e non ti rivesti
 
perché guardi il rubinetto il camice e il gettito moderato dell’acqua contro il bianco
 
della stanza
 
prima delle parole. E non vuoi parole.
 
 
 
Da piccoli quando si ama la neve non si pensa al freddo
 
si educa a questo sguardo puro
 
sul niente.
 
 
 
 
*
 
È andato via
 
si dice di uno quando è morto.
 
 
 
È andato via senza pensare ai vestiti
 
non ha chiuso valigie
 
non ha scelto mezzi
 
nemmeno i suoi piedi.
 
 
 
Gli altri a volte si spartiscono la roba.
 
Aprono stanze
 
nelle stanze armadi
 
negli armadi cassetti
 
scatole.
 
Con le mani abbassano le palpebre.
 
Parlano al buio, riscrivono la scena finale.
 
 
 
Rimbomba il saluto che non hanno dato.
 
 
 
*
 
 
Obitus
 
 
 
 
La stanza rigettava il peso
 
del silenzio sulle nostre pupille.
 
Desideravamo il paradosso
 
del miracolo: il tuo sorriso con qualche anno in meno.
 
Dentro la cassa eri bambola di Marie Tussaud
 
viso incapace lontano dalla carne
 
corpo definitivo nelle nostre storie.
 
Mentre alitavo nelle tue mani un bacio
 
il ragazzo cinese abbassava le serrande
 
qualcuno immortalava il cielo di Milano.
 
 
 
*
 
Flos Silens
 
 
 
 
Sono giorni di ginestre aperte,
 
api e febbre
 
finestre al sole
 
fiducia (silente)
 
piedi nudi e gatti che fanno l’amore.
 
Tutto procede con gioia ferma.
 
 
 
Mi allineo al passo vulnerabile del giallo.
 
 
 
Stefania Onidi
 
da Archivio del bianco (Terra d’ulivi edizioni, 2020)