
omaggio a un poeta, Giorgione, 1505
Col titolo “Una vita in scrittura” Limina mundi avvia un’iniziativa partecipativa che, come dice lo stesso titolo, vuole mettere in luce quanta dedizione richiede la scrittura e quanto lega a sé diventando fulcro di un’esistenza, compagna di vita
L’iniziativa è rivolta ad autori che scrivono da tempo, che hanno quindi un’ampia esperienza in scrittura, una carriera letteraria alle spalle, possono testimoniare l’atto di fedeltà alla parola. E’ quindi un invito, ma nel contempo un omaggio.
L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto”, il suo saper fare anche oltre l’atto della scrittura in qualunque ambito sente appartenergli: professionale, creativo, artigianale, degli affetti… senza limiti, in linea con lo spirito del sito.
Libertà anche nella forma: un racconto autobiografico romanzato, un “automatismo ritratto”, cioè un proprio ritratto in scrittura automatica, un flash su un episodio o persona importanti o significativi del proprio percorso, un’intervista nella quale le domande sono formulate e le risposte sono date sempre dallo stesso autore, persino una singola poesia o raccolta di poesie che l’autore riconosce come “autobiografiche” sono modi possibili con cui cor-rispondere oppure rispondendo semplicemente alla domanda: Ci racconti la tua vita in scrittura?
L’invito è stato rivolto Franca Alaimo che l’ha interpretato come segue
Grazie infinite, Franca.
La mia mamma adottiva era una maestra e amava molto la poesia, tanto da avere l’abitudine di commentare eventi e stati d’animo con i versi dei suoi poeti più amati, specialmente Dante, Carducci e Pascoli. Pochi giorni dopo essere entrata nella mia nuova casa (erano gli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso), lei pensò di organizzare una festa per presentarmi ai parenti, e, allo scopo di sbalordirli, mi fece recitare una poesia addirittura in lingua francese, che in seguito scoprii essere di Prévert. Fu un vero successo al punto che i figli della più cara amica di mamma, Alfonso e Gino, ogni domenica d’estate mi venivano a prendere con la loro giardinetta e mi portavano a Isola delle Femmine, dove un loro amico aveva aperto un ristorante, perché recitassi alcune poesie per i clienti abituali con quel sentimento appassionato che li aveva tanto conquistati. Zino e Alfonso mi sollevavano fin su un allto ripiano di ferro, e da lì io declamavo tre o quattro poesie, accompagnandole con una vivace gestualità.
Quando, nei giorni di vento, udivo alle spalle il rumore del mare come uno strumento a fiato che suonasse un pezzo musicale, alzavo la voce immaginando di gareggiare con esso. In quei momenti non percepivo nient’altro che le vibrazioni sonore che mi uscivano dalla gola e dopo si spegnevano, uno dopo l’altro, nell’aria odorosa di salmastro. E a volte mi sembrava di andare in un luogo magico e lontanissimo, da dove mi richiamavano gli applausi dei commensali. Già allora percepii di sfiorare qualcosa anche di doloroso, che probabilmente avrei dovuto, in seguito, sopportare da sola. In altre parole, la poesia mi aveva da subito fatto capire l’importanza dei suoni al di là dei significati che, a quell’età, spesso non riuscivo a cogliere.
Naturalmente, in ogni occasione in cui fosse necessario recitare qualche poesia, a scuola per le recite di fine anno, o in parrocchia a Natale e a Pasqua, ero sempre io quella che aveva il compito di recitare versi, e ne ero orgogliosa.
Un pomeriggio – frequentavo la quinta elementare – scrissi una poesia ispirata agli eroi del Risorgimento e la mattina dopo la feci leggere alla mia maestra, Domenica Papuzza, la quale mi diede la prima grande e mai più dimenticata lezione: che non bastava allineare belle parole e fare le rime, ma ispirarsi ad emozioni vere ed evitare al massimo la retorica. Però aggiunse che, secondo lei, avevo talento e mi esortò a non smettere di scrivere versi..
