Nei primissimi anni ’80 del secolo scorso venni invitata dal Comune di Porto Empedocle, mio luogo di origine, a partecipare come “giovane poetessa” ad un convegno letterario che radunava alcuni degli autori del territorio agrigentino. Mi ritrovai dunque in un contesto di personalità della cultura non solo siciliana ma di carattere nazionale fra cui Antonino Cremona, Federico Hoefer, Alfonso Gaglio, Andrea Camilleri e Leonardo Sciascia. Di Hoefer e Camilleri, quest’ultimo non ancora nel solco del successo dovuto alla serie montalbaniana, conoscevo qualcosa, essendo stati entrambi amici di gioventù dei fratelli di mia madre, gli altri mi erano pressoché ignoti, salvo Sciascia di cui avevo letto Il giorno della civetta e qualche altro titolo. Di lui ho un ricordo visivo vago, in particolare un mezzo sorriso fra l’ironico e il compiaciuto. Timida e alle prime armi nel campo della scrittura, non osai interloquire con nessuno di loro, in seguito ebbi modo di presentare a Palermo sia Hoefer, col quale si stabilì una bella amicizia, sia Camilleri, che al contrario non ebbi più modo di incontrare. Di Leonardo Sciascia continuai a leggere molti altri libri, con un interesse sempre maggiore ma in difficoltà nell’inquadrare la sua opera in una categoria letteraria, fin quando non giunsi alla lettura di La Sicilia come metafora, un libro-intervista della giornalista francese Marcelle Padovani, che mette a fuoco la persona e l’opera sciasciana. Ma chi è Leonardo Sciascia?
“Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia-Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva preso da sua madre insieme agli occhi azzurri, mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire «velo del capo». Una volta, il console di Libia a Palermo mi ha detto che, per indicare un’amicizia strettissima, nel suo paese si parla di «due teste in una stessa sciascia”.
Nato a Racalmuto, paese dell’agrigentino, si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove il padre inizia a lavorare come amministratore in una zolfara nissena. Frequenta il corso magistrale dove insegna Vitaliano Brancati, suo professore e primo riferimento culturale, consegue il diploma e inizia ad insegnare.
“Il pomeriggio lo passavo da uno zio sarto. Per apprendere il mestiere. Il mio trasferimento a Caltanissetta fu casuale. Se mio padre non avesse avuto il posto ad Assoro, non ci saremmo trasferiti a Caltanissetta. È stata una fatalità che ha inciso molto sul mio destino. Se fossimo rimasti a Racalmuto, io avrei fatto il sarto.”
Per fortuna delle patrie lettere la vita di Leonardo Sciascia ebbe diversa sorte. Per tutta la seconda metà del Novecento fu lo scrittore che attraversò la storia civile italiana, con le sue opere segnò l’inizio di quella letteratura che metteva il dito nella piaga del sistema mafioso la cui struttura si era insediata anche nell’apparato politico. La sua non fu denuncia, ma analisi lucida e impietosa della connivenza tra Stato e potere illegale, esercitata fin dal regno borbonico. Da uomo attento e analitico, lo scrittore è consapevole della difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di giungere alla realizzazione di un perfetto sistema politico e sociale, tuttavia ritiene un dovere vivere e lottare perché questo possa essere raggiunto.
“Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: «Ha contraddetto e si è contraddetto», come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante «anime morte», a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano.”
Riferendosi al ruolo dell’intellettuale, Sciascia sostenne che in Sicilia gli intellettuali costituiscono un corpo estraneo che il tessuto sociale rigetta in quanto rappresentano la coscienza del passato e la preoccupazione per l’avvenire.
“C’è stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e poco alla volta non mi sono più sentito siciliano, o meglio, non più solamente siciliano. Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia, e che continua a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno. Date queste condizioni, sono ancora uno scrittore siciliano? E che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.”
