Fernando Lena nasce nel 1969 a Comiso, nella provincia di Ragusa, dove frequenta l’Istituto d’Arte e si diploma con la specializzazione di orafo per la produzione di gioielli. Appassionato di musica, inizia a scrivere negli anni ’80 testi di genere pop adottati e adattati da alcune band di amici, il suo primo “ispiratore” è quel genio ribelle e talentuoso di Jim Morrison dal quale Lena mutua la scrittura allucinata e metaforica. A Comiso ha l’opportunità di frequentare la fondazione creata da Gesualdo Bufalino, il quale lo spinge a pubblicare e lo indirizza alla lettura dei maggiori poeti. Per le edizioni Archilibri pubblica la sua prima plaquette ispirata da otto dipinti di Piero Guccione cui fa seguito il libro “Nel rigore di una memoria infetta” dal quale viene tratto lo spettacolo itinerante “La smorfia crudele di un bambino”. Risultato finalista al Premio Astrolabio, pubblica per la nota collana i Quaderni dell’Ussero il poemetto “La quiete dei respiri fondati”. Si tratta di una breve e intensa silloge i cui testi raccontano il dolore di alcune creature relegate nel manicomio criminale di Aversa. Qui la voce del poeta è nitida, velata dalla pietas e al contempo vibrante di rabbia per “l’indifferenza civile” che circonda quel luogo e i suoi abitanti: “da qui già si sente/l’odore estremo dell’emarginazione,/le mie vene lo conoscono/come conoscono l’alito dei cadaveri/mai del tutto seppelliti dall’indifferenza civile.” Nelle poesie che compongono il poemetto “Sette giorni per amarti -Andata e Ritorno” lo sguardo del poeta coglie la meraviglia di una conoscenza inaspettata, un incontro che fa fiorire il desiderio di vita e di amore in un contesto ambientale ben lontano dalla claustrofobica atmosfera di Aversa; i versi si sciolgono tra notte e giorno, cielo e mare, sole e luna, un quadro semantico che agglùtina elementi della natura e sentimenti umani, coloriture mediterranee e stati d’animo umbratili, nel racconto di un incontro e di un addio.
In questa recente raccolta, Black Sicily, Lena dimostra di avere maturato un’evoluzione sviluppando un corpo poetico che non attinge né alla dissoluzione dei poeti maudits né alla trasgressione dei poeti del post modernismo, direi piuttosto che le corde principali del suo registro siano ancora una volta il senso della umana pietà e la nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. Il discorso poetico si articola in due direzioni, il presente e il passato, collegate da un invisibile filo che le ricompone in un unicum di dolente costrizione, il dialogo in assenza con il padre perduto si raccorda con la realtà vissuta nel presente dal figlio, un nodo che diviene ragione per prendere coscienza del male del mondo. Quante accezioni possiamo cogliere nell’aggettivo black, nero? Oscuro, malvagio, demoniaco, luttuoso… nero è il colore della perdita, nero il rimpianto, anche il ricordo può essere nero se porta con sé la consapevolezza di avere oscurato una parte di vita, nera è la terra che respinge, esilia. Con questo testo Lena aggiunge dolore al dolore ma lo fa con una coscienza nuova, accordando la sua cifra stilistica su una più “felice” risoluzione.
Anna Maria Bonfiglio
I due abeti davanti casa
sono tutto quel che è rimasto
del tuo desiderio di padre,
li hai voluti piantare alla mia nascita
e ora sono quasi cinquant’anni
che non perdono un giorno d’ossigeno
mentre io di fiato ne ho perso
correndo in direzioni mai soleggiate,
ma al buio ahimè ci si abitua
per quel destino da talpa,
ma più che sottoterra
è stato sotto la pelle
che ho cercato a fondo un mondo
tenuto assieme dalle cicatrici.
*
V
(qualcosa di radicale)
Questi, sono giorni aperti
alla luce della sera
come occhi velati di tapparelle
perché anche il freddo
è un pensiero che arriva dal mare,
davanti a te stamattina
qualcuno si scalda di noia,
tu apri il giornale e leggi
del figlio del muratore albanese
saltato in aria in cantina
mentre distillava grappa,
la potenza etilica ahimè
ha un qualcosa di radicale
non arma ma manda in pezzi
ogni vocazione di realtà.
*
VI
(appunti per un congedo)
Nella camera dell’ospedale
la sera giocavamo a carte
a lui sanguinavano le gengive
mentre mi diceva che era tutta colpa
di quel suo mestiere da carrozziere
si era avvelenato così l’unico organo
che avrebbe fatto chiarezza
su un futuro che sapeva di non avere,
però a carte era un Dio
mescolava il sangue del cielo
con il suo e il tempo sembrava
meno terminale di quanto non fosse
in un uomo che stava per morire.
Il tempo questa certezza
che ti lascia opaco
quando il sole si spegne
nel black out del respiro.
*
XIV
(Ipercoop)
Qualche volta devastato dal calore
ami fermarti in uno di quei centri commerciali
a misurare la solitudine su uno
di quegli scaffali, eppure quel cercare
non allunga il tempo del tuo
vanificare i vizi alle ghiandole,
tra fegato e pancreas ahimè
lo scirocco arriva sempre così
come un tumore araldico
e all’improvviso è nel luogo
in cui stai morendo di una morte in affitto.
*
XXV
Il silenzio è tragico
da queste parti in inverno
e gli agguati non sono
soltanto esplosioni di balistica,
sangue cieco, ma anche
piccole stanze che non odorano
di voci, di mosche stordite
incapaci di un atterraggio,
e intanto pensi
a come pensare qualcosa
di illuminato ti schiarisca
bene questo essere
un paroliere delle tenebre,
un killer di primavere.
*
XXVIII
(treni)
I treni avevano infinite voci
abbandonate in uno scalo,
e qualche volta ci dormivi
pure con quei clochard
disorientati come quel ragazzo
che aveva attraversato una lingua di mare
per rimanere con quell’accento
del piccolo marinaio naufragato nell’LSD.
Oceani e oceani di mostri
dalla parola dilatata
mentre il tuo continente
era un precipizio di caos.
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