Frequento la poesia da un po’ e di libri ne ho apprezzati, accantonati, imitati, cestinati ma mai in nessuno ho trovato il suggerimento di un brano ideale che si legasse “emotivamente” a ogni sezione di testi e fungesse da tappeto sonoro da cui attingere e verso cui dirigere emozioni e rimandi. Avviene questo leggendo i testi di Domenico Cipriano, poeta di grande eleganza, raffinatezza, sobrietà e, dote ancora più pregevole e rara di questi tempi, umiltà. La sua ultima raccolta, pubblicata da Ladolfi Editore è intitolata “La grazia dei frammenti” e raccoglie una selezione aggraziata e curatissima di poesie scritte nell’arco di un ventennio, a partire dal 2000. Il tentativo, neanche troppo celato, è quello di fornire al lettore un’esperienza suggestiva di incontro tra le arti. E in effetti, la nota biografica dell’autore menziona progetti di incontro con la musica, realizzazione di CD di jazz e poesia, videoperformance, testimonianze tutte di un grande interesse per le arti, in particolare per la musica. È evidente fin dalla prima lettura dei testi la maturità e la consapevolezza stilistica del nostro, insieme alla motivazione che senza dubbio lo ha mosso, quella di raccogliere e riorganizzare la propria produzione. Le poesie, antologizzate in ordine cronologico di pubblicazione fino a formare un corpus distinto in cinque sezioni, sono tratte da Il continente perso (Fermenti. Roma, 2000), Novembre (Transeuropa, Massa, 2010), Il centro del mondo (Transeuropa, 2014), L’origine (L’Arcolaio, Forlimpopoli, 2017); i testi della sezione finale Nel bicchiere da consumare, invece, sono inediti in volume.
La sezione iniziale è introdotta da una citazione tratta da La ragazza Carla di Elio Pagliarani e, come tutte le altre sezioni, da una vera e propria guida all’ascolto, testimonianza di un amore viscerale per la musica di ogni genere (dal jazz, al classico, alla world music, alla musica etnica, elettronica, ecc). E l’amore è il primo tema che affiora leggendo gli equilibrati versi di Cipriano: amore per la propria terra mitizzata, l’Irpinia, quando scrive “Sulle mie montagne / c’è il mare”, tempestoso perché riflette gli animi della gente che non sogna né spera nel cambiamento. Mentre il tempo scorre lentamente, rarefatto e sospeso, e le stagioni mutano segnali, Cipriano descrive una realtà statica i cui abitanti restano ad osservare il treno dai monti. L’Irpinia di Cipriano è primordiale, astorica, immobile, tanto da provocare la partenza di molti. Dall’amore per la propria terra si passa all’approfondimento dell’amore per una donna, Maria Carmela, nella breve ma intensa sezione intitolata “Le tue grazie”, in cui l’autore decanta la condizione di innamoramento e felicità per l’amore ricambiato e corrisposto e vive un appagante stato di grazia dato dalla bellezza e dalla semplicità del momento. La scrittura è caratterizzata da chiare immagini visive e da un linguaggio che si autogenera, rivelando caratteristiche di concisione e luminosità: molti testi, infatti, in particolare quelli delle sezioni Città degli occhi e Intermezzo, confermano il taglio epigrammatico-aforistico. Le soluzioni metrico-ritmico-foniche (assonanze, consonanze, allitterazioni) rafforzano l’eleganza e l’arguzia dei testi. La forma metrica è molto vicina alla prosa, in grado di assumere un ritmo che, nei momenti di maggiore intensità, riesce a trasportare il lettore fino al piano metafisico del dramma. “Novembre” si apre infatti con frammenti lirico-prosastici di grande intensità. Già il titolo è molto evocativo, Novembre è il più crudele dei mesi, altro che Aprile come scriveva Eliot. La sezione è dedicata al tragico terremoto che colpì la terra del poeta il 23 novembre 1980 alle 19,34. In relazione alla struttura, appare un triste gioco di rimandi e di corrispondenze studiati ma sentiti tutti sulla propria pelle: le poesie sono 23, composte da strofe eptastiche. Nella versione originale edita nel 2010, il prologo è di 34 versi e l’introduzione di 11 che corrisponde al mese di novembre. In alcune strofe Cipriano diventa narratore onnisciente, testimone dei fatti, adotta la prima persona perché i frammenti sono autobiografici, materiale di analisi private ed esistenziali, in altri la poesia si fa corale, uscivamo come formiche disorientate, cercavamo con le auto il rifugio più sicuro, accettavamo il freddo, ci stringevamo per proteggerci, questa sera ceniamo con la morte, ecc. Moltissime sono le occorrenze della parola voce che diventa testimonianza che resta, memoria, rievocazione di quello che è successo. I testi tratti da Il centro del mondo per la sezione Le stanze nascoste e Irpinia metafisica sono intimistici e colloquiali, colgono sensazioni, ricordi del passato relativi ai propri affetti familiari, del resto cos’è il centro del mondo se non la nostra casa? Nel primo testo il poeta è così assorto nella contemplazione fantastica del tramonto che prova un senso di smarrimento. Le voci intrecciate in lontananza scandiscono lo scorrere del tempo e suggeriscono l’idea dell’eternità mentre il bagliore di una luce sterminata si insinua sottopelle. Il guizzo della mente coglie descrizioni di attimi di vita vissuta, memorie personali di persone care, visioni oniriche di oggetti, sensazioni, profumi. L’osservazione è diretta anche ai primi giorni di vita della propria figlia, di Sofia, che apre gli occhi sfidando la luce, che scopre le mani, che osserva il mondo che la circonda, che sorride alle cose, che cresce e cambierà così come cambiano le cose abbandonate. E