
Maria Grazia Galatà ha rivolto l’invito a Fernando Lena che l’ha interpretato come segue.
Grazie infinite a Fernando

Breve manifesto di una vocazione
Continua a leggere26 mercoledì Ott 2022
Posted LETTERATURA E POESIA, Una vita in scrittura
in≈ Commenti disabilitati su Una vita in scrittura: Fernando Lena
Maria Grazia Galatà ha rivolto l’invito a Fernando Lena che l’ha interpretato come segue.
Grazie infinite a Fernando
Breve manifesto di una vocazione
Continua a leggere15 mercoledì Set 2021
Posted Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Recensioni
in≈ Commenti disabilitati su Fernando Lena, “Black Sicily”, Edizioni Arcipelago Itaca, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.
Fernando Lena nasce nel 1969 a Comiso, nella provincia di Ragusa, dove frequenta l’Istituto d’Arte e si diploma con la specializzazione di orafo per la produzione di gioielli. Appassionato di musica, inizia a scrivere negli anni ’80 testi di genere pop adottati e adattati da alcune band di amici, il suo primo “ispiratore” è quel genio ribelle e talentuoso di Jim Morrison dal quale Lena mutua la scrittura allucinata e metaforica. A Comiso ha l’opportunità di frequentare la fondazione creata da Gesualdo Bufalino, il quale lo spinge a pubblicare e lo indirizza alla lettura dei maggiori poeti. Per le edizioni Archilibri pubblica la sua prima plaquette ispirata da otto dipinti di Piero Guccione cui fa seguito il libro “Nel rigore di una memoria infetta” dal quale viene tratto lo spettacolo itinerante “La smorfia crudele di un bambino”. Risultato finalista al Premio Astrolabio, pubblica per la nota collana i Quaderni dell’Ussero il poemetto “La quiete dei respiri fondati”. Si tratta di una breve e intensa silloge i cui testi raccontano il dolore di alcune creature relegate nel manicomio criminale di Aversa. Qui la voce del poeta è nitida, velata dalla pietas e al contempo vibrante di rabbia per “l’indifferenza civile” che circonda quel luogo e i suoi abitanti: “da qui già si sente/l’odore estremo dell’emarginazione,/le mie vene lo conoscono/come conoscono l’alito dei cadaveri/mai del tutto seppelliti dall’indifferenza civile.” Nelle poesie che compongono il poemetto “Sette giorni per amarti -Andata e Ritorno” lo sguardo del poeta coglie la meraviglia di una conoscenza inaspettata, un incontro che fa fiorire il desiderio di vita e di amore in un contesto ambientale ben lontano dalla claustrofobica atmosfera di Aversa; i versi si sciolgono tra notte e giorno, cielo e mare, sole e luna, un quadro semantico che agglùtina elementi della natura e sentimenti umani, coloriture mediterranee e stati d’animo umbratili, nel racconto di un incontro e di un addio.
In questa recente raccolta, Black Sicily, Lena dimostra di avere maturato un’evoluzione sviluppando un corpo poetico che non attinge né alla dissoluzione dei poeti maudits né alla trasgressione dei poeti del post modernismo, direi piuttosto che le corde principali del suo registro siano ancora una volta il senso della umana pietà e la nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. Il discorso poetico si articola in due direzioni, il presente e il passato, collegate da un invisibile filo che le ricompone in un unicum di dolente costrizione, il dialogo in assenza con il padre perduto si raccorda con la realtà vissuta nel presente dal figlio, un nodo che diviene ragione per prendere coscienza del male del mondo. Quante accezioni possiamo cogliere nell’aggettivo black, nero? Oscuro, malvagio, demoniaco, luttuoso… nero è il colore della perdita, nero il rimpianto, anche il ricordo può essere nero se porta con sé la consapevolezza di avere oscurato una parte di vita, nera è la terra che respinge, esilia. Con questo testo Lena aggiunge dolore al dolore ma lo fa con una coscienza nuova, accordando la sua cifra stilistica su una più “felice” risoluzione.