Mio padre, intanto, aveva ricevuto l’incarico di gestire la biblioteca del Circolo dei sottoffuciali e, siccome amavo stare con lui, quasi ogni mercoledì lo seguivo e non c’era volta che non mi portassi qualche libro – scelto a caso per via della bella copertina o della suggestione del titolo o del nome dell’autore – da leggere a casa, dopo avere finito i compiti. Cominciai così a conoscere tanti personaggi straordinari come Don Chisciotte, Ofelia, il principe Myskin di Dostoevskij: forse , allora, non potevo capirli profondamente, ma li intuivo e mi commuovevano, e soprattutto mi convincevo che, da grande, mi sarei dedicata alla scrittura perché, attraverso essa, avrei potuto portare fuori tutte quelle cose che mi stavano nel profondo dell’anima e che chiedevano di essere dette per turbarci e consolarci allo stesso tempo, come avrei compreso dopo.
Durante i tre anni frequentati nella Scuola Media Protonotaro, sempre a Palermo, incontrai un’insegnante che pretendeva la memoria di tutte le poesie studiate in classe. Fu questo esercizio a farmi comprendere l’importanza della disposizione delle parole, l’effetto soprendente e incantevole delle figure retoriche, di certi accostamenti, che davano nuova vita e significato a termini logorati dall’uso. In questo modo, poco alla volta, constatavo come il linguaggio poetico fosse un altro modo di raccontare la vita e il mondo.
Ero ancora un’adolescente – siamo già negli anni sessanta – quando, spinta dalle forti emozioni provocate dal mio primo innamoramento, cominciai a scrivere poesie d’amore, imitando più o meno inconsapevolmente Neruda. Mi accorsi che scrivere versi mi piaceva molto così come leggerli, tanto che divorai tantissimi libri di poesia, innamorandomi di Rilke, Eliot, Emily Dickinson, Pound, Ungaretti, Saba, Campo, gli autori greci e latini, specialmente Lucrezio, e moltissimi altri.
Durante la frequentazione della Facoltà di Lettere classiche, a Palermo, accadde la contestazione del ’68 che diede uno scossone violento alla mia vita personale e alla mia formazione culturale. Cominciai a studiare i poeti dell’Avanguardia russa, a interessarmi degli sperimentalisti italiani, di movimenti letterari e autori fortemente ideologizzati. Cominciai a seguire i poeti dell’Antigruppo siciliano e ascoltai alcuni recital tenuti nelle piazze, nelle fabbriche, ma vi aderii ufficialmente tardi, quando era stato già superato da un nuovo assetto economico-sociale, sopravvivendo alle sue ceneri. Fu proprio Nat Scammacca, anima della protesta, a curare l’edizione del mio primo volume di poesia: Impossibile Luna: era l’anno 1991.
Da allora ho pubblicato più di venti sillogi (la più recente è 7 poemetti, edita con LibriPoesia di Cati nel gennaio dell’anno in corso), tre romanzi e tantissime schede critiche per varie riviste: L’Involucro di Pietro Terminelli e Spiritualità & Letteratura di Tommaso Romano, che mi hanno permesso di conoscere tantissimi scrittori con molti dei quali si è stabilto un forte legame d’amicizia: penso a Franco Loi, Mario Specchio, Barberi Squarotti, Luciano Luisi, Mario Luzi, Renzo Gherardini, Silvano Panunzio, Maria Grazia Lenisa, Gianfranco Draghi, Peter Russell (di cui ho tradotto due sillogi dall’inglese), che purtoppo non sono più, ma dei quali conservo la corrispondenza epistolare.
Oggi, grazie ad Internet, ho stabilito una rete molto ampia di conoscenze ed amicizie bellissime a cui si aggiungono giorno dopo giorno sempre altri nomi; ed ovviamente, abitando a Palermo, ho frequenti incontri con gli autori che vi operano, tra i quali: Martinez, N. Romano, Giunta, Bonfiglio, Peralta, Lombardo, Balistreri, Sant’Angelo, Camassa, Luzzio, Sardisco, Grato e tantissimi altri. Seguo con molta gioia gli autori giovani, quelli che avranno il compito di proiettare l’arte poetica nel tempo che sarà vuoto di me: Castrovinci, Prestileo, P. Romano, Schirò, De Lisi e così via.
Sebbene abbia già scritto tanto, non credo di poter dire che la mia lingua abbia raggiunto la sua forma definitiva: penso, infatti, che la lingua debba crescere insieme al poeta e ai mutamenti dei tempi che attraversa. Desidero aggiungere altri capitoli alla mia storia d’amore con la poesia e, come sogno, i più importanti.
Franca Alaimo
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