Tag

,

Il successo della rubrica “Una vita in scrittura”, l’iniziativa partecipativa dedicata alla scrittura avviata nel mese di marzo scorso, ci ha fatto riflettere che la scrittura è una delle arti nelle quali si esprime il bisogno artistico, culturale, creativo umano, ma non l’unico. Non minore dedizione richiedono: fotografia, pittura, cinema, teatro, scultura, musica… altrettanti fulcri d’esistenza, e compagni di vita. Abbiamo pensato quindi di rivolgere l’iniziativa ad artisti che si dedicano da tempo all’arte e possano essere testimoni di fedeltà ed esperienza nella creazione artistica. Un invito, ma, nel contempo, un omaggio. L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una bibliografia, ma in libertà, l’ingresso nell’esperienza d’arte nella propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò che rende tale l’artista, che costituisce il suo mondo, nella forma che egli ritenga più congeniale: un racconto, poesie autobiografiche o “metartistiche”, fotografie, dipinti, un’intervista a se stessi nella quale porsi le domande che si sarebbe desiderato sentirsi rivolgere e fornire poi le risposte, un video, un file audio sono tutti modi possibili con cui cor-rispondere alla domanda:

Ci racconti la tua vita nell’arte?

Su invito di Maria Grazia Galatà risponde il regista Rodolfo Bisatti

L’Arte? Una forma minima ma necessaria di esistenza

Io non credo esista una vocazione particolare per diventare artisti, la vocazione, semmai, sta nel non esserlo e accettare di condurre una vita in funzione di un lavoro che non ami o ami troppo poco. Non ho alcuna visione romantica dell’arte proprio perché la considero la routine necessaria alla sopravvivenza e non qualcosa di superfluo, di inessenziale; un supplemento facoltativo. Ripeto, quello che pomposamente viene chiamato artista è semplicemente una persona normale che sta vivendo la sua prassi biologica. Nella scala di valori dell’esistenza al primo posto viene il gioco, poi il cibo. Cibarsi senza gioia significa coltivare con rigore la propria malattia.

Trovo insensato il lavoro fine a sé stesso con unico scopo utilitaristico quello di racimolare la paga che ti consenta di sopravvivere per ritornare al lavoro. Aver portato la società a questa condizione ricattatoria è una prerogativa del Potere che è inetto, frustrato, castrato e odia l’arte, per questo cerca affannosamente di riempire tutti i buchi con pattume culturale servile. Ma tornando alle cose essenziali, ci sono moltissime forme di attività creativa, anche il collezionista è ossessionato dalle sue preziose raccolte, il maestro di Yoga, lo sportivo, chi ha l’assillo dell’estetica, chi sa fare bene il proprio mestiere artigianale. Ho conosciuto un fisico che lavora nella robotica, il su discorrere è simile a quello di un mistico piuttosto che a quello di uno scienziato. In sostanza per vivere è necessario avere una passione imprescindibile che può manifestarsi in tante forme. Stringendo il campo a pochi concetti posso dire che l’Arte è lo scopo biologico dell’Uomo. Questa è una frase che ho mutuato da un poeta russo: Joseph Brodsky e che cito sempre molto volentieri. Il mistero non sta in chi crea ma in chi non lo fa e s’accontenta della sua condizione sottomessa. In questa prospettiva credo che la competizione e l’utilizzo dell’arte per primeggiare su altri sia una forma puerile di gratificazione, anche perché è incompatibile con il senso dell’Arte che è quello di creare un ponte con la trascendenza, di attivare un dialogo con Dio e non una competizione per assicurarsi il podio. Per chi obietta che la mia è una visione elitaria e aristocratica, o misticheggiante, dico che tutti i popoli primigeni mettono al primo posto la sacralità dell’arte, con pratiche come lo yoga dell’India, le tecniche del respiro cinesi o la ginnastica viscerale degli antichi Maori, per non parlare del ruolo della danza in tutta l’Africa centro meridionale. E che dire poi del Tibet, dello sciamanesimo nelle regioni siberiane e centro asiatiche. L’arte e la spiritualità sono sinonimi. E qui arriva il punto dolente della questione che è la decadenza dell’occidente che s’è votato anima e corpo, anzi solo corpo, alla materia negando l’anima, sostituendo l’Essere con l’Avere. In questa dimensione materialistica sono stati cacciati gli dei per sostituirli con le cose. La farmacologia del divertimento occidentale è una forma puerile di azione artistica manchevole del suo lato spirituale e per questo foriera di profondo disagio e di perdita di credibilità. È così che s’è creata la spaccatura, la scissione tra artisti e spettatori, divisione impensabile altrove. Distruggendo la tradizione giudaico cristiana ci siamo ritrovati nel nonsense avvenente, in una vita priva di contenuti, disorientati di fronte al ragazzo pakistano che prega, ad ore stabilite, genuflesso in direzione della Mecca. Da noi quando si entra in chiesa per pregare bisogna prima guardarsi attorno per assicurarsi che qualcuno non ti veda, perché è vergognoso invocare, chiedere aiuto, implorare, piangere. E qui il lavoro del cosiddetto artista occidentale si complica perché da un lato deve esprimersi ma anche portare con sé la necessità di ripristinare il primato dello spirito sulla materia. Per tutto il novecento c’hanno provato gli artisti, dal primo all’ultimo, ne citiamo solo una manciata casuale: Kandinsky, Madame Blavatzky, Hilma af Klint , Giorgio de Chirico,  Joseph Beuys , Yoko Ono, Giuseppe Penone, Gina Pane, Hermann Nitsch, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Mimmo Paladino, persino Cattellan, ma l’elenco è molto più vasto ovviamente. Non sono mai riuscito ad intercettare una sola opera d’arte che non fosse una porta spalancata sulla trascendenza. Ricordo lo smarrimento e l’accelerazione della respirazione e del battito cardiaco quando mi sono trovato di fronte a Pesci Rossi di Matisse… Ma pensiamo alle nature morte di Morandi, ai pesci sacri di De Pisis, alle sculture arcaiche di Picasso. Certo le forme e le intensità cambiano, tra le tradizioni millenarie e le iniziative individuali ci sono differenze sostanziali, c’è un grosso dibattito attorno a questa faccenda, cioè sulla data da segnare come inizio della decadenza, c’è chi la fa partire con il Rinascimento, quando l’artista si riappropria del proprio ego. La potenza assoluta di Michelangelo determina una cesura precisa e la Pietà di Milano, la Rondanini, è nel contempo la fine dell’antico e l’inizio e la fine del moderno. Comunque, tagliando corto, nella sostanza, la direzione dell’Arte è la medesima: non c’è arte senza fede e non c’è fede senza arte. La fede per l’artista non è l’apologia della religione, ma il suo opposto, ed ecco il grande blasfemo, il teorico della crudeltà, l’eretico, il bestemmiatore. Artaud rappresenta e incarna lo spirito più profondo, assieme a Nietszche, della spiritualità dell’arte del novecento (retroattivo di un secolo e post attivo di un altro)

Chiunque abbia affrontato un percorso creativo s’è reso conto della limitatezza del pensiero materialista, scientista, di basso cabotaggio, inservibile per chi fa il nostro mestiere. Gli artisti vivono di miracoli e spesso sono costretti alla precarietà, diciamolo pure alla fame o alla follia, ma sono i veri sacerdoti dello spirito, questa verità può irritare e infastidire i burocrati dell’anima, o gli economisti della cultura, ma è piuttosto difficile smontarla. Ma se qualcuno ha i numeri per farlo, ci provi.

Rodolfo Bisatti