Anna Maria Bonfiglio
I due abeti davanti casa
sono tutto quel che è rimasto
del tuo desiderio di padre,
li hai voluti piantare alla mia nascita
e ora sono quasi cinquant’anni
che non perdono un giorno d’ossigeno
mentre io di fiato ne ho perso
correndo in direzioni mai soleggiate,
ma al buio ahimè ci si abitua
per quel destino da talpa,
ma più che sottoterra
è stato sotto la pelle
che ho cercato a fondo un mondo
tenuto assieme dalle cicatrici.
*
V
(qualcosa di radicale)
Questi, sono giorni aperti
alla luce della sera
come occhi velati di tapparelle
perché anche il freddo
è un pensiero che arriva dal mare,
davanti a te stamattina
qualcuno si scalda di noia,
tu apri il giornale e leggi
del figlio del muratore albanese
saltato in aria in cantina
mentre distillava grappa,
la potenza etilica ahimè
ha un qualcosa di radicale
non arma ma manda in pezzi
ogni vocazione di realtà.
*
VI
(appunti per un congedo)
Nella camera dell’ospedale
la sera giocavamo a carte
a lui sanguinavano le gengive
mentre mi diceva che era tutta colpa
di quel suo mestiere da carrozziere
si era avvelenato così l’unico organo
che avrebbe fatto chiarezza
su un futuro che sapeva di non avere,
però a carte era un Dio
mescolava il sangue del cielo
con il suo e il tempo sembrava
meno terminale di quanto non fosse
in un uomo che stava per morire.
Il tempo questa certezza
che ti lascia opaco
quando il sole si spegne
nel black out del respiro.
*
XIV
(Ipercoop)
Qualche volta devastato dal calore
ami fermarti in uno di quei centri commerciali
a misurare la solitudine su uno
di quegli scaffali, eppure quel cercare
non allunga il tempo del tuo
vanificare i vizi alle ghiandole,
tra fegato e pancreas ahimè
lo scirocco arriva sempre così
come un tumore araldico
e all’improvviso è nel luogo
in cui stai morendo di una morte in affitto.
*
XXV
Il silenzio è tragico
da queste parti in inverno
e gli agguati non sono
soltanto esplosioni di balistica,
sangue cieco, ma anche
piccole stanze che non odorano
di voci, di mosche stordite
incapaci di un atterraggio,
e intanto pensi
a come pensare qualcosa
di illuminato ti schiarisca
bene questo essere
un paroliere delle tenebre,
un killer di primavere.
*
XXVIII
(treni)
I treni avevano infinite voci
abbandonate in uno scalo,
e qualche volta ci dormivi
pure con quei clochard
disorientati come quel ragazzo
che aveva attraversato una lingua di mare
per rimanere con quell’accento
del piccolo marinaio naufragato nell’LSD.
Oceani e oceani di mostri
dalla parola dilatata
mentre il tuo continente
era un precipizio di caos.
22 lunedì Apr 2019
Posted Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Poesie, Recensioni
in≈ Commenti disabilitati su Nota critica su “La finestra dei mirtilli” di Fernando Lena e Daìta Martinez
Da una finestra si assorbe sole e aria, si osserva il mondo, il cielo azzurro o plumbeo, l’orizzonte caratterizzato da un paesaggio collinare o portuale. Immagino che questa sia la visuale consueta per i due autori Lena e Martinez, dal loro punto di osservazione. Comiso e Palermo, tratti geografici che, insieme alla sperimentazione espressiva, li accomunano più di quanto faccia la loro scrittura, almeno ad una prima lettura. E da una finestra di mirtilli, punto di osservazione sul mondo, scrivono i due autori.