lo smarrimento esistenziale si coglie quando ci si confonde come un fungo tra le foglie prima di rifiorire tra le croste dei bar sconsacrati e lo si ritrova anche nell’aggettivazione usata nei vari costrutti come siamo rifugiati, presente evanescente, storia rinnegata, vuoto incomprensibile. Perfino i rami sono pigri e riflettono / la coscienza della gente, sono tristi e si lamentano del freddo, del caldo, della solitudine e della noia. Il senso di smarrimento lo si ritrova anche nella sezione successiva, Città degli occhi, quando ci si sente viaggiatori del mondo in cui passano persone /senza mai incontrarsi e si descrive la sensazione di sentirsi anonimi / in tanta umanità distesa. Cipriano è un viaggiatore che parte per tornare ai luoghi di origine perché il senso di appartenenza alla propria terra è fortemente radicato in lui ed emerge, in particolare, nella sezione Natura domestica & Lampioni. Nella sezione L’origine, è descritto l’intimo inizio del mondo, descritto con grande capacità di osservazione, nei suoi dettagli più nascosti. L’ultima sezione, l’inedita Nel bicchiere da consumare ricorda Neruda e comprende sei poesie celebrative, inebrianti, non a caso dedicate al vino come momento di condivisione erotica, di allegria, come prodotto autunnale che richiama per il suo colore le labbra vive della donna amata. Solo in questi frammenti e nella sezione già citata Le tue grazie, tratta da Il continente perso, si avverte il superamento dell’inquietudine amara che traspare da tutte le altre sezioni. Cipriano si fa interprete e portavoce della disillusione e dell’afasia di un’intera generazione, le cui speranze e aspettative sono state tradite e deluse. Ecco forse la missione di riscatto morale della parola poetica e il desiderio del poeta di tramandare e trasmettere ai posteri, con incisività descrittiva, la propria storia, la propria osservazione e interpretazione della realtà. Al di là del tono elegiaco e malinconico di buona parte dei componimenti, le caratteristiche di autenticità, sobrietà e compostezza formale della poesia di Cipriano, a mio avviso, la rendono classica e universale dunque destinata a vivere e a durare.
© Deborah Mega
*
Sulle mie montagne
c’è il mare.
Lo guardo appoggiando
l’ombra a un palo.
Sempre tempestoso
riflette gli animi
di questa gente.
Chi vive lì sotto
vede fosche giornate
ripetersi, inutili,
senza sogni, né
speranza di cambiare.
Siamo pochi
rimasti a guardare
questo mare.
Scompare
a Mezzogiorno,
quando la bassa marea
assorbe le sue nuvole.
Se ti abbandonerò
non è per il tuo odore umido
di terra a novembre
ma per l’odio giallo delle fronde
sul tuo costato di roccia chiara.
Animali da fieno
battono zoccoli duri
sulla tua pietra bianca,
il cuore spoglio tutto l’anno
del geranio disarma
mi rende estraneo.
(a Maria Carmela)
I sogni illuminano il buio
per questo ti ho conosciuta
nella notte sonnecchiata,
riccioli bruni, sorriso vibrante
sguardo sicuro. Piano si assenta
la sera nei nostri racconti
scuciti dai troppi rattoppi
barcollanti e sbiaditi:
ti ho cercata attendendo
un crocicchio al sole.
La notte confonde le viole
e tu hai confuso ogni nota
alla musica nella mia testa:
il tuo viso è quello che resta.
(Monteforte Irpino, 29 marzo 1999 ore 1,40)
1.
trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie. è un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa. confonde la terra che affonda, ti rende sua onda, presente a ogni lato soffoca il fiato, ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole e combatti, chiede il contatto, ti attacca, ti abbatte. è fuoco la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema riempie memoria. ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.
11.
sciacalli sui resti delle case, tra i morti e le pietre, ma nel freddo si nutrono aiuti improvvisati, attrezzati con la forza della stessa notte. l’anima di un carcerato strappa dal pigiama una benda e stringe il sangue della ferita sconosciuta: lo racconta mia cugina che di quel sangue porta i segni.
13.
è della notte il grido ancora vivo mentre sistemiamo i pacchi in numeri col pennello rosso che segna le pietre. si rimette ordine classificando i danni le case sbriciolate, le vite perdute, ma nel conteggio si perde lo strazio le lacrime versate, il futuro inaridito.
Disteso sui miei sensi penso
(oltre le nuvole e le luci dei lampioni
alari) col fiato sospeso sulle colline blu.
Nemmeno i corpi uniti nell’amore
e racchiusi in un respiro solo sanno dire
dell’immenso in cui mi perdo ora
per questo tramonto vulnerabile e mobile
nel bagliore di una luce sterminata
tra le voci intrecciate in lontananza.
Se apparteniamo – per un istante –
a un’altra vita, a un’epoca leggendaria,
non ci è dato sapere dal poco che tracciamo
sciogliendo in illusione le certezze.
È quel bagliore, che si insinua vorticoso
oltre la forza decisa delle ossa,
ad aprire un nuovo varco sotto pelle,
a rinominare infinito il suono delle cose,
di quell’oceano che si nasconde eternamente
dentro al volto immobile dei monti.
(Montefusco, 8 gennaio 2012)
Sulla tua faccia il rossore
di vino e ti sfioro l’orlo
della camicia ma non lascio
che il tocco scombini ogni forma
ed osservo il tuo riso, il gioco
parlando, sfiorando la fronte.
Attiro alla voce la voglia
di vita, risalirei nella valle
profonda le dita ed aspetto
godendo (come allora) il tuo viso:
ogni amore è improvviso.
Testi tratti da La grazia dei frammenti di Domenico Cipriano, Giuliano Ladolfi Editore, 2020.
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