Scettico e talvolta amaro, per lo scrittore racalmutese il cammino della Sicilia è stato sempre un percorso difficile ancorché illuminato da grandi civiltà e da importanti tradizioni etnico-culturali che non ne hanno purtroppo cancellato la connotazione di terra di conquista. E coglie una lancinante verità nell’affermare che il fasto lasciato come retaggio dagli spagnoli ai siciliani, che continuano a praticarlo, gli uni lo vivevano da padroni, gli altri da schiavi. Alcune delle tante considerazioni e prese di posizione di Sciascia suscitarono a suo tempo aspre critiche e pungenti polemiche, soprattutto dopo che egli scese in politica, prima con il PCI di Achille Occhetto, dal quale diede le dimissioni perché contrario al “compromesso storico”, e dopo con il Partito Radicale, in seno al quale fu eletto alla Camera dei Deputati. Dopo la pubblicazione de L’affaire Moro le polemiche si moltiplicarono. Nel suo pamphlet Sciascia lascia trasparire il suo dissenso per come si era concluso il tragico rapimento di Aldo Moro, addossandone implicitamente la colpa all’apparato dello Stato che non aveva acconsentito a trattarne il rilascio. Egli smonta la tesi che era stata adottata dall’establishment politico, secondo la quale le lettere che il sequestrato scriveva pregando di cedere alle richieste dei terroristi erano dettate da uno stato di offuscamento mentale derivato dalla carcerazione, e lascia trasparire la propria posizione di dissenso. Quando si apre la tragica stagione degli omicidi di stato per mano mafiosa è ancora lui che sferra attacchi contro il sistema del “pentitismo”, non ritenendo etico “premiare”, a fronte di una testimonianza accusatoria, chi si era materialmente reso colpevole di uccisioni e stragi. Da una parte il rifiuto della violenza, dall’altra una costante critica al potere costituito e ai suoi segreti inconfessabili. Furono atteggiamenti che gli alienarono parte dei consensi, ma la sua presenza letteraria non ne rimase offuscata e le sue opere continuarono ad essere apprezzate fin oltre oceano.
“Considero il potere, non già alcunché di diabolico, ma di ottuso e avversario della libertà dell’uomo. Sono tuttavia indotto a lottare perché, all’interno del potere, si abbiano ricambi, possibilità di “alternative”, novità, una migliore organizzazione della giustizia, una libertà sempre più ampia, ragion per cui mi impegno quando c’è una battaglia da combattere. Mi rendo perfettamente conto di essere animato da un certo spirito di contraddizione, ma so che ogni essere umano che esercita un’attività intellettuale non può non esserne animato.”
La bibliografia di Leonardo Sciascia è sterminata, egli ha scritto di tutto: poesie, racconti, romanzi, saggi, teatro, pamphlet, aforismi, articoli giornalistici, e curatela di volumi collettanei e monografici per grandi case editrici italiane. Ho letto recentemente che la sua linea letteraria è stata definita Realismo critico. Non so quanto questa definizione possa essere adeguata, forse è ancora troppo presto per le etichette di “corrente”, o più verosimilmente la sua opera sfugge a ogni precisa categoria letteraria, mantenendo una sua propria identità che assomma la lezione pirandelliana e l’illuminismo volterriano. Ma possiamo affermare che dal suo magistero sono stati certamente influenzati due altri grandi scrittori siciliani, Andrea Camilleri e Gesualdo Bufalino, l’uno per la felice creazione del commissario Montalbano, spigoloso e ironico, l’altro per le risonanze barocche della sua scrittura. Amato e odiato, apprezzato e criticato, con la sua presenza e con la sua opera Leonardo Sciascia ha segnato tutta la seconda parte del secolo ventesimo lasciando un’impronta indelebile.
Anna Maria Bonfiglio
Nota – Le parti in corsivo sono tratte da “La Sicilia come metafora”, intervista a Leonardo Sciascia di Marcelle Padovani, Mondadori 1979
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