I testi di Lena e Martinez, contrassegnati solo da un orario, si alternano attraverso la raccolta in modo differente anche dal punto di vista tipografico tanto da richiamare aspetti e contenuti terreni, nel caso di Lena, flussi di coscienza e flashback nel caso di Martinez. Procedendo nella lettura però trapelano flashback anche dai versi di Fernando e attività concrete e quotidiane dai versi di Daìta. Emergono i temi ricorrenti nella poetica dei due autori: la dipendenza, l’irrequietezza, la paura, l’illusione, la mediocrità, l’amore mancato, l’euforia, il viaggio, il dolore, il tempo, la morte, la solitudine nel caso di Lena; la memoria, l’attesa, l’assenza, la nostalgia, la religione, la libertà nel caso di Martinez. Ne viene fuori un’atmosfera realistica descritta nei suoi aspetti più crudi, veri e oggettivi in un caso, nonostante i pensieri, le emozioni e i giudizi siano percepibili, un’atmosfera quasi crepuscolare e malinconica che mira a rappresentare le piccole azioni e cose di ogni giorno, gli affetti, le abitudini e l’intimità di un’esistenza semplice confortata dai valori della tradizione nell’altro. Lena sogna alla finestra pensando ad un arcobaleno in due e a tutti i colori in un sogno solo, Martinez invece il ritorno all’ingenuità dell’infanzia mentre considera con ironia il desiderio di una felicità quieta e modesta.
Martinez utilizza il dialetto come lingua originaria che dà vita ad una poesia immaginifica e allegorica in cui confluiscono profumi, tradizioni, suggestioni tipiche dell’isola. La sperimentazione, che Martinez persegue, la porta a costruire quasi architettonicamente ogni parola, ogni posizione e spaziatura tra le parole in un modo che corrisponde all’afflato della lingua, al suo naturale intercalare. Demolisce la sintassi tradizionale perché i versi sono privi di punteggiatura, tuttavia catturano il lettore per il loro aspetto visivo. Si ricorre spesso al dialogo, con il suo alternarsi di interrogativi e di risposte a volte sussurrate, altre volte pronunciate con decisione e fermezza. Ad entrambi è comune la grande sensibilità, il sentire e vivere la vita con intensità e un senso di accoglienza e appartenenza al proprio mondo.
Anche Lena è poeta dalla grande sensibilità, che avverte di avere soltanto parole nella sua povertà di talento oltre a quello di perdere le coincidenze con la morte, analizza il suo rapporto con il luogo natìo, mitico e allo stesso tempo limitante e lo sublima attraverso il ricordo che conferisce ai pensieri il sapore della testimonianza. Per entrambi, la finestra è angolo di osservazione, che consente un diverso approccio e una differente lettura della realtà dovuti a esperienze di vita completamente differenti. Da quanto detto, “La finestra dei mirtilli” merita di essere letta e approfondita perché rappresenta lo stesso mondo visto da due diverse prospettive, in cui è avvincente perdersi.
© Deborah Mega
*
f:
00.00
Vorrei un giorno
dicevo a quella tossica di Adele
mentre lei mi metteva fretta nel prendergli la vena.
Un giorno avrei voluto amarla, con una fede
consegnargli il mio batticuore e tutte le epatiti.
Davanti a Dio ci saremmo scambiati le allucinazioni
promettendo metadone anzichè aghi ingestibili.
E così avrei detto amore e nei cessi poi vomitato
una delle mie tante personalità.
Ho pensato in grammi per chissà quanto tempo
immaginando che fosse lì il peso della mia volontà.
Essere con il respiro dentro l’abitudine di peccare
se ciò fosse una espiazione metodica dei polmoni
direi che ho vissuto brancolando per necessità
d’assomigliare più a una bestia che a un santo.
Vorrei un giorno che la finestra apparisse lucida
e baciandomi tra i passanti, dalle loro bocche
tu ascoltassi almeno una parola dolce di mirtilli.
(ora non lo sai, ma forse il dolore ci sorprenderà)
*
d:
23.23
accade ciurato dal grembo un merletto melanconica sutura
a mia assenza la notte arrotondata tra il catino e la maniera
chi c’hannu li manuzze mentri pigghianu l’aria frisca sutta
chiddu ca nun torna d’un orlo alla paura degli specchi
o un rovinio di latte quando è piana la fontana dentro agli attimi
primitivo il sapore a dietro un gesto dal respiro e ha cenere
guarda
la collana
della sposa
imperfetta movenza]
quest’ancestrale solitudine dalle braccia che morbide mi
asciugo candore del rimpianto sulla riva del cielo lassatu
a li lampare cunsacrate d’ogni dèi la spiranza vagnata di
nuddu ca nuddu sapi li dogghie ammucciate nta la vucca
assittata d’insonnia e collina discendente silenzio questa
ebbrezza spugghiata ‘n mezzu ciatu na fogghia crolla lei
*
f:
17.10
«Ora puoi fare da solo dicevi
come se io avessi imparato chissà cosa di così geniale
era una questione di paure
e per alcuni quelle paure li condusse alla luce».
Ma noi eravamo quelli davanti ai pub chiusi
convinti di mirare la luna con le bottiglie vuote
eravamo una specie non protetta
causa le molteplici bestemmie e l’amore
per una sola fede appuntita, maleducata.
Poi il cielo è cambiato e i colori
hanno iniziato a moltiplicare il rosso sulle camicie,
sul cruscotto: dove c’era follia quel colore
ci battezzava le cadute e mai nessuna rivincita.
Ora potresti convincermi che la vista ci ha illusi
perchè le nuvole non le abbiamo mai avute sotto i piedi
o forse sono ancora messe lì nel dipinto ispirato da Dio,
e anche se ti cerco nei dettagli appena una croce,
una foto, indicano l’evoluzione del caos:
ogni minuto dell’aria adesso è eternità,
forse non so respirare ma scrivere della mediocrità
che spinge i cancelli non lascia
nuove storie alla voce arrugginita, e ormai
varcata l’intenzione quei bambini sull’altalena
non siamo noi, capisci ?
noi abbiamo tutte le periferie in gola, ed è impossibile
gridare la bellezza all’infuori del diritto d’essere
muti fino alla resurrezione.
«Finalmente puoi fare da solo – dicevi soddisfatta –
come se avessi imparato la formula dell’accoglienza:
diluirmi nel sangue aspirando la tua dolcezza mancata
da una fiala… fu quello l’amore… tutto in percentuali
tra un collasso e un’aurora».
a volte imparo dalla saliva
l’affinità dei vomiti
sarà un’intuizione epatica,
ma vivere quello non ci riesco
è una febbre alle ossa
inestirpabile senza un’idea.
*
d:
19.43
come posso
a un nocciolo
di piede
m’inchina silenzio
o liberazione sia
velatura le unghia
dal sonno un dopo
lasciato
hai battito tempo ?
e il vuoto in un canto di cicale
affonda la notte ai nostri passi
smarrita resistenza poi ferita
l’eclissi blasfema
cavallucciu marinu
‘u mari mi scinni da
chisti occhiuzzi ccà
l’avissi pinzatu r’accussì ‘u juocu mentri unn’era jucu
[caminari all’incuntrariu unni attummuliava la
grasta e tuttu ‘u firmamentu di la vistina i centrini
[all’uncinetto la grazia di li mennule ‘u lettu in
un ramuzzu di misericordia cielo sbavato all’odore del
[mosto: l’avissi pinzatu r’accussì ‘u jocu ma
unn’era jocu iu ca nun sacciu parrari e m’ammucciu
[sutta na scorza d’aranci ché la pioggia ha il
senso del contatto mancato o mancato al contatto il giorno
[dei giorni in un casteddu di rina
appizzatu
a la vintura
dello spacco
si tramonta dalle mani il torpore
comu pozzu
arriminari li paroli
prijate
nel sangue degli apostoli
ho
libertà?
statti mutu
‘a prucissiuni sta passannu
La finestra dei mirtilli, Daìta Martinez/Fernando Lena, Salarchi Immagini, Ragusa, 2019
15 lunedì Ott 2018
Posted Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Recensioni
in≈ Commenti disabilitati su Nota critica su “La profezia dei voli” di Fernando Lena
Dall’abisso alla rinascita
Se ci si aspetta una consueta pur se mirabile silloge di poesie da La profezia dei voli di Fernando Lena, edita da Archilibri nel 2016, si potrebbe restare inizialmente spiazzati perché è molto più avvincente e commovente di una raccolta poetica. Continua a leggere
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.